Perché nella ricerca non facciamo gli inglesi? Stampa

Dato l'ammontare di risorse destinate al sistema universitario, la produttività italiana in termini di ricerca è in linea con quella degli altri paesi europei. L'eccezione è la Gran Bretagna: un sistema decentrato e meritocratico che riesce a ottenere buoni risultati con risorse limitate. Altri paesi se ne sono resi conto e stanno seguendo l'esempio inglese, l'Italia no. La riforma Gelmini fa qualche timido passo in avanti sulla ripartizione dei fondi, ma taglia le risorse esistenti e aggiunge prescrizioni centralistiche nella gestione delle risorse umane.

Una riforma dovrebbe essere preceduta da uno studio approfondito delle possibili alternative, fondato su un confronto internazionale di best practices. In Italia non succede quasi mai e la riforma universitaria proposta dal ministro Gelmini non fa eccezione. Lavoce.info ha cercato di sopperire a questa carenza (si veda, tra gli altri, questo articolo di Daniele Checchi e Tullio Jappelli. (1)

In questo contributo, basato su un lavoro presentato recentemente alla Camera dei Deputati (http://econ.lse.ac.uk/staff/prat/papers/roma.pdf), cerchiamo di vedere se esistono differenze sistematiche tra la produttività in termini di ricerca scientifica dei diversi sistemi universitari europei. Le misure che proponiamo sono rozze e soggette a evidenti limiti, ma crediamo tuttavia che aiutino a portare alla luce alcuni elementi importanti per valutare la riforma Gelmini.

INDICI E RISORSE

Utilizziamo due misure. La prima è l’indice di produttività scientifica costruito da David King. (2)

Si calcola il fattore d’impatto di tutti i contributi catalogati da Thomson Isi (solo discipline scientifiche) dal 1997 al 2001. In ogni disciplina si selezionano i contributi con un fattore d’impatto nel percentile più alto – le chiamiamo pubblicazioni eccellenti. Infine, si attribuiscono tali pubblicazioni ai diversi paesi a seconda dell’istituzione a cui gli autori appartengono. L’indice finale è il numero di pubblicazioni eccellenti per ogni milione di abitanti.

L’altra misura è semplicemente l’ammontare di risorse, pubbliche e private, dedicate al sistema universitario. Tra i paesi europei esistono grandi differenze: si va da meno di 100 euro per cittadino in Grecia a quasi 700 in Danimarca. (3)

Se confrontiamo la misura di produttività di King con la spesa universitaria pubblica pro capite (vedi grafico), otteniamo un risultato netto. La maggior parte dei grandi paesi europei si situano approssimativamente su una retta che parte dall’origine. La correlazione tra fondi pubblici e risultati scientifici è quasi perfetta. In particolare, la differenza tra quattro grandi nazioni – Francia, Germania, Italia, Spagna – ricalca quasi perfettamente le differenze di risorse. Ecco la “normalità” italiana: in un panorama europeo, il nostro sistema universitario produce quello che ci si aspetterebbe date le risorse disponibili.

L'ECCEZIONE GRAN BRETAGNA

La Gran Bretagna, in contrasto, produce molto di più di quanto ci si aspetterebbe. Paragonata alla Francia, spende un po’ meno e produce il doppio. Perché?

Sgombriamo il campo da due possibili spiegazioni: il vantaggio conferito da un sistema universitario di lingua inglese (altrimenti anche l’Irlanda dovrebbe essere altrettanto produttiva) e la possibilità che in Gran Bretagna le risorse provengano da fonti diverse (come negli altri paesi europei, la maggior parte dei fondi viene dallo Stato). La risposta secondo noi va cercata in due fattori che distinguono nettamente la Gran Bretagna (e in misura minore l’Olanda) dagli altri paesi europei.

Primo, gli atenei inglesi hanno una piena autonomia gestionale in termini di risorse umane. Possono assumere, promuovere e rimuovere docenti con procedure simili a quelle del settore privato. Non esistono farraginosi concorsi pubblici o ferree regole nazionali. Come tutti i settori basati sulla creatività individuale, l’università ha bisogno di un’enorme flessibilità nella gestione del capitale umano. Immaginate Google che cerca di fare innovazione con regole simili a quelli delle università europee?

Secondo, i soldi pubblici sono distribuiti secondo criteri trasparenti e meritocratici. Dal 1992, quasi tutti i fondi di ricerca sono assegnati tramite il Research Assessment Exercise (Rae). (4) I fondi vanno all’ateneo e non agli individui o al dipartimento. I rettori, sapendo che il costo di avere ricercatori poco produttivi è alto, tolgono risorse e talvolta licenziano docenti incompetenti o troppo distratti da attività esterne; invece creano meccanismi per attirare e premiare giovani bravi.

Per concludere, la Gran Bretagna sembra avere trovato un sistema per produrre ricerca scientifica in maniera efficiente. Altri paesi se ne sono resi conto e stanno cercando di applicare alcuni degli aspetti del modello inglese. Si vedano in particolare gli elementi di autonomia e meritocrazia della riforma appena varata in Francia.

Autonomia e meritocrazia sono complementari. (5) Dare incentivi per la ricerca senza autonomia sulla gestione delle risorse umane che la producono è inutile perché gli atenei non hanno strumenti per aumentare la produttività, mentre dare autonomia su assunzioni e salari senza la disciplina degli incentivi è pericoloso perché gli atenei non soffrono le conseguenze di assumere ricercatori su criteri non meritocratici.

Per lungo tempo l’Italia ha adottato il sistema opposto, senza incentivi e senza autonomia. Si è poi passati all’autonomia sulle assunzioni senza incentivi sulla produttività, con conseguenze disastrose e prevedibili.

Per avvicinarsi alla Gran Bretagna, l’Italia dovrebbe: 1) aumentare un po’ le risorse destinate all’università; 2) utilizzare un meccanismo alla Rae; 3) lasciare agli atenei autonomia nella gestione delle risorse umane. La riforma Gelmini fa qualche timido passo in avanti sul secondo punto, ma fa passi indietro sugli altri due, tagliando risorse esistenti e aggiungendo altre prescrizioni centralistiche sulla gestione delle risorse umane.

(1) Si veda anche Roberto Perotti, L’università truccata, Einaudi, 2008.

(2) David A. King, “The Scientific Impact of Nations: What Different Countries get for Their Research Spending.” Nature, vol 430, p. 311-316, 2004.

(3) Dati 2000 – spesa totale per l’università divisa per numero di abitanti.

(4) Dal 2010 ribattezzato Research Excellence Framework (Ref).

(5) Si veda Philippe Aghion, Mathias Dewatripont, Caroline M. Hoxby, Andreu Mas-Colell e André Sapir, “The Governance and Performance of Research Universities: Evidence from Europe and the U.S.”, Nber Working Paper No. 14851, April 2009.

(O. Bandiera, A.Prat, Lavoce.info 21-07-2010)

COMMENTI PRESENTI SULLA NOTIZIA

Nome: Lorenzo Marrucci  Data: 21.07.2010

Un altro importante elemento distintivo del sistema universitario britannico (in comune con l'Olanda, che non a caso è un altro sistema con performance superiori alla media, nonché con la Svezia, e in tempi più recenti con la Danimarca, che forse sono meno efficienti a causa della grande disponibilità di risorse) è un modello di governance degli atenei non autoreferenziale. Il council o court che governa ciascuna università britannica è, infatti, composto in maggioranza di lay members (ossia esterni all'ateneo), con la sola eccezione di Oxford e Cambridge (che avendo una tradizione di eccellenza hanno potuto finora permettersi di conservare una governance più antiquata). Inoltre, i vice-chancellor (equivalenti ai nostri rettori) e, almeno in parte, la dirigenza accademica intermedia (dean e simili) sono tutti reclutati dal council/court o dai dirigenti superiori e non eletti, e quindi sono di fatto figure assimilabili a dirigenti professionisti, anche se con background accademico (questo è ormai vero anche a Oxford e Cambridge). Questi elementi giocano a mio parere un ruolo di importanza comparabile con gli altri menzionati dagli autori.

Nome: Paolo Quattrone  Data: 21.07.2010

Avendo insegnato contabilità per 10 anni (Manchester ed Oxford) a me i numeri (ed il Regno Unito) piacciono. Il nuovo REF si orienta verso due criteri numerici: impact factor e capacità di attrarre risorse. Ora, non per tutte le discipline (e gli approcci scientifici) il sistema ISI e' auspicabile perché l'avanzamento della conoscenza richiede tempi più lunghi della finestra temporale di ISI. Inoltre, l'avere pubblicato su ISI e' solo un’approssimazione indiretta alla qualità: il vecchio RAE chiedeva ai componenti la commissione di valutare i contributi singolarmente ed a prescindere dal luogo di pubblicazione, favorendo la creazione di Journals più innovativi e meno mainstream.Ma ciò costa e quindi meglio l'impact factor, che quindi risponde ad una esigenza di cost efficiency ma non di qualità. Analogo discorso si può dire per funding (addio humanities?). Insegno management... e so quanto siano appealing (ed a volte ingannevoli) le 'best practices' e ben vengano in un sistema incancrenito come l'Italia, ma la numerocrazia non e' la soluzione per l'Università', può esserlo forse per una certa economia da rational choice. Il vecchio RAE funzionerebbe meglio dell'impact factor.