CULTURA UMANISTICA E CRESCITA ECONOMICA Stampa

Malgrado recenti studi di storia industriale si propongano di dimostrare quanto possano essere feconde le collaborazioni istituzionali tra ingegni diversi (e di diversa competenza), il rapporto tra cultura umanistica e crescita economica non è accertato. Un economista e premio Nobel come Edmund Phelps si è molto speso recentemente per dimostrare che l’umanesimo quattrocentesco è alle origini del “vitalismo” paleocapitalistico o del “dinamismo”. Ma non è chiaro il modo in cui il “capitale umano” (anziché una severa organizzazione aziendale, poniamo) possa contribuire allo “sviluppo” economico di un paese. Non è prevedibile che l’interesse sociale o il consenso istituzionale per le Humanities cresca nell’immediato futuro, al contrario: il settore tecnologico continuerà a offrire allettanti e indiscutibili opportunità professionali alle giovani generazioni. Queste sembrano dibattersi tra istituzioni educative “vecchie” e “nuove” non di rado conflittuali. Le istituzioni dedicate allo studio dei “classici” e al potenziamento della memoria si sforzano di ingaggiarli nell’apprendimento di lingue, tradizioni e vicende avvertite come sempre più remote, fatalmente disallineate dal corso della storia. Le “nuove” agenzie formative, riconducibili al mondo dell’intrattenimento di massa e dell’innovazione digitale, li persuadono ogni giorno di più che l’eccesso di memoria è un fardello inutile e retrivo nel contesto di un mondo in vertiginosa trasformazione. Le retoriche identitarie non funzionano (oltre a essere storicamente e demograficamente inattendibili): hanno contro l’annientamento delle tradizionali gerarchie culturali nel flusso indifferenziato dei consumi e l’enorme domanda di competenze tecnologiche, post- o antistoriche.
(Fonte: M. Dantini, Roars 28-12-2013)