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27 Giugno
Annullato il regolamento sulle specializzazioni forensi PDF Stampa E-mail

Annullato dal Tar del Lazio il regolamento, approvato il 24 settembre scorso dal Consiglio nazionale forense, sulle specializzazioni forensi che disciplinava le aree di specialità professionale e le modalità per acquisire il titolo di specialista.

La prima sezione presieduta da Giorgio Giovannini, con la sentenza 9 giugno 5151/2011, ha accolto infatti tre ricorsi proposti da quasi settanta avvocati che hanno sostenuto l'illegittimità di un regolamento che, dal prossimo 20 giugno, avrebbe introdotto e disciplinato le condizioni e le modalità per il riconoscimento e il mantenimento del titolo di avvocato specialista.

Secondo i ricorrenti, il provvedimento del Cnf sarebbe stato lesivo della loro professionalità, in quanto, senza alcuna base normativa, avrebbe realizzato una vera e propria riforma dell'ordinamento professionale.

Una tesi accolta dal Tar, secondo cui dal quadro normativo «emerge graniticamente che la materia è riservata al legislatore statale», e non risulta che il Parlamento “abbia esercitato detta riserva, né riformando direttamente l'ordinamento della professione forense, sede propria per l’introduzione di un istituto, quale quello delle specializzazioni, prima inesistenti, destinato ad innovare profondamente i termini dello svolgimento dell’attività», «né attribuendo al Cnf la competenza ad adottare in via regolamentare la disciplina delle specializzazioni della professione legale».

Ragion per cui, secondo il tribunale amministrativo «non è dato comprendere da quale fonte normativa il Cnf abbia derivato la potestà di creare ex novo una figura professionale precedentemente non contemplata dal vigente ordinamento quale quella dell’avvocato specialista che si aggiunge alle figure dell’avvocato iscritto all’albo e dell’avvocato abilitato al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori».
(Fonte: diritto24.ilsole24ore.com 10-06-2011)
 
Intervista al presidente della CRUI PDF Stampa E-mail

Il Mediterraneo, "uno stagno attorno al quale le genti sono raccolte come rane, accumunate da uno stesso destino". Cita Platone il neoeletto Presidente della Crui, Marco Mancini, intervenendo a margine del Convegno nazionale "Qualità e valutazione del sistema universitario", tenuto ad Alghero in occasione della presentazione della XIII Indagine AlmaLaurea sul profilo dei laureati italiani.

"Dai tempi del filosofo greco- precisa il Presidente- se n'è fatta di strada, ma il concetto resta sempre quello: uno spazio unico, quell'area Euro Mediterranea che oggi si sta via via costruendo e che AlmaLaurea ha contribuito e sta contribuendo a creare".

"Pensare a forme di raccordo con i paesi che si affacciano sul "mare nostrum", è molto importante- spiega Mancini- e il lavoro svolto da AlmaLaurea va in questa direzione: integrare i sistemi di istruzione superiore e avviare ricognizioni sull'efficacia dei diversi iter formativi". "Passi avanti decisivi- li definisce il Presidente- per un concreto sviluppo del sistema Euro Mediterraneo".

E guardando al futuro del Consorzio ammette: "La mia università, quella della Tuscia, che ne fa parte dal 2006, è molto soddisfatta: il lavoro svolto da AlmaLaurea è prezioso. Adesso dobbiamo impegnarci affinché questi dati, che sono unici, diventino uno strumento di governance delle università. Qui entrano in gioco scelte governative che, sono fiducioso, saranno prese a breve perché le indagini del Consorzio rappresentano una risorsa importante per lo sviluppo del paese, hanno un ruolo e un valore che le forze politiche di ogni partito hanno sempre riconosciuto".

Lei parla di una crescente disaffezione nei confronti del mondo universitario: da cosa dipende?

"Le cause di questa disaffezione sono molteplici. Prima di tutto, il sistema universitario è sottoposto da diversi anni a un vero e proprio bombardamento di critiche, critiche sotto certi punti di vista anche fondate, ma che con il progredire del tempo sono diventate attacchi al cuore dell'università. Questa tendenza ha portato alla diffusione di un'immagine negativa dell'università italiana che dobbiamo assolutamente combattere ma con i fatti, non con le parole. Credo sia questa la ragione prima della scarsa fiducia che famiglie e giovani nutrono nei confronti dell'università, ma non è la sola. Altri fattori sono strutturali, interni al sistema: mi riferisco alla mancanza di servizi e infrastrutture adeguate da offrire agli studenti che sono poi il vero appeal per attrarre ricercatori stranieri, per fare ritornare i nostri talenti dall'estero e per far sì che questi talenti non vadano via dal paese.

Tuttavia, è bene ricordarlo, dai confronti sui sistemi formativi superiori realizzati nelle classifiche internazionali emerge un dato confortante: la nostra università e i nostri ricercatori occupano una posizione di assoluta eccellenza. E' un fatto positivo che spesso resta celato. La bontà della grana di cui è formata l'università italiana è fuori di ogni dubbio. Tuttavia, non possiamo dimenticare che i nostri atenei stanno perdendo le proprie energie, che sono ottime, perché tendono ad andare verso l'estero. E' un'emorragia profonda che dipende in larga misura dalla scarsa capacità di mantenere il ricercatore o un qualsiasi laureato a condizioni economiche e infrastrutturali vantaggiose rispetto all'estero. E' evidente che i giovani cercano altri contesti dove costruire il loro futuro".

Il difficile rapporto tra mondo accademico e mercato del lavoro motiva in parte questa disaffezione nei confronti dei sistemi formativi?

"E' problema ben noto e le dimensioni del nostro tessuto di impresa, costituito per la maggioranza da piccole e medie, in questo senso non giocano a favore, anzi rendono ancora più problematico il dialogo con il mondo della formazione. Vuol dire che dobbiamo stimolare le università a confrontarsi con un sistema produttivo rifratto lungo il territorio, molto frammentato e con energie intrinsecamente fragili: ma è un'operazione tutt'altro che semplice, gli atenei hanno enormi difficoltà a trovare canali e punti di contatto. Emblematico il fatto che i dottorati di ricerca, quindi i nostri cervelli migliori, siano la risorsa più preziosa del paese e allo stesso quella meno integrata nel sistema delle imprese. Un fatto che discende dalla debolezza intrinseca di un sistema paese che non è capace di investire sui giovani talenti, che non capisce il vantaggio di avere cervelli giovani, pronti a elaborare idee, a fare sviluppo all'interno del tessuto produttivo".

Ma il vero problema del nostro paese non è solo e tanto la fuga di cervelli, quanto il fatto che non riusciamo ad attirare cervelli dall'estero?

"Il nostro sistema è refrattario ad avere percentuali significative di ricercatori e di studenti stranieri. Rispetto al contesto europeo siamo profondamente indietro. I dati del rapporto AlmaLaurea parlano chiaro: non più del 3% degli studenti sono intergrati nei nostri percorsi di studio. Si sale all'8% con i dottorandi di ricerca che dall'estero vengono a studiare in Italia, come testimoniamo i dati Cnvsu: una percentuale leggermente superiore, ma comunque ancora molto bassa. E' un fatto gravissimo, perché la mobilità studentesca e l'integrazione del nostro sistema accademico sono un bene per le università italiane: confrontarci con esperienze di studio di altri paesi per noi professori e per gli studenti sarebbe sicuramente uno stimolo importante, un'occasione di crescita unica. Il che è ancora più vero nel caso della ricerca: la scarsa capacità del nostro paese di attrarre energie dall'estero, di diventare attrattori di cervelli, anche all'interno della stessa comunità europea, è un gap spaventoso che dobbiamo colmare. Ma diciamoci la verità: cosa possiamo offrire noi a giovani stranieri? Servizi infrastrutturali per la ricerca scarsi, laboratori e apparecchiature che non sono all'avanguardia, eccezione fatta per alcuni poli di eccellenza, attrattività stipendiali brevi e nemmeno alte. E poi, c'è una giungla di norme, generiche e inerenti ai sistemi formativi e di ricerca, che scoraggia l'ingresso dello straniero nel nostro paese. In definitiva, non abbiamo strutture adeguate per accogliere i laureati che vengono dall'estero".

Come si potrebbe risolvere il problema?

"Credo che una parte di questo problema, che è un nodo scorsoio per il paese, si potrebbe sciogliere lasciando all'università la libertà e la responsabilità di assumere il personale che ritiene più adeguato, di fare ricerca e di investire laddove ritiene più opportuno e vantaggioso per la comunità, "bastonando" ovviamente gli atenei che sbagliano: vorrebbe dire avere in mano tutti gli strumenti per intervenire al meglio in questo meccanismo di competizione internazionale che si è fatto sempre più spietato".(Fonte:  Redazione AlmaLaurea,08-06-2011)

 
Riforma. Che cosa cambierà all’Università di Torino PDF Stampa E-mail
Più efficienza con meno risorse, è la rivoluzione delle università. Mancano poche settimane alla scadenza del termine entro cui presentare il piano di riordino degli atenei previsto dalla riforma Gelmini e Torino, come tutti i maxi poli universitari d’Italia, vive giorni di caos burocratico. Indaffarata a sforbiciare i corsi per i prossimi anni accademici e a estinguere le facoltà, così come vuole il ministro. Grandi manovre e molti equilibrismi, per tenere insieme un puzzle complesso chiamato Università degli Studi, che nel 2012-2013 avrà un volto completamente diverso da oggi. La legge prevede che gli insegnamenti siano gestiti in futuro dai «dipartimenti», comprendenti al loro interno un minimo di 40 docenti. Questo vincolo rappresenta un colpo mortale per le medio-piccole realtà dipartimentali, tenute in vita oggi da 12 o 13 docenti, che spariranno o perderanno la loro specificità, per confluire in strutture più grandi e dalle denominazioni più generali. Dei 55 dipartimenti attuali, a Torino, ne resteranno meno della metà: 25, al massimo 27 (il disegno è ancora in discussione). Saranno responsabili della didattica e dei corsi, compresa la gestione dei docenti e della ricerca scientifica. Un potere più consistente dell’attuale e in lizza ci sono molti aspiranti al ruolo di direttore. I dipartimenti apparterranno a loro volta a sei grandi «scuole», sul modello statunitense, che prenderanno il posto delle facoltà, corrispondendo grosso modo a macro-aree disciplinari: scuola umanistica, scuola medica, scuola giuridica e di scienza politica (concentrate all’ex Italgas), scuola di scienze naturali, veterinaria, scuola economica (ai Poveri Vecchi). Queste ultime saranno strutture leggere che risolveranno le questioni pratiche, tipo l’organizzazione delle aule e degli spazi. Una dieta accademica che mira al risparmio. Prima di tutto del personale amministrativo. Ma nella rivoluzione degli accorpamenti, l’Università, conservatrice per eccellenza, vive giorni di lotte intestine tra i dipartimenti per accaparrarsi un ruolo di prestigio nel nuovo e più snello impianto. Così si è scatenato un vero e proprio «calciomercato» dei docenti (corteggiati come non mai), necessario per restare in vita. Spesso con la promessa che un cambio di casacca e di afferenza potrebbe aprire nuove prospettive di ricerca. Prendiamo ad esempio il Dams e Scienze dell’Educazione, che fino a oggi facevano polo a sé. Il primo sparirà, assorbito completamente dalla galassia di Studi Umanistici, il nuovo nome dentro al quale saranno radunati gli attuali Lettere, Lettere Classiche, Filologia, Discipline Antropologiche, Orientalistica, forse Beni Culturali (anche se parte degli storici dell’arte sta pensando a un apparentamento con Storia) e una possibile nuova Sis per futuri insegnanti. Il secondo farà gruppo con Filosofia, ma già si accende lo scontro, perché nessuno dei due accetta di comparire per ultimo nella denominazione del dipartimento. Storia e Lingue resistono sulle posizioni per fare area autonoma. E Geografia? Addio. Dissolta con i suoi docenti in molti rivoli. Così Scienze delle Religioni. Economia manterrà due dipartimenti forti e compatti, Giurisprudenza uno, come Scienze Politiche. «Delle due facoltà di Medicina sarebbe opportuno ne nascesse una sola - spiega il Rettore Pelizzetti -. Veterinaria farà a sé, perché ha una tradizione antica da valorizzare». Lo stesso vale per Agraria, Farmacia e Matematica, Chimica e Fisica. Ma è a Psicologia che si consuma il dilemma più grande. Molti docenti, insoddisfatti, vorrebbero cavalcare la situazione per fare il salto tanto atteso di dipartimento e anche di carriera, soprattutto nel caso dei giovani ricercatori. Un approdo allettante per loro è Scienze dell’Educazione, anche se Medicina, per ovvie ragioni di familiarità disciplinare, fa da seduttivo contraltare. Ma un’emorragia interna troppo grave potrebbe mettere addirittura a rischio la sopravvivenza del dipartimento. Non parliamo poi di tutte quelle realtà interdipartimentali, per cui il cambiamento comporta una ridefinizione dell’identità. È il caso di Sociologia o di Scienze della Comunicazione. Dove andranno i loro professori? Lo si saprà quando le forbici della riforma entreranno in azione.
(Fonte: L. Tortello, La Stampa 20-06-2011)
 
Mediazione civile: laurea triennale per gli operatori PDF Stampa E-mail
Con la circolare 13 giugno 2011, arrivano le indicazioni del ministero della Giustizia, sulla <<Attività di tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell'elenco degli enti di formazione. Indicazioni sull'applicabilità della disciplina del silenzio assenso>>. Via Arenula prova a dare una stretta ai requisiti obbligatori per mediatori e formatori raccogliendo in parte le critiche piovute dall’avvocatura sulla scarsa professionalità delle figure. Per quanto riguarda i requisiti di qualificazione, il ministero chiarisce che i mediatori devono possedere un titolo di studio non inferiore al diploma di laurea universitaria triennale o, in alternativa, essere iscritti a un ordine o collegio professionale. Mentre non ha lo stesso valore l’iscrizione presso albi o elenchi (di diversa natura), dal momento che la norma fa unicamente riferimento all’iscrizione presso ordini o collegi professionali. Maglie più strette per i formatori. Il Dm 180 (articolo 18, comma 3 lett. a) prevede, infatti, che gli aspiranti docenti attestino di avere pubblicato almeno tre contributi scientifici in materia di mediazione, conciliazione o risoluzione alternativa delle controversie (formatori teorici); e di avere operato, in qualità di mediatore, presso organismi di mediazione o conciliazione in almeno tre procedure (formatori pratici). Comunque, in entrambi i casi, devono attestare di avere svolto attività di docenza in corsi o seminari in materia di mediazione, conciliazione o risoluzione alternativa delle controversie presso ordini professionali, enti pubblici o loro organi, università pubbliche o private, nazionali o straniere.
(Fonte)
 
Laurea e specializzazione in Medicina PDF Stampa E-mail

A differenza delle lauree triennali dove solo il 3,2% delle 22 professioni che ne fanno parte prosegue con la laurea specialistica, per il ciclo unico e per medicina in particolare la specializzazione è di fatto d'obbligo con ben il 98% medio di iscritti. I dottori "lavorano" quasi tutti mentre studiano: «La specializzazione è un lavoro e deve essere considerato tale, anche se a termine (5 o 6 anni) - spiega Andrea Lenzi, presidente del Consiglio universitario nazionale e della conferenza nazionale dei presidenti di corso di laurea specialistica in Medicina e chirurgia - e la specializzazione è comunque a tutti gli effetti la "porta del lavoro"». Chi lavora a tempo indeterminato - il 36,5% - sono gli specializzati post triennio di medicina generale che sono invece già professionalmente attivi. In ogni caso anche per i medici come per le professioni il tasso di disoccupati (o meglio in cerca di occupazione) è quasi nullo con lo 0,7% medio, pur mancando rilevazioni complete al termine degli studi di specializzazione, che portano la durata del periodo di studi attorno a 12 anni circa (ovvero 6 di base, 1 di abilitazione e 3 per la medicina generale o 4-6 per le specializzazioni). L'effetto della laurea non sembra avere differenze sostanziali - al contrario di quanto accade per le professioni non mediche - in base né all'ateneo né all'area geografica di appartenenza. Infatti, in sei Università si sta specializzando il 100% dei laureati e queste sono distribuite a tutte le latitudini, dal Nord-ovest del Piemonte al Nord-est del Friuli, al Centro con Roma e fino al Sud con Foggia. Dal punto di vista del lavoro vero e proprio al top ci sono i laureati di Ferrara che lavorano nell'85% dei casi, seguiti dal 68% dei laureati a Verona e dal 65% circa di quelli di Firenze, L'Aquila e Catanzaro.

Accanto al lavoro fisso anche gli occupati con un lavoro occasionale (considerando comunque che la specializzazione è retribuita ed è considerata statisticamente alla stregua di un lavoro). In questo caso a dichiararsi occupati sono soprattutto i laureati ancora una volta di Ferrara (quasi 1'87%) seguiti dall'82,4% di quelli di Catania.

La differenza tra atenei, anche se minima, c'è invece sul tasso di disoccupazione post laurea. In questo caso nel Nord le uniche percentuali sono quelle rilevate tra i dottori di Ferrara (6,7%), Parma (0,8%), Torino (0,5%) e Bologna (0,3%). Al Centro tranne Firenze, Siena e Roma Campus bio-medico in tutti gli atenei è presente una percentuale di "disoccupati" che va dall’1,7% di Roma Sapienza 2 al 2,2% di Roma Sapienza.

Nel Sud va decisamente peggio su questo versante e tranne gli atenei di Bari e Foggia in cui la percentuale è zero, le altre otto Università presentano tutte una percentuale di dottori che non lavorano e sono in cerca di occupazione (disoccupa ti) e il dato va dallo 0,6% di Napoli seconda università al 6,7% di Catania.

Ma se c'è chi lavora in modo più o meno stabile e chi non lavora, una cosa è certa secondo la rilevazione nelle Università: il 99% dei dottori è convinto dell'efficacia della sua laurea ai fini del lavoro (solo lo 0,8% ne dubita) e dovendo dare un voto da O a 10 alla soddisfazione per il lavoro svolto, la media è 8,2. Come dire: i medici proseguono tutti gli studi post-laurea, ma il lavoro davvero non gli manca e la loro soddisfazione per quel che fanno è pressoché totale.
(Fonte: Il Sole 24 Ore Sanità 20-06-2011)
 
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