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27 Giugno
Tasse universitarie: risposta a Ichino PDF Stampa E-mail

Visto l’interesse che ha suscitato il tema, vorrei chiarire alcuni punti rispetto a quanto affermato nell’articolo di Andrea Ichino scritto in replica al mio precedente intervento sul tema delle tasse universitarie.

Il debito pubblico italiano è di quasi 2000 miliardi di euro, l’evasione fiscale è stimata essere di circa 300 miliardi di euro ed il finanziamento all’università, è di circa 7 miliardi di euro. Dunque, il “risparmio” sulla spesa per università e ricerca inciderebbe per una frazione irrilevante sul debito pubblico: mi sembra ovvio che non si parte da qui per risanare le finanze del paese. Il problema, casomai, è cercare di rendere questa spesa più efficiente, oltre che di portarla al livello degli altri paesi europei. La decisione di incrementare la spesa per l’università e la ricerca, o di migliorare la sua qualità, è puramente politica ed ha davvero poco a che fare con il fatto che vi sia un debito pubblico 200 volte più grande. E’, infatti, chiaro che i capitoli di spesa su cui incidere potrebbero essere altri soprattutto se s’iniziasse a considerare la spesa per l’università e la ricerca come un investimento per le future generazioni, e non come un’inutile fonte di spreco di risorse.

Com’è noto a qualsiasi studente, e come risulta dal regolamento di qualsiasi università, le tasse universitarie sono proporzionali al reddito (con una saturazione per i redditi più alti): non si capisce perché questo fatto debba essere necessariamente ignorato nell’argomento e nel modello presentati da Ichino. Per fare qualche esempio all’università di Torino ci sono 26 fasce contributive con importi che vanno da 300 a 1500 euro, mentre all’università di Cagliari ci sono 17 fasce contributive con tasse annuali da 180 a 2500 euro. Invece di presentare modelli fondati su ipotesi irrealistiche e numeri inventati, tra l’altro con risultati piuttosto confusi, bisognerebbe analizzare la realtà.

C’è un fatto dato per scontato da Ichino ma che scontato non è. Quale indagine mostrerebbe che i ricchi vanno all’università più dei poveri? Per fare un esempio il 72% dei laureati del consorzio Alma Laurea (che comprende la maggioranza delle università ed anche la maggioranza dei laureati - 110.000 su 180.000 lauree triennali) “acquisiscono con la laurea un titolo che entra per la prima volta nella famiglia d’origine”. Assumendo che la ricchezza delle famiglie sia proporzionale al grado d’istruzione (anche questa ipotesi da verificare, soprattutto in Italia ed alla luce dell’evasione fiscale) questo dato mostra che non è affatto ovvio affermare che la maggioranza di chi frequenta l'università è ricco (3 ricchi contro 1 povero nell'esempio di Ichino).

Prendo atto che Ichino riconosce che l’università italiana non è gratuita e dunque smentisce quanto scritto nel suo precedente articolo. La rilevanza di affermare che l’università sia gratuita e di scarsa qualità sta proprio nel fornire una base ideologica alla proposta di introdurre un sistema che cambi radicalmente la dinamica del finanziamento, dell’accesso e dell’indipendenza dell’istituzione universitaria: un sistema che funziona abbastanza bene ma che ha criticità diffuse si deve e si può riformare, un sistema completamente corrotto e inefficiente va rifondato dalle fondamenta.

Come paragone internazionale possiamo considerare, ad esempio, la Francia, dove: le tasse universitarie sono minori che in Italia, la percentuale di studenti che usufruiscono di borse di studio è più alta, il diritto allo studio è tutelato grazie anche ad un serio impegno in infrastrutture. Dove, inoltre, l’investimento in università e ricerca è maggiore che in Italia: non si capisce perché nel considerare i confronti internazionali si debba tacere sempre che la spesa nell’istruzione terziaria in Italia è tra le più basse dei paesi OCSE. O forse si assume che abbia ragione Roberto Perotti quando afferma, normalizzando in maniera arbitraria i dati OCSE, che “la spesa italiana per studente equivalente a tempo pieno diventa 16.027 dollari, la più alta del mondo dopo Usa Svizzera e Svezia”?

Circa la qualità dell’università italiana, di nuovo la denigrazione continua fatta da Ichino e dai suoi colleghi non ha certo giovato a una serena discussione su come sia possibile migliorare l’esistente. Come illustrato nel libro che ho scritto con Stefano Zapperi e in un altro contributo l’uso dell’impact factor per la classificazione in qualità dei paesi, come fatto nell’articolo citato da Ichino, è del tutto arbitrario e non giustificato. L’H-index è una misura più significativa dell’impatto. Il suo valore globale, o diviso per settori, mostra che l’Italia si colloca settima al mondo. Per capire l’efficienza del sistema è necessario normalizzare questo dato rispetto alle risorse investite nel sistema universitario e della ricerca: da ciò risulta che il sistema italiano è anche ragionevolmente efficiente. Data però l’inefficienza di una parte del sistema, che nessuno mette in dubbio, la caratteristica principale del sistema universitario e della ricerca italiane è la sua eterogeneità. La qualità di tanti gruppi di ricerca italiana, in cui sicuramente molti ricercatori stranieri ambirebbero a entrare, è testimoniata anche dal fatto che tanti giovani studenti che vanno all’estero riescono ad ottenere posizioni permanenti o borse di studio prestigiose come quelle erogate dall’European Research Council.

Per quanto riguarda l’assenza di ricercatori stranieri in Italia, le cause sono molteplici e non è questa la sede per approfondire la questione. Consiglio però di provare a leggere un bando di un concorso, per esempio, del CNR e di confrontarlo con un del CNRS francese, o fare un semplice schema per comprendere quando sono banditi i concorsi in Italia o in Francia (in fase con la rotazione della Terra) e quando sono assegnati i posti, o considerare quanto guadagna un ricercatore appena assunto. Un semplice paragone può mostrare le problematicità del sistema italiano, e il motivo per cui un gran numero di ricercatori italiani sta emigrando in Francia da qualche anno a questa parte. La differenza salariale è solo una parte del problema.

Per quanto riguarda la Bocconi, il mio riferimento era alle classifiche internazionali generaliste, che d’altronde sono quelle sempre citate quando si discute del cattivo posizionamento delle università italiane. Se invece si considerano le classiche scorporate per campi disciplinari si trovano delle sorprese, e il caso più eclatante è sicuramente la ventesima posizione della facoltà di scienze dell’università Sapienza di Roma. D’altro canto la Bocconi si posiziona, nella categoria scienze sociali ed economiche, a metà classifica delle prime cento ma a poca distanza dalla facoltà di economia dell’università di Bologna (a volte anche dietro di questa): non solo per produzione scientifica ma anche per gli altri parametri che le diverse classifiche usano per misurare la qualità. Se si misura la qualità in base al ranking in queste classifiche, sorge un dubbio: perché pagare dieci volte le tasse universitarie per andare alla Bocconi anziché all’università di Bologna?

La proposta di Ichino non “consiste affatto nel far pagare l'università di più ai ricchi (quelli di oggi subito e quelli di domani in modo differito) e di farla pagare di meno ai poveri”. Quello che succederebbe è di escludere i ceti meno abbienti dall'istruzione universitaria, bloccando così uno dei maggiori veicoli di mobilità sociale e condizionare anche la scelta del corso di studi. Come ho già illustrato, la Costituzione prevede un meccanismo chiaro ed efficace (se lo si adopera bene) per fare pagare ai ricchi i servizi pubblici in modo differenziale: la progressività dell'imposizione. Inoltre: (a) per chi è già ricco, pagare l'università ha un impatto relativamente poco rilevante sul reddito e lo può fare senza indebitarsi. Chi è povero, se riesce a usufruire dell'ascensore sociale, deve pagare interamente (anche se in modo differito) la sua ascesa. Rapportato al reddito (suo e/o della sua famiglia) nel corso della vita l'impatto percentuale è più alto per un meno abbiente che per un più abbiente. Insomma, rimanere o arrivare in fascia alta costa uguale per tutti: peccato però che per chi è già in fascia alta, questo costo sia meglio sopportabile. (b) Ammesso che l'ascensore sociale funzioni, chi è povero deve valutare se gli conviene al netto della restituzione del debito. Potrebbe essere meglio un uovo oggi (lavorare dopo la maturità) piuttosto che una gallina domani (laurea e successiva restituzione del debito). Nel complesso, un disincentivo a conseguire titoli di studio che si ripagano troppo poco o troppo tardi. (c) Rendere più aleatorio il finanziamento di un servizio pubblico è il primo passo per smantellarlo. In particolare, verrebbero messe a rischio le università nelle regioni economicamente svantaggiate dove bisognerebbe invece favorire la crescita del capitale umano. (d) Ci sono ottime ragioni perché scienza e cultura siano libere. Su temi legislativi, etici, nucleare, OGM, salute, effetti delle nuove tecnologie su salute e società, ecc., è bene che ci siano ricercatori liberi. Se prevale l'aspetto economico, i finanziamenti d’aziende energetiche, alimentari, farmaceutiche condizionerebbero in modo pesante la libertà d’insegnamento e d’ opinione.

Inoltre, come ha ben messo in luce Alessandro Figà Talamanca “Se per l’istruzione si deve, prima o poi, pagare, è naturale che siano incentivate le scelte che offrono maggiori prospettive di guadagni futuri. Se gli studi universitari sono considerati alla stregua di un investimento personale, l’accorto investitore-studente sceglierà quelli potenzialmente più remunerativi. E’ proprio questo che vogliamo? Un tale effetto può essere ritenuto positivo solo da chi ritiene che il valore sociale di un’attività lavorativa sia misurato dal reddito che se ne ricava. In altre parole da chi ritiene che la differenza di reddito tra un consulente finanziario e un maestro elementare misuri la differenza del valore sociale attribuibile alle loro attività. Ma questa non è tanto o solo una posizione decisamente di destra, ma è piuttosto una posizione ideologica che ignora la realtà. Ignora, ad esempio, che per la professione di maestro elementare, o di fisico teorico, siamo ben lontani da condizioni “di mercato”.”

Infine vorrei far notare che qualche giorno fa, proprio in relazione con le politiche del governo inglese che si vorrebbero adottare in Italia, una risoluzione dell’università di Oxford, votata da 283 professori (5 i contrari), afferma che “l'Università di Oxford non ha alcuna fiducia nelle politiche del Ministro per l'istruzione superiore”. (Fonte: F. Sylos Labini, scienzainrete.it 17-06-2011)
 
Tasse universitarie: risposta a Sylos PDF Stampa E-mail

Tra le affermazioni di Francesco Sylos Labini nel suo ultimo intervento, la più sorprendente è quella in cui mi domanda "Quale indagine mostrerebbe che i ricchi vanno all’università più dei poveri?" Questa sua domanda richiede una risposta, in attesa che altri vogliano intervenire in questo dibattito per non limitarlo a uno sterile scambio bilaterale.

"Quale indagine mostrerebbe che i ricchi vanno all’università più dei poveri?"

Deve esserci un equivoco perché la mole di ricerche internazionali che mostrano l'impatto del background familiare sulle scelte d'istruzione è enorme e generalmente ben nota. Il dato Almalaurea citato da Francesco m’induce a pensare che lui confonda la distribuzione della ricchezza familiare tra gli iscritti all'università, con la probabilità di iscriversi all'università data una certa ricchezza familiare: questi due concetti statistici sono in relazione tra loro (Teorema di Bayes), ma solo il secondo è quello rilevante ai nostri fini.

Visto che Francesco mi accusa di usare esempi "confusi" e con numeri inventati, provo a usare un minimo di notazione matematica abbinata alla spiegazione intuitiva e a dati reali (chi non è interessato ai simboli può comunque seguire le parole).

Innanzitutto assumiamo, seguendo Francesco, che "la ricchezza delle famiglie sia proporzionale al grado d’istruzione" e quindi che la laurea dei genitori sia un indicatore (binario) di maggiore ricchezza della famiglia d'origine. Ha ragione Francesco a dire che in linea di principio è una ipotesi da verificare, ma almeno in prima approssimazione è un’ipotesi ragionevole e largamente supportata nella letteratura.[1]

Definiamo quindi con:

•L=1: figlio laureato

•L=0: figlio non laureato

•Y=1: genitori laureati e quindi "famiglia ricca"

•Y=0: genitori non laureati e quindi "famiglia povera"

I dati Almalaurea dicono che tra i figli che si laureano la frequenza di genitori non laureati ("povertà") è maggiore della frequenza di genitori laureati ("ricchezza"). Ossia:

72% = Pr(Y=0|L=1) > Pr(Y=1|L=1) = 28%

Francesco conclude quindi che tra i laureati italiani ci sono più poveri che ricchi e per questo la mia affermazione è falsa. Dimentica però di guardare a come la ricchezza familiare è distribuita nel gruppo dei figli che non si laureano (L=0). Questa informazione non è contenuta nei dati Almalaurea che si riferiscono evidentemente ai soli laureati. Supponiamo ad esempio che accada questo (ed è la realtà del caso italiano[2]):

93% = Pr(Y=0|L=0) >> Pr(Y=1|L=0) = 7%

ossia che tra i non laureati la frequenza di “famiglie povere” sia addirittura pari al 93% e quindi molto maggiore che tra i laureati (72%). Quindi le “famiglie relativamente povere” (secondo questa definizione) sono tante in generale e sono relativamente più frequenti tra coloro che non si laureano. L'immagine che ora si trae dai due dati congiunti (1) e (2) comincia ad apparire diversa da quella che Francesco vuole far trasparire usando solo il primo. I due risultati sono infatti possibili solo se la probabilità di laurearsi di un figlio, condizionatamente alla ricchezza del padre, è inferiore quando il padre è povero. Ossia il confronto statistico che deve interessare è quello tra:

Pr(L=1|Y=0)   e   Pr(L=1|Y=1)

In altre parole dobbiamo chiederci se la probabilità di laurearsi del figlio di un povero sia maggiore o minore della probabilità di laurearsi del figlio di un ricco.[3]

Vediamo allora i dati rilevanti per questo confronto, iniziando da quelli per Italia e USA che ho analizzato con Daniele Checchi e Aldo Rustichini[4]: l'evidenza dice, ad esempio, che " ... the odds of obtaining a college degree in Italy are almost 25 times higher if the father has a college degree, while in the US having a graduate father increases the odds only by 6 times. Hence, both countries do not ensure a situation of equal opportunities in the transitions between education levels, but Italy appears to be more distant than the US from such a situation."[5] Incidentalmente, l'articolo mostra anche che la mobilità sociale è maggiore in USA (fatto, immagino, sorprendentemente per Francesco), dove il sistema scolastico è largamente privato e andare all'università costa molto.

Ma forse Francesco non si fida dei miei conti e delle leggi della statistica. Può allora scaricarsi direttamente i dati dell'Indagine della Banca d'Italia sui Bilanci delle Famiglie Italiane (http://www.bancaditalia.it/statistiche/indcamp/bilfait), che è un’indagine campionaria rappresentativa, mentre tra l'altro i dati Almalurea soffrono di un tasso di non risposta probabilmente maggiore tra i laureati con carriere professionali migliori e quindi distorsivo per le analisi rilevanti in questa sede.

Con questi dati potrà verificare autonomamente che, ad esempio, i contribuenti con reddito (lordo) entro i 40000 euro (che possiamo considerare relativamente "poveri") sono circa il 90% del totale dei contribuenti, ma sono solo il 25% di coloro che hanno figli all’università. L'ipotesi del mio esempio numerico incautamente ridicolizzata da Francesco (su 4 studenti universitari uno povero) non è troppo lontana da questi numeri, tenendo conto anche dell’ovvia necessità di semplificazione di un esempio.

Più recentemente, il già citato articolo di Checchi, Fiorio e Leonardi, usando i dati Banca d'Italia, conclude che "... there is still a persistent difference in the odds of attaining a college degree between children of college educated parents and children of parents with lower secondary educational attainment."

Infine, e tralasciando di citare l'analoga evidenza internazionale, Francesco può anche consultare i numerosi libri di Antonio Schizzerotto, (ad esempio, Sociologia dell'Istruzione, Il Mulino 2006, con Carlo Barone).

Francesco Sylos Labini mi dice che "Invece di presentare modelli fondati su ipotesi irrealistiche e numeri inventati, tra l’altro con risultati piuttosto confusi, bisognerebbe analizzare la realtà." Lascio al lettore giudicare chi sia più vicino alla realtà.

"Progressività della fiscalità generale e regressività del finanziamento universitario".

Assumendo che ora possiamo tutti finalmente concordare sul fatto che, a meno di ingegnose definizioni di povertà e ricchezza relative, i "poveri" usufruiscono dell'educazione terziaria relativamente meno dei "ricchi", la seconda questione su cui Francesco Sylos Labini mi invita ancora a fornire spiegazioni è la questione di chi finanzia gli studenti universitari. Anche in questo caso, se gli esempi simulati non bastano, provo a rispondere con i numeri dell'indagine Banca d'Italia e con i dati del Ministero delle Finanze:[6]

•Il 25% più povero delle famiglie che hanno almeno un figlio all’università ha un reddito (lordo) inferiore o uguale a 40000 euro; il secondo 25% ha un reddito compreso tra 40000 e 65000 euro; il terzo 25% tra 65000 e 97000; l’ultimo 25% superiore a 97000 (i dati vengono dall’indagine Banca d'Italia del 2008).

•Guardando ora ai dati del Dipartimento delle Finanze per lo stesso anno, i contribuenti con reddito entro i 40000 euro pagano il 54% del gettito IRPEF netto; quelli con reddito tra 40000 e 65000 ne pagano il 16%; quelli con reddito tra 65000 e 97000 ne pagano il 12%; quelli con reddito superiore a 97000 ne pagano il restante 18%

Quindi[7]:

• le famiglie più povere con figli all’università (ossia quelle con reddito inferiore ai 40000 euro) usufruiscono del 25% dei 7 miliardi del Fondo di Finanziamento Ordinario (circa 1,75 miliardi) ma li finanziano per il 54% (circa 3.8 miliardi): trasferiscono quindi implicitamente 2 miliardi alle famiglie con reddito superiore ai 40000 euro.

•il successivo 25% delle famiglie (quelle con redditi tra 40000 e 65000), riceve un altro 25% del FFO e lo paga per il 16%: ne ricavano un trasferimento netto a loro favore pari a circa 600 milioni; il successivo 25% riceve poco meno di un miliardo, e l’ultimo 25% riceve circa mezzo miliardo.

•Ovviamente il finanziamento del FFO viene anche da altre imposte, che qui non si considerano. Ma a meno che queste non siano più progressive dell’imposta sui redditi (e non lo sono), l’argomento risulta semmai rafforzato.

Spero quindi che anche su questo punto si possa finalmente archiviare la questione. Ossia è comunque vero (e quasi lapalissiano) che se aggiungiamo una componente regressiva in qualsiasi sistema fiscale, riduciamo la progressività pre-esistente di quel sistema fiscale, quale che essa sia. Se la progressività preesistente è quella considerata equa dalla Costituzione, vuol dire che è quella che rende a ciascuno il suo. Il modo in cui in Italia finanziamo l'università (e lo stesso vale per i numerosi altri paesi che fanno altrettanto) implica togliere ai poveri ciò che la progressività voluta dalla Costituzione vorrebbe che loro legittimamente avessero.

"Debito pubblico ed evasione fiscale"

Su questo punto esiste un'evidente e legittima divergenza di posizioni tra Francesco e me, che non è possibile sanare in quanto non dipende da fatti ma dalle nostre rispettive preferenze. In altre parole, sia io che Francesco concordiamo sul ridurre le spese inutili della pubblica amministrazione e combattere seriamente l'evasione fiscale. Ma qui le strade si dividono. Io darò l'appoggio ai politici che vorranno utilizzare questi risparmi per ridurre lo stock di debito pubblico. Francesco a quelli che invece vorranno aumentare la spesa universitaria (contendendo i risparmi a sanità, giustizia, servizi sociali ...). Vedremo che cosa diranno gli elettori.

In ogni caso Francesco Sylos Labini fa un'operazione scorretta confrontando variabili stock come il debito (2000 mld) e variabili flusso come la spesa universitaria, (7 mld).

"La proposta di Ichino non “consiste affatto nel far pagare l'università di più ai ricchi (quelli di oggi subito e quelli di domani in modo differito) e di farla pagare di meno ai poveri”."

Se capisco bene quello che Francesco vuol dire, con la mia proposta il ricco avrebbe un vantaggio rispetto al povero perché il ricco non ha vincoli di liquidità, ha risorse in eccesso, non è costretto ad indebitarsi e il valore marginale del reddito è per lui inferiore. Per il povero è vero il contrario. Concordo pienamente, ma attenzione: il vantaggio per il ricco non deriva dalla mia proposta, ma dal fatto che è ricco in partenza. Ossia quale che sia l'intervento che preferiamo (borse, prestiti o finanziamenti a pioggia) rimane il fatto che il ricco non ne avrebbe bisogno. Proprio per ovviare a questo la mia proposta facilita i poveri consentendo la possibilità di:

•Alzare le tasse universitarie per i ricchi anche al di sopra del costo del servizio da loro utilizzato, realizzando così anche nell'ambito ristretto del finanziamento universitario la progressività voluta dalla Costituzione (come già spiegato sopra il finanziamento basato sulla fiscalità generale preferito da Francesco, riduce, invece, la progressività totale).

•Offrire prestiti che possono benissimo essere agevolati in misura fortemente maggiore per i meno abbienti; le borse di studio a fondo perduto sono la versione estrema di un prestito di questo tipo; ma i prestiti consentono una gamma di modulazioni molto più flessibile e generano meno sprechi.

•Offrire prestiti che devono essere ripagati solo in proporzione al reddito, e quindi non generano "l'ansia della rata fissa da pagare" a tutti i costi; la percentuale di restituzione può di nuovo essere modulata in modo da favorire anche fortemente i meno abbienti.

•Offrire prestiti che non devono essere ripagati sotto una soglia di reddito post laurea da stabilire, favorendo quindi la mobilità sociale in misura tanto maggiore quanto più alta è questa soglia.

L'effetto combinato di queste caratteristiche della proposta, può quindi implicare un forte trasferimento pubblico a favore dei meno abbienti per frequentare l'università. Farlo o non farlo dipende dalle preferenze della collettività: ma il mio strumento lo consente. Invito quindi Francesco e i lettori a distinguere tra il giudizio tecnico sullo strumento proposto e il giudizio su come può essere utilizzato nelle sue diverse modulazioni a seconda delle preferenze politiche della collettività.

Rimane ovviamente vero che le famiglie abbienti non hanno bisogno di prestiti perché sono ricche. Ma cosa c'entra questo con il giudizio sulla mia proposta? Il fatto che esistano ricchi e poveri dobbiamo prenderlo per dato, almeno nell'attuale situazione. Proprio partendo da questo dato di fatto, la mia proposta consentirebbe di favorire un maggiore accesso dei poveri all'istruzione terziaria rispetto alla situazione attuale e quindi di ridurre la disuguaglianza e incrementare la mobilità sociale.

"Altre questioni"

Le altre questioni toccate da Francesco sono in larga parte tangenziali rispetto alla mia proposta.

È vero: in Italia le tasse universitarie non sono zero, ma sono ridicolmente basse rispetto ai costi di erogazione del servizio. Dire che per questo in Italia si va all'università praticamente gratis mi sembra un'approssimazione non insensata. Però accetto la critica: un piccolo costo in termini di tasse universitarie c'è e avrei dovuto essere più preciso. D'altro canto Francesco ammetta che una differenziazione in fasce di reddito come quelle da lui citate (da 300 a 1500 ad esempio) implica un costo ridicolo per una famiglia abbiente. Continuo a non capire perché Francesco (e chi la pensa come lui) trovi accettabile che ad esempio un professore ordinario come me possa mandare i suoi figli all'università spendendo solo poco più di 2000 euro di tasse universitarie l’anno.

Inoltre la mia proposta tiene in considerazione il fatto che dobbiamo finanziare anche le spese di alloggio e trasferimento degli studenti: anche per queste spese potrebbe essere chiesto il prestito.

Infine, inutile discutere di qualità del sistema universitario, o specificamente della Bocconi: abbiamo opinioni diverse e usiamo unità di misura differenti. E poi entrambi i nostri interventi hanno confuso didattica e ricerca, valutazione generale e field specific.

Rimane invece il fatto che quale che sia il livello attuale dell'università italiana si possono migliorare le cose e a questo aspira la mia proposta.

A questo punto, ad altri la parola.

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[1] Vedi ad esempio, limitandosi solo all'evidenza italiana più recente: Checchi, Fiorio e Leonardi (2011), "Intergenerational persistence of educational attainment in Italy", IZA Working Paper 3622, http://www.iza.org/en/webcontent/publications/papers/searchResults.

Mentre dati precisi sulla ricchezza sono meno diffusi e quindi la relazione tra istruzione e ricchezza è stata meno frequentemente stimata, la relazione tra istruzione e reddito da lavoro è forse la relazione maggiormente studiata da economisti e sociologi. Qualsiasi manuale di economia del lavoro riporta rassegne di studi per ogni paese del mondo che confermano una relazione positiva e statisticamente molto significativa: nei paesi avanzati, mediamente, un anno di istruzione è associato ad un aumento del reddito da lavoro pari a circa il 6-8% (vedi, ad esempio, Brucchi Luchino. "Manuale di Economia del Lavoro", Il Mulino).

[2] Il dato non è inventato, ma è tratto da Checchi, Ichino e Rustichini (1999), "More equal but less mobile? Education financing and intergenerational mobility in Italy and in the US", Journal of Public Economics, Tabella 8, pag. 360, http://www2.dse.unibo.it/ichino/dc-ai-ar%60%60moreequal-jpe.pdf)

[3] Il Teorema di Bayes mette in relazione questi concetti statistici nel modo seguente:

P(L=1|Y=0) = Pr(Y=0|L=1) Pr(L=1) / [ Pr(Y=0|L=1) Pr(L=1) + Pr(Y=0|L=0) Pr(L=0)] (5)

dove è evidente che per avere P(L=1|Y=0), ossia l'indicatore che ci interessa, a partire da Pr(Y=0|L=1), ossia quello che dicono i dati Almalaurea, servono due altre informazioni: Pr(L=1) e Pr(Y=0|L=0), fornite nel mio articolo con Checchi e Rustichini (e non solo).

Analogamente per la seconda probabilità condizionata:

P(L=1|Y=1) = Pr(Y=1|L=1) Pr(L=1) / [ Pr(Y=1|L=1)Pr(L=1) + Pr(Y=1|L=0) Pr(L=0)]  (6)

[4] Vedi nota 2. Per essere ancora più precisi e depurare il confronto dalle variazioni delle distribuzioni marginali, la letteratura compara gli odds ratios, ossia i rischi relativi, definiti come:

Pr(L=1|Y=0)/ Pr(L=0|Y=0)    e    Pr(L=1|Y=1)/  Pr(L=0|Y=1)             (7)

Questi rischi relativi sono gli indicatori menzionati nella citazione che segue tratta dall'articolo con Checchi e Rustichini.

[5] Si veda l'articolo per ulteriori analisi e risultati, in particolare sulla relazione positiva tra istruzione e reddito, che in questa sede giustifica la considerazione delle famiglie con genitori laureati come famiglie economicamente avvantaggiate.

[6] Ringrazio Daniele Terlizzese, con cui sto lavorando ad un rapporto esteso sulla nostra proposta di riforma del finanziamento universitario, per l'aiuto nel reperimento di questi numeri, e per la conversione da redditi netti a redditi lordi nei dati Banca d'Italia.

[7] Trascurando, in prima approssimazione, l'imprecisione derivante dalla combinazione di redditi familiari e individuali.

(Fonte: A. Ichino, scienzainrete.it 20-06-2011)
 
Un commento PDF Stampa E-mail

Nel frattempo in Gran Bretagna c'è un’ampia discussione che mette in grave dubbio sia l'efficacia che la moralità sociale delle misure adottate in seguito al rapporto Browne. Lo dice proprio oggi (8/6/2011) questo articolo uscito sul guardian.co.uk: http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2011/jun/08/britain-universities-funding-crisis. Su un piano diverso, anche Howard Hotson ha mosso recentemente delle critiche radicali sull'efficacia dell'incremento delle tasse universitarie e sul loro impatto sulla qualità dell'istruzione superiore: http://www.lrb.co.uk/v33/n10/howard-hotson/dont-look-to-the-ivy-league.

Vale la pena riportare le parole di Margaret Hodge, presidente della commissione parlamentare per le finanze pubbliche (7/6/2011): "At present, more universities intend to charge higher fees than the Department had expected. If the universities’ plans to widen participation are approved by the Office for Fair Access, this will leave a substantial funding gap which will either require further cuts in higher education or further resources from the Treasury." Nel verbale del Public Accounts Committee: Regulating financial sustainability in higher education, inoltre si legge: "15. In modelling the costs of the new funding environment, the Department assumed an average fee loan of £ 7,500 would be taken up by 90% of students. At the time of the hearing, a majority of institutions were proposing to charge the maximum £ 9,000. The Department acknowledged that higher than forecast fees would lead to a pressure on the student support budget, potentially up to several hundred million pounds. It noted that the likely cost would become clearer once scholarships, bursaries and fee waivers were taken into account and the Office for Fair Access had made its judgements on institutions' arrangements to safeguard access for lower income and other under-represented groups. Depending on the result, the Department will need to consider the options available, which might range from finding more money through to reducing the places available. 16. The Department's balance sheet shows the value of the student loans outstanding, with an adjustment for an expected rate of non-repayment of around 30%. The balance of loans outstanding could rise from about £ 24 billion currently to around £ 70 billion by 2015-16." (Regulating financial sustainability in higher education - Public Accounts Committee: http://www.publications.parliament.uk/pa/cm201012/cmselect/cmpubacc/914/91402.htm. Risulta abbastanza chiaro - come ammette la stessa commissione parlamentare - che anche in Gran Bretagna vi sarà un grosso problema di 'education bubble' nel prossimo futuro. Proprio questo significa – tecnicamente - ipotecare il futuro, e quindi fa bene Sylos Labini a evocare questo probabile/possibile scenario. Il risultato di questa analisi del processo di rimodulazione delle rette universitarie promosso dal rapporto Browne è che esso è considerato sostanzialmente fallimentare e pericoloso. Ciò è confermato dalla recente mozione di "no confidence" sulla politica dell'attuale ministro britannico dell'istruzione superiore, mozione votata a larga maggioranza (283 voti su 288) dall'organo di governo Università di Oxford: http://www.guardian.co.uk/education/2011/jun/07/oxford-university-no-confidence-vote (ancora una volta l'università di Oxford ha saputo tenere la schiena dritta, piacerebbe che questo accadesse anche dalle nostre parti...)
(Fonte: F. Gregori 08-06-2011)
 
Tasse universitarie: no all’aumento ma sì a una maggiore equità PDF Stampa E-mail

Il Festival dell’Economia dedica un appuntamento del suo nuovo format “Pro e Contro” al tema, delicato e attuale, delle tasse universitarie. Uno spunto per riflettere sull’accesso all’istruzione universitaria, sui finanziamenti agli atenei, sulla competizione internazionale nella formazione. A difendere la tesi dell’aumento delle tasse, Gustavo Piga, docente di Economia politica all’Università di Roma “Tor Vergata”; dalla parte opposta Gianfranco Cerea, docente alla Facoltà di Economia dell’Università di Trento. E il pubblico prima si divide e poi premia la linea contro l’aumento: se non esiste un sistema di valutazione adeguato che valorizzi l’offerta degli atenei, aumentare le tasse non servirebbe a riconoscere la qualità, né a generarla.

L’incontro, coordinato da Alberto Orioli, vicedirettore de “Il Sole 24 Ore” e introdotto da Daniele Checchi, docente di Economia del lavoro all’Università Statale di Milano, si è aperto con l’esposizione delle tesi da parte dei due relatori, davanti agli studenti e al pubblico del Festival dell’Economia, riunito nella sala Depero del Palazzo della Provincia.

Un tema, quello delle tasse universitarie, che ha suscitato subito l’interesse del pubblico, attirato dal grande dibattito seguito all’introduzione della riforma del 3+2 e alla crisi delle risorse che ha paralizzato il sistema universitario.

«Si tratta di una questione complicata – ha introdotto l’economista Daniele Checchi – perché nel valutarla bisogna tenere conto sia dell’uguaglianza nella possibilità di accesso all’istruzione universitaria, sia delle difficoltà di finanziamento degli atenei, aspetto che vede l’Italia collocarsi nettamente al di sotto della media OCSE quanto a risorse a disposizione per gli atenei. Nel nostro Paese la contribuzione studentesca, che concorre per circa il 12% al finanziamento delle università, si è attestata sul principio secondo cui, a fronte di scarsa spesa, si ha scarsa qualità. In altri Paesi, invece, la quota di contribuzione è più elevata ma lo è anche, di conseguenza la qualità dell’offerta. Un recente studio dell’Ocse, in questo senso, raccomanda l’utilizzo della contribuzione studentesca come uno degli strumenti per generare maggiore competizione e migliorare la qualità, secondo il principio: più si paga e più ci si aspetta. Di certo nella valutazione concorrono anche altri fattori: ad esempio, la pianificazione di quanti laureati il nostro Paese ha bisogno o la valutazione delle opportunità di accesso. Ma la domanda resta: quale livello di finanziamento possiamo assicurare al sistema universitario e, di conseguenza, quanto possiamo spingerlo nella competizione internazionale?».

Una domanda cui i due economisti del Pro e Contro hanno cercato di dare risposta dopo un primo sondaggio sulle opinioni del pubblico che si è schierato con il 46% dei voti contro l’ipotesi di rialzo delle tasse, per il 37% a favore, mentre il 16% ha preferito astenersi e rimandare la decisione. «Viva le tasse universitarie, perché rendono il sistema più equo», ha esordito Gustavo Piga, introducendo le sue tesi a favore dell’aumento. «Ma bisogna fare attenzione. In Italia il sistema è tale per cui a finanziarlo sono di fatto gli studenti meno abbienti. Ci troviamo dunque in una situazione altamente regressiva. La scelta dell’università rivela un bisogno di mobilità sociale: la si sceglie per arricchirsi, per apprendere, per conoscere culture diverse. Dobbiamo quindi chiederci quale schema di tassazione favorisca il raggiungimento di questi risultati. E anche come tassare, perché i modi possono essere i più svariati ed è importante decidere quali aspetti privilegiare».

«Va detto innanzitutto che l’aumento delle tasse può influire sulla percezione del valore dell’offerta universitaria – ha aggiunto Piva. Tasse basse, infatti, equivalgono spesso nella percezione internazionale, a bassa qualità. Inoltre, non è importante quanto spendiamo ma come. Aumentare le tasse ha una finalità di redistribuzione, anche se bisogna cercare di arginare il fenomeno della fuoriuscita degli studenti dal sistema. Io penso però che la decisione della scelta universitaria non stia nel sistema adottato per la tassazione. Lo dimostra il fatto che nel nostro Paese, dove le tasse sono già basse, non si assiste di certo a un ingresso di massa. Bisogna chiedersi dunque perché tante persone, magari brave, non vadano all’Università. Il problema sta spesso nei genitori delle famiglie povere che non mandano i figli, nonostante il vantaggio che ne potrebbero avere nel frequentarla. Una miopia che secondo l’Ocse può incidere fino al 50% della decisione. È dunque importante intervenire nel momento giusto, attraverso una campagna culturale forte. La politica deve orientarsi verso un modello diverso da quello della tassazione».

Contrario invece all’ipotesi di alzare le tasse universitarie Gianfranco Cerea: «Non servirebbe. La rete di collusioni che è attiva tra gli atenei italiani a vari livelli porterebbe inevitabilmente ad un rialzo generalizzato, indipendentemente dalla qualità dell’offerta. Questo avverrebbe perché il sistema è caratterizzato dalla presenza di oligopoli che soffocano la concorrenza tra atenei e presenta anche notevoli asimmetrie nelle informazioni disponibili: come si fa, ad esempio, a stabilire quale sia una buona facoltà? Occorrerebbe un sistema oggettivo di ranking delle facoltà che ancora non è sufficientemente messo a punto. Bisognerebbe dare un’autonomia vera alle università e accettare che gli atenei possano anche fallire. Soltanto allora sarebbe possibile ragionare su “prezzi di mercato” che vadano di pari passo con la qualità».

«Le tasse devono essere viste piuttosto come uno strumento per conseguire altri obiettivi – ha chiarito Cerea. Come quello di finanziare il diritto allo studio senza gravare sugli studenti meno abbienti, oppure spingere gli studenti a rispettare i tempi. Una proposta potrebbe prevedere misure specifiche per studenti che arrivano da famiglie molto povere, da individuare e sostenere ancora prima dell’immatricolazione, già nelle scuole superiori. E poi sostenere il principio dell’iscriversi per laurearsi: al momento dell’iscrizione bisognerebbe discriminare i titoli di studio, perché non sono più tollerabili abbandoni di quasi il 50%, anche tra quelli che ricevono una borsa di studio». Cerea ha poi fatto riferimento al sistema introdotto come apripista dall’Università di Trento, che ha alzato le tasse universitarie, ma allo stesso tempo, ho riversato il gettito derivante sulle borse di studio per gli studenti che si sono laureati in tempo e con buoni voti».

«Su un piano sociale più ampio – ha aggiunto - si potrebbe dotare tutti i cittadini alla nascita iscritti di un fondo previdenziale che può essere utilizzato nel corso della vita per lo studio, l’acquisto della casa o le attività di formazione, cui possono versare sia i giovani, che i nonni, sollecitati da robusti incentivi fiscali. Allora sì che potremo alzare le tasse universitarie, ma soltanto per sostenere il diritto allo studio. Ma la strada per l’equità è ancora lunga».

La votazione finale che ha decretato la fine del dibattito ha visto una riconferma ancor più convinta delle posizioni espresse dal pubblico all’inizio dell’incontro: il 56% dei votanti (10 punti in più rispetto a prima) ha votato contro l’ipotesi di rialzo delle tasse; il 28% (9 in meno di prima) ha votato contro e la percentuale di astenuti è rimasta invariata, 16%.

Marco Magarini dell’Istat ha infine chiuso l’incontro offrendo un quadro della rilevazione telefonica condotta a maggio su un campione di 2000 consumatori italiani sullo stesso tema. Alla domanda se sia giusto alzare le tasse universitarie al fine di migliorare il servizio, il 60,7% degli intervistati si è dichiarato per nulla d’accordo, il 20,2% poco d’accordo, l’11,2% abbastanza d’accordo, e solo 1,9% molto d’accordo (il 6% non sa rispondere).
(Fonte: julienews.it 06-06-2011)
 
I compiti didattici dei ricercatori PDF Stampa E-mail

Dopo avere rchiamato le norme che riguardano lo stato giuridico dei ricercatori, in merito ai loro compiti didattici si può delineare quanto segue.

L’entità dei compiti didattici dei ricercatori e le norme che regolano la possibilità che essi svolgano la funzione docente sono state progressivamente modificate nel tempo con vari provvedimenti: la legge 382/80 non consentiva l’attribuzione di insegnamenti ai ricercatori, ma tale vincolo è stato successivamente rimosso, prima per i Ricercatori confermati e quindi per tutti: la Legge 230/04, introducendo la figura del professore aggregato ai Ricercatori ai quali sono affidati corsi e moduli curriculari, riconosce loro una funzione docente, senza mai arrivare a riconoscerne il ruolo docente. In conclusione: il DM 31 Ottobre 2007 n. 544 e il DM 22 settembre, n. 17 2010 riconoscono implicitamente ai ricercatori una funzione docente di fatto: la Legge 30 dicembre 2010  n. 240 mantiene la figura del professore aggregato, rende retribuito l’affidamento, ma continua a non riconoscere il ruolo: la Legge 30 dicembre 2010  n. 240 crea una figura del tutto nuova di ricercatore a tempo determinato “tuttofare”, tenuto a svolgere attività di didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti nonché delle attività di ricerca.
(Fonte: A. Stella, unipd 10-06-2011)

 
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