Home 2011 18 Aprile
18 Aprile
Borse di studio per il dottorato. Confronto con altri paesi della UE PDF Stampa E-mail
Nonostante il Miur abbia garantito che non verrà toccato lo stanziamento nazionale per le borse, l'Adi (l'Associazione dei dottorandi e dei dottori di ricerca italiani) ha espresso «preoccupazione» per l'interpretazione, che «non solo non prevede il superamento della figura del dottorando senza borsa», ma che «in un quadro di grave sottofinanziamento degli atenei lascia la strada aperta a un uso spropositato dello strumento del dottorato senza borsa». Un rischio che incide su una situazione già precaria: secondo il Rapporto del Cnvsu (Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario), già nel 2008, infatti, l'assenza di retribuzione riguardava il 39,3% dei 40mila dottorandi presenti negli atenei italiani, mentre l'Adi rileva che negli ultimi tre anni le borse sono diminuite di oltre il 30 per cento. «Senza dimenticare - aggiunge - che i dottorandi, pur in assenza di compenso, pagano comunque le tasse di frequenza». Il quadro italiano è poi ancor più distante dall'Ue: se un dottorando in Italia percepisce una borsa mensile di circa 1.035 euro, in Francia si arriva a 1.600, in Finlandia a 2.250, in Svezia a 2.500, in Norvegia a 3.400 e in Svizzera addirittura a 3.600 euro. Uno studio Adi - che ha messo a confronto il sistema italiano con quello svedese - rivela, per esempio, che nel Paese scandinavo le collaborazioni del dottorando alle attività del dipartimento sono regolarmente pagate, mentre in Italia non c'è retribuzione aggiuntiva. In Svezia, dove il dottorato dura quattro anni, un anno in più di quello italiano, si ha diritto all'intero importo della pensione regolare, mentre in Italia non sono previsti contributi previdenziali (li versa direttamente solo chi ha la borsa); in Svezia il congedo di maternità è coperto dallo Stato, mentre nel nostro Paese non è previsto alcun indennizzo, ma solo la possibilità di interrompere gli studi e congelare la borsa.
(Fonte: Il Sole 24 Ore Scuola 14-04-2011)
 
Oltre il modello Humboldtiano PDF Stampa E-mail
Le università continuano nominalmente a vivere nella scia del modello humboldtiano, dal nome del fondatore dell'Università di Berlino (1810), ovvero un'università che coniuga ricerca e didattica nel nome del progresso della nazione, con l'esplicito mandato di formare l'elite. Ma nel secondo dopoguerra quel modello è stato travolto da tre fattori, ovvero: la proliferazione di luoghi di creazione di conoscenza, l'università di massa e l'indebolimento degli stati nazionali a favore di spazi sovranazionali. In realtà, tuttavia, non stiamo semplicemente vivendo il crepuscolo del modello humboldtiano. Da circa trent'anni, infatti, una nuova idea di università si è affermata in numerosi paesi, partendo dal Regno Unito di Margaret Thatcher per arrivare all'Italia di questi giorni. Un nuovo modo di intendere l'università che in superficie non intacca il modello humboldtiano, ma che nella pratica contribuisce a sovvertirlo. Parliamo dell'università imprenditrice, ovvero, un'università in competizione esplicita con tutte le altre, con gli occhi fissi sulle graduatorie e pervasa da nuove parole d'ordine: eccellenza, innovazione, indicatori, studenti-clienti, produttività, ranking. Trasformazione che la Thatcher ottenne – ironicamente, per chi ama pensarla come purista del mercato – burocratizzando il rapporto tra Stato e Università. In particolare la Thatcher istituì burocrazie di valutazione impostate secondo modelli di provenienza business school. Dopo decenni di Research assessment exercise (Rae) la situazione inglese è chiara: si pubblica quasi solo nei modi e sugli argomenti che riceveranno un punteggio più elevato dalla burocrazia statale di valutazione. Ne va infatti non solo della carriera dei singoli ricercatori, ma anche della stessa esistenza di interi dipartimenti. A questo modello – che naturalmente incorpora anche elementi positivi, come valutazione e innovazione, ma declinati in maniera tale da frantumare l'ethos accademico – è tempo di proporre alternative. Quale università nell'età della Rete?
(Fonte: J.C. De Martin 31-03-2011)
 
Un ponte tra due poli di eccellenza tecnologica in Europa PDF Stampa E-mail
Un ponte tra Milano e Helsinki per unire due poli di eccellenza tecnologica in Europa. Si chiama 'S2N' (South to North) ed è il progetto promosso dal Politecnico di Milano e dal centro di ricerca finlandese VTT per favorire lo scambio di professori, ricercatori e studenti di dottorato tra i due atenei. Al centro dell'iniziativa una serie di progetti congiunti nei settori della bioingegneria e dei materiali avanzati, che prevedono un intenso scambio di docenti e ricercatori tra il Politecnico e il VTT.
(Fonte: AGI 29-03-2011)
 
Ritardi nel Wi-Fi al sud, nelle scuole e nelle università PDF Stampa E-mail
Secondo una ricerca di Enter (hub digitale per la tecnologia e la comunicazione) l'Italia è in ritardo sulla diffusione del Wi-Fi pubblico. Per prima cosa, si rileva una grossa sproporzione tra le regioni. I 5.097 hot spot dell'Italia sono concentrati soprattutto in cinque di loro: Lombardia (26%), Lazio (13,1%), Emilia-Romagna (10,1%), Toscana (8,6%) e Veneto (7,1%). In termini assoluti la Lombardia quindi guida la graduatoria nazionale con 1.328 hotspot, seguita da Lazio con 670, Emilia-Romagna con 518, Toscana con 438 e Veneto con 363. Appena sette in Molise e dodici in Basilicata, che sono le regioni meno ricche di hot spot Wi-Fi pubblici. Enter nota che l'Italia è al quattordicesimo posto al mondo, con 5.104 hot spot, 2mila in meno della Turchia (7.093) che è il decimo in classifica. Circa 1.300 in meno di Taiwan (6.425) e qualche centinaio in meno della piccola Hong Kong (5.327). Eccelle il Regno Unito, con quasi 113 mila punti di accesso. La Cina è seconda con oltre 102 mila hot spot, seguita dagli Stati Uniti con quasi 94 mila. Al quarto posto la Corea del Sud con più di 42 mila punti. Le istituzioni devono lavorare ancora molto, infatti. Enter nota che scuole e università mostrano un forte ritardo rispetto al resto del mondo, per l’adozione del Wi-Fi. In questo caso serve molto la spinta delle pubbliche amministrazioni innovative. La Provincia di Roma mira a dare il Wi-Fi a tutte le scuole. Entro l’estate avvierà la gara unica per individuare un'azienda in grado di fornire a tutti gli istituti i servizi di telefonia e anche la copertura Adsl necessaria per l'installazione degli hot spot negli spazi comuni, cortili o aule magne. Il Comune di Verona ha già esteso la propria rete Wi-Fi a dodici scuole, da quest'anno. Con una spesa di appena 300 euro a scuola. Notizia di marzo, la Provincia di Milano ha stanziato 400 mila euro per il 2011 e altrettanti per il 2012 allo scopo di collegare in Wi-Fi 180 istituti scolastici. Il ruolo delle istituzioni è anche nell'ambito della normativa. Pende ancora la spada di Damocle delle nuove regole per l'accesso Wi-Fi, in arrivo dal Ministero degli Interni. Norme più o meno leggere faranno la differenza.
(Fonte: Corbis 13-04-2011)
 
Tre consigli al Ministro Gelmini PDF Stampa E-mail

Andrea Lenzi, presidente del Cun: «in Italia l’università è l’istituzione più vecchia dopo la Chiesa cattolica, e se è sopravvissuta fino ad ora un motivo ci sarà...». Il sussidiario.net ha parlato con lui dei principali temi sul tappeto, dalla governance alle risorse. Per finire con tre consigli - non richiesti - al ministro Gelmini.

I suoi tre consigli non richiesti al ministro Gelmini?

Il primo riguarda la formazione. Serve una politica fortissima di orientamento all’interno delle scuole medie superiori per evitare gli abbandoni e per facilitare il placement dei ragazzi. Non possiamo permettere che uno studente arrivi al termine degli studi secondari decidendo negli ultimi tre mesi cosa vuole fare nella vita. Non aspettiamoli. Dobbiamo essere noi ad andare dentro le scuole.

Veniamo al secondo.

Il secondo riguarda le lauree triennali e il dottorato. Obbligherei la pubblica amministrazione ad assumere triennalisti e a dare la dirigenza solo a chi ha un dottorato di ricerca. In tutto il mondo serve il dottorato per diventare capitani d’industria e dirigenti dello stato, perché da noi non è così?

E il terzo?

Caro ministro, la ricerca scientifica universitaria non è solo quella che produce un bene strumentale, il brevetto o lo spin-off - che restano sempre importantissimi. No, la ricerca in università è prima di tutto un grande, ineliminabile fattore di progresso educativo. La nostra popolazione studentesca è ancora di buon livello, perché i nostri studenti quando sono laureati sono ancora un prodotto straordinario. Fino a quando?
(Fonte: Il sussidiario.net 12-04-2011)
 
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