La retribuzione dei professori universitari. Mito e realtà Stampa
Negli ultimi anni la polemica sui guadagni degli universitari è stata virulenta e tesa ad abbattere il “mito” della bassa retribuzione dei professori universitari italiani, che sarebbero “poveri ma bravi”. Non è facile affrontare questo tema in quanto non sono molte le indagini internazionali comparative sulla struttura salariale dei docenti universitari; questa volta l’Oecd non ci viene in soccorso (si limita agli stipendi del personale della scuola) e anche Eurostat tace. Dobbiamo quindi cercare di capirne qualcosa dalle poche fonti d’informazione a nostra disposizione. Perotti si limita a paragonare gli stipendi nelle università italiane e britanniche, arrivando alla conclusione che, benché gli stipendi iniziali italiani siano inferiori alla media di 10 università britanniche e ancor più a quelli di Oxford, tuttavia le retribuzioni medie e massime di ricercatori e associati sono superiori; per quelle degli ordinari inglesi non è disponibile il dato del massimo, ma Perotti “suppone” anche che siano inferiori a quelle italiane. Come chiosano Alesina e Giavazzi, «Perotti calcola che a sessant’anni la retribuzione di un professore universitario - indipendentemente dalla sua produttività - è maggiore di quella dell’80% dei professori universitari statunitensi a tempo pieno che insegnano in un’università con un corso post-laurea e del 95% di quelli che insegnano in università che non offrono corsi post-laurea. E questa sarebbe la miseria che prendono i professori universitari!». È il là per una campagna di stampa in cui viene sparato a pieni titoli che gli universitari italiani “lavorano 3 ore il giorno e guadagnano 10mila euro il mese”, così come si legge nel titolo di un’inchiesta del ‘Il Giornale’ del 21 luglio 2008, che utilizza i dati della Ragioneria dello Stato ripresi a loro volta da Il Sole 24 Ore del maggio precedente. Ma tali cifre necessitano di alcuni indispensabili chiarimenti. Innanzi tutto - ed è la cosa più importante - gli anni di anzianità sono nel ruolo e non nella carriera universitaria. Ciò significa che al passaggio di fascia (ad es., da associato a ordinario) si ricomincia quasi d’accapo perché della carriera pregressa sono riconosciuti al massimo 8 anni. Quindi, un associato che ha 20 anni di servizio, nel momento in cui diventa ordinario avrà solo 8 anni di servizio e sarà inquadrato pertanto nella 4ª classe stipendiale. Se si considera che lo stesso avviene per il passaggio da ricercatore ad associato, è facile immaginare quanta anzianità si perde. Inoltre, non si diventa ordinari subito dopo la vittoria della “valutazione comparativa”, ma prima si resta per tre anni “straordinari”, con stipendio iniziale fisso (il periodo di “prova”) cui succede la conferma in ruolo con un’apposita valutazione da parte di una commissione nominata dal Ministero. Perciò si perdono altri tre anni. Insomma, per sviluppare il massimo della carriera da ordinario, considerando che attualmente il pensionamento è previsto a 70 anni, e così arrivare allo stipendio netto di 4.906 euro (senza considerare gli scatti biennali) bisogna diventarlo almeno a 47 anni, assumendo di avere già accumulato un’anzianità di associato di almeno 8 anni e tenendo conto dei tre anni di straordinariato. Ma come sappiamo dall’ultimo rapporto del CNVSU (Comitato Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario, Undicesimo Rapporto sullo Stato del Sistema Universitario, Gennaio 2011, p. 140) l’età media d’ingresso in ruolo per professore ordinario ha il suo massimo nel 2008 di 57,3 anni, con una media di 51,4 nel periodo 2000-2010. Perciò si è calcolato che in media i professori ordinari possono maturare un’anzianità di 22-23 anni.
(Fonte: Blog di F. Coniglione 23-03-2011)