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27 Giugno
Da Vision la classifica dell’internazionalizzazione delle università italiane PDF Stampa E-mail

Vision, think tank italiano su problemi inerenti globalizzazione, democrazia, tecnologie e società, ha stilato una classifica delle università italiane di carattere multidimensionale, prendendo spunto dalla diffusa moda dei ranking di carattere internazionale che valutano le università in base ad alcuni specifici parametri.

L'ultima classifica di Vision, pubblicata in un paper dal titolo L'internazionalizzazione in Italia e la classifica delle Università, ha dato risalto a una tematica di cui si parla con una certa continuità negli ultimi tempi: il livello di internazionalizzazione delle università italiane, ovvero la capacità dei nostri atenei di richiamare studenti stranieri e di competere in attività di didattica e ricerca con le università degli altri paesi europei ed extraeuropei. Basandosi su alcuni parametri di valutazione (percentuali di: studenti in entrata, in uscita, di studenti internazionali, di crescita del numero di studenti internazionali, di corsi congiunti con università estere), il gruppo Vision ne trae la conclusione che sono poche le università italiane in grado di competere a livello internazionale.

Ai primi posti da tre anni ci sono sempre le stesse università: la Bocconi (seconda nel 2009 e prima nel 2010 e nel 2011); l'Università per stranieri di Perugia (terza nel 2009, scesa al quattordicesimo posto nel 2010 e risalita al secondo nel 2011); i Politecnici di Milano e Torino; gli Atenei di Siena, Bologna e Firenze; tra le non statali spiccano gli ottimi risultati, nel triennio, della Luiss (decima, poi sesta e ottava nel 2011), del Campus Bio-Medico (nono, quinto e ora sedicesimo) e, recentemente, della LUMSA (nel 2011 si è classificata al settimo posto dopo i risultati bassi degli anni precedenti). Negativo il bilancio per le università del Sud: nel 2009 il primo ateneo menzionato era l'Università di Bari al ventisettesimo posto, nel 2010 era l'Università di Messina al trentanovesimo posto e nel 2011 al diciannovesimo posto si è piazzata l'Università del Sannio. Gli ultimi dieci posti della classifica 2011 sono quasi tutti per le università del Sud e, tra le conclusioni, il paper mette proprio l'accento su questa caratteristica. Tra le soluzioni, il paper indica nel contesto territoriale di riferimento per le singole università un'importante risorsa da sfruttare per renderle maggiormente in grado di internazionalizzarsi, prendendo esempio dalle università virtuose piazzatesi ai primi posti della speciale classifica di Vision.

Primi posti della Classifica Vision delle Università italiane più internazionali (2011):

1.     Università Luigi Bocconi  (nel 2010, prima posizione)

2.     Università per stranieri di Perugia  (2010: quattordicesima)

3.     Università per stranieri di Siena  (2010: ventiseiesima)

4.     Politecnico di Torino  (2010: quarto)

5.     Università "Carlo Cattaneo" - LIUC  (2010: quarantasettesima)

6.     Università di Bolzano  (2010: ventunesima)

7.     LUMSA - Roma  (2010: trentasettesima)

8.     LUISS - Roma  (2010: sesta)

9.     Politecnico di Milano  (2010: terzo)

10. Università Foro Italico - Roma  (2010: cinquantunesima)

11. Università di Trento  (2010: diciannovesima)

12. IULM - Milano  (2010: venticinquesimo)

13. LUSPIO - Roma  (2010: trentatreesima)

14. Università di Bologna  (2010: seconda)

15. IUAV - Venezia  (2010: quarantesima)

La classifica completa, il paper del 2011 e quelli delle precedenti edizioni sono consultabili all'indirizzo http://www.visionwebsite.eu/vision/eventi.php.

(Fonte: D. Gentilozzi, rivistauniversitas.it 20-06-2011)
 
Un corso sperimentale per imparare a scrivere la tesi PDF Stampa E-mail
Per supplire alla scarsa attitudine alla scrittura degli studenti, l'ateneo bolognese lancia un nuovo progetto: un seminario per imparare a scrivere la tesi di laurea. All'Università anche per imparare a scrivere la tesi di laurea. Succede a Bologna, dove da novembre i laureandi di quattro facoltà, se lo vorranno, potranno accedere al progetto sperimentale di educazione alla scrittura delle tesi. La novità, approvata dal Senato accademico, potrebbe riguardare all'incirca 400 studenti. L'insegnamento sarà un laboratorio di scrittura riservato a massimo 30 studenti per classe, con frequenza obbligatoria e crediti formativi. "Gli studenti saranno così in grado di affrontare meglio le principali difficoltà dell'argomentazione accademica - spiega in una nota Roberto Nicoletti, prorettore agli studenti dell'ateneo bolognese - dagli aspetti discorsivi a quelli formali come le note, le citazioni e la bibliografia. Acquisiranno, inoltre, gli strumenti per potenziare il lessico specialistico e professionale declinato a seconda delle facoltà e delle relative specificità disciplinari". Le facoltà della sperimentazione sono: economia, lettere e filosofia, scienze matematiche fisiche e naturali e giurisprudenza.
(Fonte: La Repubblica Bologna 14-06-2011)
 
Proposta equa per migliorare l'università PDF Stampa E-mail

Si potrebbero liberare risorse rilevanti tagliando chirurgicamente i molti sprechi e le rendite parassitarie che pullulano nelle nostre università ma questo richiede tempo. E oggi l’Erario non può destinare somme maggiori agli atenei, neanche se tagliasse, come sarebbe auspicabile, altri sprechi nella spesa pubblica o recuperasse evasione fiscale.

C'è però una strada alternativa percorribile, promossa dall'Osservatorio sull'Università del Gruppo 2003 che ha dato origine a un'interrogazione parlamentare presentata al Senato il 18 maggio. Una strada che il Manifesto del 25 maggio ha descritto in modo fuorviante, fomentando un’obiezione ideologica che non avrebbe ragione d'essere per chi leggesse con attenzione i dettagli della proposta.

Sono molti gli studenti che sicuramente potrebbero pagare di più per i loro studi universitari: sono i figli delle famiglie abbienti che attualmente pagano meno di quanto costi il loro addestramento. Questo consente loro di incrementare il capitale umano e i redditi futuri a spese della fiscalità generale, e in particolare dei poveri che pagano le tasse ma mandano con minor frequenza i figli all'università. Non riesco a trovare un solo argomento contro la proposta di alzare le tasse universitarie pagate dagli studenti più abbienti. È comunque uno scandalo che essi non paghino per un investimento di cui loro per primi godranno. Sorprende che la sinistra ancora non se ne sia accorta.

Ma che fare per gli studenti meno abbienti? Purtroppo, non bastano le tasse universitarie pagate dai super ricchi per finanziare un'istruzione terziaria di alta qualità per tutti gli altri che meritano di accedervi. E d'altro canto, dare ai poveri un'università gratis ma di pessima qualità è una truffa. Sono loro gli studenti maggiormente interessati ad atenei ben finanziati, che funzionino meglio e possano offrire quell'ascensore sociale che manca nel nostro Paese. Nonostante istruirsi costi poco in Italia, la mobilità intergenerazionale è tra le più basse nei paesi avanzati.

Esiste poi una classe media che potrebbe pagare gli studi universitari dei suoi figli, se di questi costi fosse avvertita per tempo. In USA molte famiglie iniziano quando i figli nascono a mettere da parte per il loro "college". Ma in Italia queste stesse famiglie rifiuterebbero oggi, a buon diritto, un improvviso aumento delle tasse universitarie, anche se a regime fosse equo e consentisse di migliorare la qualità degli atenei.

Una soluzione c'è, però, anche per questi casi. Le università potrebbero essere lasciate libere, se vogliono, di aumentare le tasse universitarie (differenziate per reddito familiare) e lo Stato potrebbe anticipare l'eventuale spesa aggiuntiva degli studenti meno abbienti a una condizione: che siano essi stessi (e non le loro famiglie) a dover ripagare il debito, ma solo se e quando, e qui sta il punto cruciale, arriveranno a guadagnare un reddito sufficiente per farlo. Solo da quel momento, e comunque gradualmente, dovranno saldare il loro debito attraverso una voce specifica del prelievo fiscale cui saranno assoggettati.

Dal punto di vista dello Stato quest’anticipo si configura come un investimento in capitale umano, finanziato con un'emissione di debito il cui rendimento atteso è funzione dei maggiori redditi che gli studenti conseguiranno proprio grazie a studi universitari di migliore qualità. È possibile che i mercati finanziari non credano alla bontà di questo investimento. Ma supponiamo che questa fonte di finanziamento sia associata a una liberalizzazione delle università che consenta loro di dotarsi delle strutture più avanzate e di competere per gli studenti più meritevoli e per i docenti più capaci. Ossia che i timidi passi in avanti della riforma Gelmini si concretizzino in un vero miglioramento di qualità e non nel "cambiare affinché nulla cambi". Allora i mercati avrebbero buone ragioni per fidarsi dell'operazione, perché percepirebbero che il debito finanzierebbe un investimento redditizio.

Per chi presta, esiste sempre un rischio di default del debitore. E ci sarebbe ovviamente anche in questo caso. Ma potrebbe essere contenuto se lo stato stabilisse che la percentuale di default debba essere coperta dalle università stesse con un sistema bonus-malus. Esse risulterebbero così responsabilizzate e avrebbero forti incentivi a migliorare la qualità degli studenti ammessi e degli insegnamenti impartiti anche mediante finanziamenti alla ricerca.

Fantascienza? No. La recente riforma inglese suggerita dal Rapporto Browne è simile a quanto qui proposto. L'interrogazione promossa dal Gruppo 2003 chiede al governo come mai, invece del Fondo per il Merito di cui poco si è capito, non sia stata data preferenza, anche solo in via sperimentale in qualche ateneo interessato, a questa soluzione che appare equa, efficiente e sostenibile.
(Fonte: A. Ichino, Il Sole 24 Ore 24-05-2011)
 
Tasse universitarie: fatti, miti e ideologia PDF Stampa E-mail

La discussione sull’ammontare delle tasse universitarie tocca vari punti politici e strategici di primo piano, dal ruolo dello Stato e dell’intervento pubblico, alla missione stessa dell’università; per questo è necessario che ci sia un dibattito approfondito su questo argomento. Andrea Ichino ha recentemente riportato i punti salienti di un’interrogazione parlamentare (primo firmatario Pietro Ichino - Partito Democratico) in cui si propone di aumentare le tasse universitarie ed introdurre un sistema di prestiti sul modello recentemente adottato in Inghilterra. Secondo i proponenti, le ragioni a favore dell’aumento delle tasse universitarie sono: (i) maggiori tasse implicano maggiore qualità e (ii) maggiori tasse con prestiti d’onore implicano una maggiore giustizia sociale. Prima entrare nell’analisi del merito della proposta è necessario fare chiarezza su alcune delle assunzioni su cui si basa; nelle parole di Ichino: «dare ai poveri un'università gratis ma di pessima qualità è una truffa».

(1) L’università italiana non è gratuita. Nel rapporto dell’OCSE “Education at a Glance 2010” a pagina 244 troviamo un confronto tra le tasse universitarie di diversi paesi. In particolare si nota che “Tra i paesi dell’Europa a 19 per i quali i dati sono disponibili, solo l’Italia, l’Olanda, il Portogallo e l’Inghilterra hanno tasse annuali al di sopra di 1100 dollari per studente a tempo pieno”. Tra le 14 nazioni considerate nel biennio 2006/07, l'Italia si colloca sesta come tasse universitarie, ma ultima come percentuale di studenti beneficiari di contributi per diritto allo studio. Si noti inoltre che il fondo integrativo statale per le borse di studio è recentemente passato da 246 a 76 milioni (-69%, un taglio enorme) equivalente al taglio di 45.000 borse su 150.000 erogate (che già coprivano solo l'82.5% degli aventi diritto). Dunque mentre le rette in Italia sono paragonabili, se non addirittura più alte, a quelle d’altri paesi europei, gli studenti meno abbienti non ricevono un aiuto rilevante a causa delle carenze strutturali di una politica per il diritto allo studio che dovrebbe essere lo strumento per rendere il sistema socialmente più equo, come avviene in altri paesi europei.

(2) L’Università italiana non è di pessima qualità. La ricerca italiana si colloca al settimo posto al mondo per volume totale di citazioni. Anche considerando il volume totale di pubblicazioni o l’H-index globale, l’Italia si posiziona sempre tra le prime dieci posizioni. Considerando che l’investimento in ricerca e sviluppo, sia in termini assoluti sia come percentuale del PIL, è minore dei paesi che ci precedono (Francia, Inghilterra oltre che Stati Uniti) possiamo concludere che l’efficienza del sistema universitario e della ricerca italiano è discreto (il che non significa che non sia improrogabile intervenire per migliorarlo). Questa situazione è spesso chiamata “paradosso italiano”. D’altra parte, per interpretare correttamente l’informazione contenuta nelle classifiche internazionali degli atenei, spesso citate a dimostrazione della mediocrità del sistema universitario italiano, e per identificare le sue criticità, è necessario: (i) considerare separatamente i diversi indicatori in base ai quali queste sono costruite, (ii) considerare anche le classifiche scorporate in base ai diversi campi disciplinari e (iii) conteggiare degli indicatori globali come ad esempio il numero di atenei di ogni paese inclusi nelle prime 500 posizioni. Uno studio dettagliato si trova nel libro di Marino Regini e collaboratori (Donzelli, 2009) in cui si conclude che “il vero svantaggio delle università italiane non risiede nella qualità della ricerca quanto nella bassa internazionalizzazione dei loro studenti e docenti”.

(i) Tasse più alte equivale a maggiore qualità? Chi scrive è convinto che la qualità di un ateneo non può essere semplicemente misurata dal ranking nelle classifiche internazionali. Tuttavia se seguiamo questa maniera di valutazione, troppo spesso superficialmente usata, troviamo che Italia le università in cui le rette sono più alte, la Bocconi e la Luiss, non compaiono tra le prime 500 posizioni in nessuna classifica internazionale, a differenza di un discreto numero università statali, in cui le rette sono notevolmente più basse. Inoltre, guardando al caso del Regno Unito, nessuno studio dimostra che la qualità dell'insegnamento e della ricerca siano aumentate dal 1998 (anno in cui sono state introdotte le tasse universitarie) ad oggi proporzionalmente alle tasse universitarie. Dunque, non è vero che le università pubbliche italiane siano quasi gratuite, che la qualità sia infima e che maggiori tasse comportino maggiore qualità. Consideriamo ora l’altro argomento che, secondo gli autori, giustificherebbe la proposta dell’innalzamento delle tasse e dei prestiti d’onore, quello della giustizia sociale, ovvero evitare che:

(ii) “Siano i poveri a pagare l’università dei ricchi”. In pratica gli autori della proposta vorrebbero evitare che qualcuno (i poveri) paghi per qualcosa di cui non usufruisce direttamente ma che anzi va a vantaggio di altri (i ricchi). Questo, ad esempio, già avviene con la sanità quando si pagano le tasse ma si gode di buona salute, condizione che però non dipende dal censo. D’altra parte, secondo gli autori, l’istruzione va vista come un investimento personale finalizzato all'incremento del reddito a vantaggio del singolo e non della collettività; per questo motivo sarebbe socialmente giusto che ognuno paghi di tasca propria, in particolare perché chi si avvantaggia maggiormente dell’istruzione proviene generalmente da una famiglia più abbiente: discutiamo ora questo aspetto della proposta. La premessa del ragionamento di Ichino è puramente politica:

«E oggi l’Erario non può destinare somme maggiori agli atenei, neanche se tagliasse, come sarebbe auspicabile, altri sprechi nella spesa pubblica o recuperasse evasione fiscale.»

Quest’affermazione non è argomentata, e infatti non è argomentabile in alcun modo, piuttosto è una convinzione politica e ideologica dell’autore che è del tutto lecito non condividere: ad esempio, chi scrive pensa che i soldi pubblici possano essere spesi meglio di quanto ha fatto l’attuale governo, sia per quantità che per qualità dell’investimento nell’università e nella ricerca, così come è realisticamente possibile fare una lotta all’evasione più efficace, ecc. Inoltre bisogna ricordare che l’Italia è sempre nelle ultime posizioni delle statistiche internazionali per spesa nella formazione universitaria e nulla vieta di rendere questa spesa dello stesso ordine, ad esempio, di un paese come la Francia. Ma lasciamo da parte queste considerazioni, che ricadono nel campo della volontà e della strategia politica, e passiamo ora all’analisi della proposta, che investe temi fondamentali come la tassazione e la giustizia sociale.

Attualmente, per legge, le tasse universitarie a carico degli studenti non possono superare il 20% del Fondo di Finanziamento Ordinario, il cui resto lo pagano tutti gli altri cittadini, anche chi l’università non la fa, tramite la fiscalità generale. L’argomento secondo il quale in un sistema pubblico le famiglie a basso reddito pagano l’università ai ricchi non considera che le aliquote fiscali crescono con il reddito, e andrebbe esteso a tutte le attività finanziate dallo Stato ma fruite in modo differenziato secondo il reddito. In teoria, l’imposta progressiva sul reddito insieme con la tassa di successione dovrebbero garantire un’equa ridistribuzione del reddito dando “pari opportunità iniziali” a tutti in quanto, in questo modo, chi è più ricco contribuisce più degli altri a pagare i servizi pubblici: una maniera di equilibrare maggiormente il sistema potrebbe essere quella di abbassare le aliquote dei ceti meno abbienti. Dunque non è vero che nel sistema attuale i poveri pagano l’università ai ricchi; il problema è casomai quello di dare più opportunità alle classi più povere, di rendere accessibile al maggior numero possibile di cittadini l’accesso all’istruzione universitaria e, dunque, di costruire un sistema socialmente più equo oltre che più efficiente e di migliore qualità. Il sistema proposto di tasse e prestiti è funzionale a questo scopo?

Per prima cosa è necessario ricordare che quando si considera la suddivisione della popolazione in fasce di reddito ci s’imbatte nel problema dell’evasione fiscale, che affligge l’Italia nel suo complesso. A questo proposito è sufficiente notare che meno del 15% della popolazione dichiara un reddito superiore a 29.000 euro/anno. Questa situazione ci ricorda l’arbitrarietà nell’identificazione, da un punto di vista fiscale, delle famiglie più abbienti. E’ ovvio che una seria politica di lotta all’evasione fiscale sia indispensabile per qualsiasi decisione lo Stato debba prendere, compreso il sistema dei prestiti d’onore. Non è forse un caso che nei paesi dove questo sistema è applicato (Stati Uniti, Inghilterra) non ci sono dei problemi d’evasione così strutturali come in Italia. Dunque, una seria lotta all’evasione fiscale non solo potrebbe fornire più risorse allo Stato, ma potrebbe anche non falsare le regole del gioco.

E’ chiaro che con il sistema di alte tasse e prestiti chi ha una famiglia abbiente non si deve indebitare. Invece, per chi non ha disponibilità, studiare diventa una scommessa, ovvero un’ipoteca sul proprio futuro. Questa situazione non può che disincentivare i meno abbienti allo studio allargando la forbice sociale. Inoltre bisogna considerare la proposta nel contesto attuale della realtà italiana, in cui la disoccupazione giovanile (15-24 anni) è del 30%, in cui si prevede che molti lavoratori atipici potranno aspirare solo all’assegno sociale (oggi di 411 euro), e con i redditi che si prospettano in futuro per gli studenti attuali la percentuale di chi non sarà in grado di restituire la somma potrebbe essere altissima generando dunque “una bolla universitaria” come sta avvenendo negli Stati Uniti: mentre le tasse universitarie sono in aumento, i rendimenti di un diploma di laurea sono in calo e la solidità dei prestiti agli studenti è minacciata da crescenti tassi di insolvenza.

Non va dimenticato poi che i prestiti per coprire le spese d’istruzione si aggiungono all’indebitamento delle famiglie, una delle principali cause dell’attuale crisi finanziaria. Per questo motivo, anche negli Stati Uniti, ci sono delle forti critiche al sistema dei prestiti. Per fare un esempio, l’86% dei medici negli Stati Uniti si laureano contraendo un debito medio di 155.000 dollari, cosa che sta portando a una notevole contrazione del numero di medici, che pure sono necessari al paese. Questo esempio mostra chiaramente che l'istruzione non è un investimento a favore del singolo ma a favore della comunità e per questo deve essere pubblica e finanziata dallo Stato: è la comunità nella sua globalità, a prescindere dal censo, che trae giovamento dall’istruzione.

Nella proposta è tuttavia previsto che vi sia un certo numero di “insolvenze”. A questo riguardo si nota che «naturalmente questo comporterà che si debba prevedere una certa percentuale di casi in cui la restituzione non avverrà; si può però evitare che ne derivi un maggior onere per lo Stato stabilendo che questa percentuale sia coperta (in tutto o in parte) dalle università stesse interessate, che così ne risulteranno responsabilizzate sia riguardo alla qualità degli studenti ammessi sia riguardo alla qualità dell’insegnamento».

Dunque lo Stato (o anzi una fondazione a partecipazione statale già prevista dal DL 70 del 13 maggio 2011) anticipa dei soldi all'università per ogni studente che non può permettersi di pagare le tasse; poi, se lo studente trova un buon lavoro restituisce i soldi allo stato, altrimenti è l'ateneo che deve restituirli. In questo modo, non solo gli atenei sono costretti ad agire come imprese private che investono sulla possibilità che i propri studenti trovino lavori ben remunerati, ma diventa il mercato del lavoro a influenzare cosa e come s’insegna. E’ ovvio che la scommessa abbia tanto più probabilità di successo quanto più la famiglia dello studente è agiata e quanto più una laurea è spendibile nel mercato del lavoro. Minimizzando il rischio si è naturalmente portati a concedere prestiti a studenti provenienti da famiglie più abbienti che studiano materie più vicine al mondo delle professioni. Vale la pena ricordare, come ha ben spiegato il premio Nobel per la fisica Sheldon Glashow, che il “ritorno” economico delle scienze di base, ammesso che sia possibile quantificarlo concretamente, richiede generalmente un tempo scala più lungo di quello rilevante per la vita di una singola persona.

In conclusione, la vera e unica ragione per aumentare le tasse è la compensazione della diminuzione del finanziamento pubblico all'università, da attuare secondo i dettami dell’ideologia neo-liberista, e non il perseguimento di una maggior qualità della ricerca o dell’insegnamento o di una maggiore equità sociale. Tuttavia, piuttosto che diminuire, un sistema basato su alte tasse universitarie e prestiti d’onore, aumenterebbe la differenza di possibilità e opportunità tra i ceti più e meno abbienti, allargando la forbice sociale e rendendo il sistema sostanzialmente più iniquo e con meno giustizia sociale. Inoltre, questo sistema metterebbe in grande difficoltà gli atenei nei territori economicamente più deboli abbandonando a se stesse le zone più depresse del paese. Infine, questo sistema non può che avere delle conseguenze deleterie per la stessa istituzione universitaria, condizionando non solo la scelta di chi avrà possibilità di studiare, ma anche di cosa sarà più conveniente studiare, secondo una logica assoggettata alle richieste di un malinteso mercato.
(Fonte: F. Sylos Labini, scienzainrete.it 07-06-2011)
 
Tasse per un'università più equa: risposta a Sylos Labini PDF Stampa E-mail

Ringrazio Francesco Sylos Labini per i suoi commenti stimolanti, anche se critici, al mio tentativo di quadrare il cerchio: ossia di trovare una strada per rifinanziare gli atenei in un modo che sia equo per i meno abbienti, responsabilizzi i singoli e le istituzioni per evitare sprechi di risorse e sia sostenibile nel lungo periodo entro i margini ristretti dei nostri conti pubblici.

Come ognuno sa il debito pubblico che stiamo lasciando alle future generazioni è esorbitante e in questo momento serve a poco discutere a chi vada attribuita questa pesante responsabilità. Ma è bene sgombrare subito il campo da un'illusoria soluzione per quadrare il cerchio, spesso menzionata in questi dibattiti. Chi vagheggia la possibilità di finanziare l'università italiana con riduzioni di altre voci della spesa pubblica (ad esempio gli aerei da caccia dell'esercito) oppure con la lotta all'evasione fiscale, deve comprendere che anche se queste strade fossero facilmente e immediatamente perseguibili (e certamente lo sono e devono essere percorse), ogni euro da loro fornito deve essere utilizzato per ridurre l'esorbitante debito pubblico accumulato nel passato. Francesco pensa che questo non sia vero perché è una questione di scelte politiche. Io penso che ridurre il debito pubblico sia una questione di sopravvivenza del nostro Paese e di equità verso i nostri figli e nipoti. Ma quand'anche fosse vero che è solo una scelta politica, in un paese democratico il governo riflette le preferenze dei suoi elettori. In attesa di riuscire a convincere gli italiani a pagare le tasse e a preferire buona ricerca invece che caccia-bombardieri, preferisco pensare intanto, con concreta creatività, a soluzioni alternative.

Tra breve uscirà una variante della proposta iniziale oggetto dell'interrogazione parlamentare, che attraverso un inedito spiraglio istituzionale potrebbe consentire di risolvere in modo significativo il problema del reperire fondi per l'università in modo compatibile con i vincoli di bilancio. Ma in attesa di poter rendere pubblica questa nuova versione, di cui ancora devo verificare alcuni dettagli importanti, qui mi limito a rispondere brevemente alle critiche di Francesco, per la parte che riguarda strettamente la proposta.

1) Nell'attuale situazione sono i poveri a pagare l'università ai ricchi?

La risposta è si perché perfino nell'ipotesi (da verificare come vedremo) che in Italia i ricchi contribuiscano più dei poveri alla fiscalità generale essendo le aliquote irpef disegnate in modo progressivo, se le tasse universitarie sono uguali per tutti ma i ricchi vanno all'università più dei poveri, il finanziamento dell'università risulta disegnato in modo regressivo, e quindi riduce la progressività complessiva del sistema tributario.

L'art. 53 secondo comma della nostra Costituzione dice che "Il sistema tributario è informato a criteri di progressività". Questi criteri sono stabiliti esplicitamente dalle leggi che determinano le aliquote del prelievo fiscale. Il finanziamento dell'università, invece, modifica questi criteri di progressività in un modo che non è voluto dal Parlamento, ma dettato dalla frequenza relativa con cui ricchi e poveri accedono all'università, se le tasse universitarie sono uguali per tutti. E ci sono forti motivi per ritenere che questa modificazione possa arrivare ad annullare completamente o addirittura invertire, di fatto, la progressività voluta dalle leggi. L'esempio numerico che segue illustra questa realistica possibilità.

Consideriamo un paese in cui ci siano 10 cittadini, 3 ricchi che guadagnano 100 e 7 poveri che guadagnano 10. Supponiamo che questo paese decida che sia equa una tassazione progressiva al fine di ridurre la disuguaglianza dei redditi tra ricchi e poveri. A questo fine il paese decide che i ricchi debbano pagare il 40% di tasse mentre i poveri solo il 20%. Quindi l'ammontare di tasse pagate dai ricchi sarà 3*40 = 120 mentre l'ammontare pagato dai poveri sarà 7*2 = 14. Le entrate fiscali del paese ammontano quindi a 134.

Supponiamo che il governo di questo paese decida di usare questo gettito fiscale per un bene pubblico (ad esempio istruzione elementare) che per ipotesi è usato da ricchi e poveri in misura uguale procapite, ossia 13,4 a testa. Quindi un cittadino ricco che ha un reddito prima delle tasse di 100, dopo le tasse e l'erogazione del bene pubblico si ritrova con 100 - 40 + 13,4 = 73,4. Un cittadino povero invece, che ha un reddito prima delle tasse pari a 10, dopo le tasse e l'erogazione del bene pubblico avrà un reddito pari 10 - 2 + 13,4 = 21,4.

Quindi prima dell'intervento del governo un povero aveva un reddito pari al 10% di un ricco. Dopo l'intervento del governo un povero ha un reddito pari a circa il 29% del ricco. L'intervento statale ha ridotto la disuguaglianza dei redditi come nelle intenzioni del governo che ha fatto questo rappresentando la volontà della maggioranza dei suoi elettori.

Ora ipotizziamo che l'anno successivo il governo utilizzi lo stesso prelievo fiscale per finanziare un diverso bene pubblico, ossia le università. Nel caso dell'istruzione terziaria, però solo 4 cittadini s’iscrivono all'università: 3 ricchi e 1 povero. Ciascun iscritto all'università riceve quindi, sotto forma di istruzione universitaria, un quarto del gettito fiscale, pari a 33,5 (ovvero 134/4).

In questo caso il reddito procapite dei 3 cittadini ricchi, dopo l'intervento statale, è pari a 100 - 40 +33,5 = 93,5. Invece il reddito del cittadino povero che va all'università è pari a 10 - 2 +33,5 = 41,5. Infine il reddito procapite dei 6 cittadini poveri che non vanno all'università è pari 10 - 2 = 8. Ne consegue che il reddito medio procapite dei 7 poveri è 41,5*1/7 + 8*(6/7) = 12,8.

Quindi in questo secondo anno, mentre prima dell'intervento statale il povero medio guadagna il 10% del ricco medio, dopo l'intervento statale il povero medio guadagna il 13,7% del ricco medio. Alla fine del primo anno, dopo l'intervento statale, il reddito procapite di un povero medio era pari al 29% del reddito procapite di un ricco

Ossia nonostante la volontà popolare abbia chiesto al governo di realizzare un sistema progressivo di tassazione, il fatto che l'università sia usata dai ricchi più che dai poveri finisce per ridurre notevolmente la progressività della fiscalità generale contrariamente a quanto desiderato dalla collettività. È importante notare che nel primo anno, in cui il bene pubblico (istruzione elementare) era da tutti usato in modo uguale, la progressività del sistema tributario voluta dalla collettività non veniva ridotta.

Il libro di Baldini e Toso, Disuguaglianze, povertà e politiche pubbliche, Il Mulino 2009, utilizza i migliori dati a disposizione per fare questi conti nella giungla del sistema tributario italiano. Alla fine di questi conti, come dicevo all'inizio, non è nemmeno chiaro quanto progressivo sia il prelievo fiscale in Italia. Ad esempio, secondo Baldini e Toso, i contributi e le imposte dirette riducono l'Indice di Gini (un indice della disuguaglianza dei redditi individuali) da 0,394 a 0,325 ma le imposte indirette fanno risalire l'indice a 0,362. Tenendo conto degli effetti del sistema di finanziamento dell'università l'Indice di Gini salirebbe ancora. E non appena possibile, a questo punto, farò il calcolo preciso.

2) L'università italiana non è gratuita

Niente da eccepire su questo, soprattutto tenendo conto anche dei costi di spostamento degli studenti, qualora iniziassero a spostarsi di più per scegliere gli atenei migliori. Ma non vedo che rilevanza abbia questo punto ai fini della mia proposta. Anche perché, così come vengo accusato dai critici di voler bovinamente copiare i numerosi paesi stranieri che hanno introdotto sistemi analoghi a quello da me proposto, mi verrebbe da chiedere a Francesco perché dovremmo copiare gli altri paesi nel fare una cosa iniqua e inefficiente come non fare pagare le tasse universitarie ai ricchi!

Ma lasciando perdere i paragoni internazionali, nessuno sembra volersi accorgere del fatto che la mia proposta consiste nel far pagare l'università di più ai ricchi (quelli di oggi subito e quelli di domani in modo differito) e di farla pagare di meno ai poveri. Ovvero anche se volessimo lasciare invariato il costo attuale medio dell'accesso all'università, per i motivi di equità di cui al punto (1) la mia proposta prevede di differenziare le tasse universitarie rispetto al reddito familiare e di farle pagare comunque solo in modo differito, solo subordinatamente al raggiungimento di un reddito sufficiente e solo in proporzione a detto reddito. Questa offerta vale per chi non possa pagare subito le tasse universitarie e per chi preferisca pagarle in modo differito.

Questo, lo ripeto ancora una volta, vuol dire che i poveri di oggi e di domani ossia quelli che nonostante l'accesso all'università non riescono ad aumentare i loro redditi, non pagano nulla. Non si vede quindi in base a quale argomento Francesco verso la fine del suo articolo scriva: "E’ chiaro che con il sistema di alte tasse e prestiti chi ha una famiglia abbiente non si deve indebitare. Invece, per chi non ha disponibilità, studiare diventa una scommessa, ovvero un’ipoteca sul proprio futuro. Questa situazione non può che disincentivare i meno abbienti allo studio allargando la forbice sociale". Ritengo proprio che con il mio sistema accadrebbe il contrario, soprattutto se favorisse la nascita di corsi di laurea di eccellenza.

In secondo luogo, la mia prima risposta (punto 1 sopra) riguardo alla regressività del finanziamento universitario, suggerisce che probabilmente è possibile (e auspicabile) aumentare il livello medio delle tasse universitarie, ma caricando i più abbienti in proporzione maggiore di quanto vengano ridotte le tasse universitarie per i meno abbienti. Ossia è auspicabile e possibile rendere progressivo anche il finanziamento dell'università considerato da solo in isolamento dal resto mediante tasse universitarie fortemente differenziate sulla base del reddito familiare. Il che non sarebbe altro che un’applicazione diretta dell'art. 53 della Costituzione.

Infine, se l'inedito spiraglio istituzionale cui sopra accennavo si conferma, nella nuova versione della mia proposta l'aumento delle tasse universitarie combinato con prestiti pubblici sostanziosamente agevolati per i meno abbienti, costituirà, di fatto, uno strumento per convogliare maggiori risorse pubbliche, fornite dai prestiti, agli atenei che creino davvero didattica e ricerca di eccellenza, portate dalle gambe degli studenti che vorranno scegliere solo gli atenei migliori.

3) L'università italiana non è di pessima qualità

Anche ammesso che Francesco abbia ragione su questo punto, se la mia proposta consentisse di migliorare questa già altissima qualità, perché non farlo? Ma in realtà, al di là degli indicatori bibliometrici sempre difficili da interpretare in modo conclusivo essendo cruciale stabilire che cosa deve essere usato al loro denominatore, c'è un indicatore molto chiaro ed evidente della qualità della ricerca in Italia che ho analizzato dati alla mano nel mio articolo (con Roberto Perotti e Stefano Gagliarducci) su "Lo splendido isolamento dell'università italiana", pubblicato nel libro di Boeri et al. (ed.) Oltre il Declino (Mondadori 2005, scaricabile anche da http://www2.dse.unibo.it/ichino/gipp_declino_18.pdf).

L'assenza di ricercatori stranieri nelle nostre università è l'indicatore più esplicito dell'esistenza di qualcosa di grave che non va nel modo in cui la ricerca scientifica si svolge in Italia. La cosiddetta "fuga dei cervelli italiani" non sarebbe un problema se fosse contraccambiata da un arrivo di cervelli stranieri, come fisiologicamente avviene all'estero. Anche Francesco richiama questo fatto citando Marino Regini. Ma stranamente non lo considera come il segnale più evidente del fatto che la ricerca in Italia, tranne che in alcuni importanti punti di eccellenza, non raggiunge la qualità sufficiente per attirare ricercatori dall'estero. E se Francesco mi rispondesse che il motivo sono i bassi salari e il sottofinanziamento, torniamo ai punti precedenti: bisogna trovare modi per aumentare il finanziamento all'università. Uno di questi modi, ispirato alla nostra Costituzione è farla pagare soprattutto ai ricchi, possibilmente più che in misura proporzionale al loro utilizzo, proprio per ottenere l'effetto progressivo voluto dai nostri Padri Costituenti.

Infine, la Bocconi non compare nelle statistiche internazionali degli atenei generalisti perché è un ateneo in cui si insegna praticamente solo economia. Se Francesco volesse usare le statistiche appropriate troverebbe che in Economics la Bocconi è davanti a tutte le altre università italiane (purtroppo anche davanti alla mia, che recentemente ha perso due dei suoi migliori professori migrati alla Bocconi e a UPF, Barcellona, proprio perché non c'era modo di offrire loro stipendi e condizioni di ricerca comparabili con quelli di queste due università). Uno di questi ranking specifici per economics è, ad esempio, quello bibliometrico (solo per la ricerca e basato sulle pubblicazioni nelle migliori riviste di economia) fatto dal Economics Department di Tilburg (https://econtop.uvt.nl/rankinglist.php). Dal punto di vista della didattica e dei servizi agli studenti credo nessuno dubiti che la Bocconi stia davanti tutti (almeno in economics) e lo può proprio fare grazie a maggiori risorse. Sui ranking in economics vedi anche il mio già citato articolo sullo "Splendido isolamento dell'università italiana". Non è la mia materia, ma spero che medici e biotecnologi di questo sito possano dirci qualcosa riguardo all'Istituto San Raffaele.

Mi fermo per non abusare ulteriormente della pazienza dei lettori, sperando di aver risposto convincentemente e precisamente alla maggior parte dei punti sollevati da Francesco. (Fonte: scienzainrete.it 12-06-2011)
 
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