Home 2011 1 Novembre
1 Novembre
La riforma universitaria europea. Forum PDF Stampa E-mail

In Italia si chiama 3+2, in Svizzera riforma di Bologna e altri Paesi assegnano nomi diversi, ma in sostanza si tratta di una riforma europea mirata a standardizzare e a facilitare l'istruzione e il riconoscimento dei titoli a livello europeo. Nell'idea sembra che sia un bene, ma nella pratica com’è? Parlando della mia esperienza personale: http://ec.europa.eu/education/lifelong- ... c48_en.htm. Su questo sito potete vedere le norme europee riguardo alla riforma universitaria. Il punto centrale della riforma sta nella definizione di ETCS che sta per European transfer and accumulation system. In pratica si calcola il lavoro svolto sulla base di 30 ore per punto. Suddividendo così lo studio di bachelor in 180 punti e il master in 120 punti. Fin qui tutto bene. Ma dove sta la falla nel sistema? Ecco qua: [...] and one credit generally corresponds to 25-30 hours of work. Sul documento, potete controllare, non si fa menzione alcuna sulla qualità ma solo sulla quantità. Il significato pratico è che per ogni punto accreditato non vale un discorso di qualità del lavoro ma solo il fatto di avere svolto il lavoro in maniera sufficiente. Quindi vale la presenza e non il merito. Andando più nello specifico, si può architettare uno studio, secondo la facoltà e università che si frequenta, basandosi su corsi facili, esami facili alla costante caccia di tanti crediti per poco lavoro svolto. Quindi, quando la qualità non è più premiata ma si fa un discorso quantitativo, io vedo solo che è stata intrapresa a livello europeo una gran brutta strada. Sempre secondo il mio punto di vista. L'impoverimento della qualità dei diplomi universitari sarà un problema enorme in futuro, dove ci saranno decine di migliaia di laureati che non valgono nulla sul mondo del lavoro, e che sono stati incoraggiati a fare il meno possibile ottenendo i maggiori risultati possibili.
Voi come la pensate, e che esperienze avete avuto in proposito? Soprattutto cosa pensate che ne deriva da un sistema del genere?
(Fonte: forum.oostyle.net 12-10-2011; per il Forum collegarsi a http://forum.oostyle.net/viewtopic.php?f=6&t=11736)

 
Rilevazioni dell’OCSE. I vantaggi della laurea e i livelli d’istruzione PDF Stampa E-mail

Secondo la pubblicazione dell'OCSE Education at a Glance: Indicators 2011, il tasso di disoccupazione dei laureati è rimasto costante negli ultimi anni sulla media del 4,4%, rispetto all'11,5% che ha colpito i meno scolarizzati. Il Rapporto offre una visione comparativa sulle performance dei sistemi d’istruzione dei Paesi membri e sull'impatto del periodo formativo sui livelli di retribuzione e sulle opportunità di impiego degli adulti. Le risorse pubbliche investite in istruzione rendono sul piano economico anche un maggior gettito fiscale: durante la vita lavorativa, un laureato, rispetto ai diplomati, produrrà in media circa 65 mila euro in più di imposte sul reddito e di contributi sociali, una somma maggiore di quella spesa dallo Stato per la sua formazione. E i singoli ricaveranno un vantaggio di ordine salariale di 215 mila euro per gli uomini e di 150 mila euro per le donne. Gli Stati Uniti e il Giappone dispongono ancora del bacino più ampio di manodopera specializzata (da soli il 47% della zona OCSE), che ha consentito l'evoluzione sul piano tecnologico. Ma la situazione sta cambiando: negli USA solo 1 su 5 dell'attuale popolazione attiva è laureato rispetto al rapporto 1 a 3 riscontrato tra i pensionati. La Cina sta guadagnando terreno e, pur annoverando solo il 5% della popolazione attiva laureata, supera, grazie ai valori assoluti, il Giappone.
Negli ultimi 50 anni i livelli di istruzione sono molto cresciuti. Nel 1961 l'istruzione era ancora un privilegio di pochi. L'ultima rilevazione (aggiornata al 2009) evidenzia che nei 34 Paesi OCSE esaminati più dell'80% consegue un diploma di scuola secondaria superiore e uno su tre la laurea. L'Italia con l'81% di diplomati si colloca all'8° posto, preceduta da Irlanda, Finlandia, Israele, Repubblica Ceca, Polonia, Repubblica Slovacca e Svezia. Nel 2008 le spese per l'istruzione hanno assorbito in media il 6,1% dei Pil nazionali (in media +14% tra il 2000 e il 2008 per l'istruzione superiore). Differiscono però considerevolmente nei vari Paesi le metodologie di finanziamento. Rispetto alla media OCSE, in Canada e Israele un quarto dei costi totali è coperto da risorse private e addirittura un terzo in Australia, Cile, Giappone, Corea, Regno Unito e USA. In generale il contributo privato è quasi tutto indirizzato all'istruzione superiore; fanno eccezione Australia, Giappone e Corea, dove l'istruzione primaria è per il 50% a carico di fonti private.
(Fonte: M.L. Marino, rivistauniversitas.it ottobre 2011)

 
Cina. Come aumenta il rientro dei cervelli PDF Stampa E-mail
L’economista Li Daokui, vicedirettore della «Silicon Valley» cinese, avrà il compito di stilare un programma, completo di previsioni di spesa, che nel giro di dieci anni sia in grado di attrarre verso lo Zhongguancun Science and Technology Park, alle porte della capitale, i migliori studenti laureati all’estero. La Cina ha aperto le sue porte alla fine degli anni 70: da allora oltre due milioni di universitari cinesi sono emigrati negli Stati Uniti, in Canada, Gran Bretagna, Australia. Negli ultimi anni il flusso si è allargato ai migliori atenei di Germania, Francia, India e Brasile. Fino ad oggi solo il 2,7% di essi, terminati gli studi, sceglie di tornare a lavorare in quella che nel frattempo è diventata la seconda potenza economica. La Cina non può più permettersi di restare una fabbrica low cost, punta a dominare il mercato dell’hitech e a guidare la modernizzazione globale. Il piano di sviluppo dei talenti, appena approvato, riconosce la leadership degli studiosi formati in Occidente, li definisce «una risorsa di vitale importanza» e avvicina al 2% del Pil i fondi per la ricerca fino al 2020. Nessun istituto di ricerca al mondo mette a disposizione dei laureati finanziamenti e laboratori alla pari di quelli cinesi. Entro 5 anni la «Silicon Valley» di Pechino intende alzare al 35% la percentuale di rientro degli studenti di maggior talento, al 12% quella dei ricercatori di primo livello.
(Fonte: G. Visetti, La Repubblica 10-10-2011)
 
USA. La “bolla” dell’istruzione universitaria PDF Stampa E-mail
Pochi americani hanno compreso quanto stia diventando minacciosa un'altra bolla, oltre alla bolla dei mutui subprime, madre di tutte le bolle: quella dell'istruzione universitaria, il fiore all'occhiello del sistema USA. Le accademie americane, si sa, sono eccellenti ma anche molto costose. Soldi ben spesi, si è sempre detto: investire sul proprio futuro è la cosa migliore che si possa fare. E’ ancora vero, ma c'è un problema di misura. Negli Stati Uniti i due terzi degli studenti s’indebitano per pagarsi gli studi. Finché l'economia ha assorbito tutti i neolaureati, non ci sono stati problemi. Chi usciva da atenei di prestigio otteneva impieghi ben retribuiti e quindi riusciva a onorare il suo debito scolastico senza compromettere troppo il tenore di vita. Negli ultimi anni, però, le cose sono cambiate. Sui ragazzi si è stretta una tenaglia: nonostante l'economia depressa, le università hanno continuato ad aumentare le rette anche perché i giovani prolungavano volentieri gli studi in attesa che «passasse la bufera». Ma la crisi non è affatto finita, i debiti di studio hanno ormai raggiunto i mille miliardi di dollari e per molti neolaureati, che spesso devono restituire prestiti superiori ai 100 mila dollari (la media è 34 mila), le prospettive si sono fatte molto difficili: chi si è laureato nel maggio scorso, ad esempio, sta esaurendo gli ultimi giorni del semestre di «tregua» garantito dalla legge ai debitori. All'inizio di novembre dovrà cominciare a rimborsare lo student loan, anche se è disoccupato. Chi esce da Harvard un lavoro, prima o poi, lo trova. Ma, al di fuori degli atenei dell'eccellenza, c'è un gran numero di università di «seconda fascia», costose quasi quanto quelle più prestigiose dell’East Coast, che stanno diventando fabbriche di disoccupati con molti debiti.
(Fonte: Corsera 21-10-2011)
 
Il “Teaching Dossier” favorisce l’assunzione degli aspiranti docenti PDF Stampa E-mail
Fra le differenze che dividono il mondo accademico italiano da quello del resto dell’Occidente, c’è un importante documento chiamato “Teaching Dossier” o dossier dell’insegnante. Si tratta di un portfolio, anzi, di un libriccino di 6/12 pagine, 20 con le appendici, dotato di una sua narrativa interna, che lo studente di dottorato arrivato alle ultime battute del suo percorso di ricerca deve mettere insieme per presentarsi sul mercato accademico. “Il dossier dell’insegnante contiene quei documenti e materiali che, collettivamente, danno al lettore un’idea del senso e della qualità della performance di un insegnante” spiega Peter Selding nel suo volume The Teaching Portfolio (Anker Publishing, 1991). Il documento principale del dossier dell’insegnante è, secondo molti, la “dichiarazione di filosofia pedagogica” o “Statement of Teaching Philosophy“, due pagine al massimo, in cui l’aspirante professore dichiara il suo credo come insegnante, sciorina la sua metodologia, ricorda uno o due aneddoti dei suoi anni di apprendistato come insegnante universitario durante il dottorato. In quelle due paginette va fatto, in altre parole, un ritratto di sé come insegnante e uno schizzo su come si immagina il proprio lavoro domani: ciò che si sa fare (le proprie competenze, affidandosi il più possibile a dettagli e dati oggettivi, ciò che si può fare, ciò che si vorrebbe mettere in pratica nel futuro). In Nord America le università danno un’importanza crescente al dossier dell’insegnante al momento dell’assunzione di nuovi professori. Certo, un ottimo Teaching Dossier non è, di per sé, sufficiente a garantire a un candidato di finire “in finale”, ossia nella shortlist dei candidati che sono invitati a tenere una lezione dimostrativa nell’università cui puntano. Conta molto anche il livello della propria ricerca accademica, soprattutto in quelle università che si distinguono per la ricerca più che per l’insegnamento. Tuttavia, a parità di articoli e volumi pubblicati, il candidato in grado di mettere insieme un libriccino dell’insegnante come si deve, si troverà favorito al momento dell’assunzione.
(Fonte: Il Fatto Quotidiano 24-10-2011)
 
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