Home 2011 28 Marzo
28 Marzo
L’aumento delle tasse universitarie nei paesi più industrializzati PDF Stampa E-mail
Il Rapporto Tuition Fees and Student Financial Assistance: 2010 Global Year in Review, curato dall'associazione canadese Higher Education Strategy Associates, prende in esame lo stato degli atenei nei 39 paesi più industrializzati relativamente all'anno 2010. Il Rapporto sottolinea il considerevole aumento delle tasse universitarie. I recenti tagli ai bilanci hanno portato paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti a contrarre i finanziamenti all'istruzione superiore, scatenando le accese proteste degli studenti. Il fenomeno coinvolge tutti i paesi dell'area OCSE, dove si cerca di compensare il mancato finanziamento pubblico con un maggiore coinvolgimento del settore privato. Secondo il Rapporto, in paesi popolosi quali Cina, India e Brasile, e in generale nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo, è in aumento anche il numero di studenti universitari. In altri paesi, come Pakistan, Tailandia e Filippine, le tasse universitarie non sono aumentate, ma la riduzione del finanziamento pubblico all'istruzione superiore ha causato una forte contrazione negli accessi. Il Rapporto evidenzia infine come, nonostante la grave crisi economica attuale, gli studenti universitari che studiano all'estero siano in costante aumento: si stima che raddoppieranno nei prossimi dieci anni, fino a superare i 7 milioni.
(Fonte: C. Tata, rivistauniversitas 02-03-2011)
 
Il quadro finanziario delle università europee nel report dell’EUA PDF Stampa E-mail
Finanziamenti pubblici in picchiata, tasse universitarie in rapida ascesa, mentre la caccia ai fondi privati stenta a decollare. Il quadro finanziario delle università europee, seppur con significative differenze nazionali, presenta tratti comuni nell’altrettanto comune morsa della crisi internazionale. Il quadro emerge dal report della European University Association (EUA), presentato nelle scorse settimane. I risultati, frutto di un sondaggio online che ha coinvolto più di 150 università in 27 Paesi, ma anche di visite ai vari atenei e seminari, mostrano la maggior parte degli atenei alle prese con il nodo cruciale della sostenibilità economica delle proprie strutture di fronte alla diminuzione dei contributi governativi: la parola d’ordine è “diversificazione”. Eppure, come mostra il report, permangono numerose barriere, interne ed esterne al mondo accademico, che frenano l’apertura ai privati. Secondo la ricerca i fondi pubblici rappresentano, a oggi, il canale di finanziamento principale per le università del Vecchio continente, costituendo in media il 73 per cento del budget complessivo a disposizione degli atenei. Molte università tuttavia stanno già potenziando la diversificazione delle entrate: la maggior parte delle strutture incamera almeno il 10 per cento dei propri finanziamenti da fonti alternative, incluse le tasse studentesche che costituiscono in media il 9 per cento delle entrate con forti variazioni da un Paese all’altro. Il 6,5 per cento è costituito invece in media da contratti esterni, il 4,5 da fondi di beneficenza e il 3 da fondi pubblici internazionali. La mancanza di autonomia e la rigidità normativa rappresentano uno dei limiti principali per l’incremento dei canali di finanziamento, secondo il 61 per cento degli intervistati; mentre un altro ostacolo è rappresentato dall’eccessivo carico burocratico, accanto alla mancanza di incentivi. Tuttavia sembrano essere altrettanto forti le barriere interne al mondo accademico: l’80 per cento dei leader di università europee lamenta mancanza di informazione e consapevolezza tra gli accademici, il 68 per cento la mancanza di strutture adeguate e di esperienza manageriale. Il 31 per cento degli intervistati dichiara che nel proprio ateneo non esistono strutture dedicate al fundraising, un ulteriore 38 per cento ha meno di 5 persone impegnate in questa attività. Questo il quadro generale prospettato dal report EUA che tira le somme indicando la exit strategy per uscire dalla crisi tenendo saldi i bilanci accademici. Le università sono invitate a integrare la diversificazione dei finanziamenti nella propria strategia istituzionale, puntando sul capitale umano e coinvolgendo il personale. Ma dal report emerge anche che i denari privati, per quanto possano essere intercettati dagli atenei, non potranno mai sostituire il canale pubblico, che anzi in questa fase deve andare a finanziare “meglio” il settore dell’alta formazione. Alla politica spetta inoltre il compito di dare agli atenei maggiore autonomia e di stabilire condizioni di sistema più favorevoli, attraverso la semplificazione burocratica e la concessione di incentivi.
(Fonte: C. Ferro, universita.it 08-03-2011)
 
Confronti tra Italia e Francia: la carriera accademica dei fisici PDF Stampa E-mail

Sui concorsi universitari quattro economisti hanno pubblicato un’analisi sistematica. Il lavoro (F. Lissoni, J. Mairesse, F. Montobbio e M. Pezzoni ‘Scientific productivity and academic promotion: a study on French and Italian physicists’ Industrial and corporate change 20 [2011] pp. 253-294) utilizza un data-base dei docenti universitari di fisica in servizio in Italia (circa 1700) e Francia nel 2004-2005 (1900), che comprende informazioni sulle caratteristiche personali (età, sesso etc.), sulla carriera (anno di reclutamento in ruolo) e sulla produzione scientifica.

Per diventare professore ordinario in Italia, il fattore più importante è l’età anagrafica. Avere fra 50 e 60 anni aumenta del 68% la probabilità di diventare ordinario rispetto alle probabilità di una persona con gli stessi titoli, ma fra 30 e 40 anni. Anche essere oltre 60 anni aiuta parecchio (un aumento del 56%) ed anche gli studiosi di mezza età (fra 40 e 50 anni) non se la passano male (un aumento del 50%). Al secondo posto, è essere in pista al momento giusto – in particolare nel 1980, quando il numero di docenti fu improvvisamente aumentato per far fronte all’aumento delle immatricolazioni (la grande ondata della 382/80). E’ servito anche essere un fisico teorico (una probabilità addizionale del 13% rispetto ai poveri fisici sperimentali). Invece essere donna ha penalizzato – riducendo le chance di promozione del 15%. Per la promozione da ricercatore ad associato il quadro è simile, ma i coefficienti sono più bassi. Anche per la Francia, contano età, sesso (le donne sono penalizzate poco meno che in Italia) e ondate generazionali (in questo caso, l’anno giusto è il 1985). In merito alla produzione scientifica gli autori stimano che, in totale, i docenti entrati nel 1980 (il 10% degli ordinari, il 26% degli associati e il 26% dei ricercatori in servizio nel 2005) abbiano pubblicato in totale 1740 articoli in meno dei loro colleghi (analoghi per età, sesso etc.) entrati in altri, meno favorevoli, momenti. In conclusione, gli autori sottolineano con forza che le ondate di reclutamento massiccio del 1980 in Italia e del 1985 in Francia “hanno avuto duraturi effetti negativi sulla produttività scientifica media nei due paesi, e specialmente in Italia”. (Fonte: G. Federico, nFA 09-03-2011). Commenta A. Lusiani (nFA 09-03-2011): C'è da dire che la Francia oggigiorno attua meccanismi di reclutamento con scadenze di reclutamento ben precise (annuali, sia nell'università sia nel CNRS, con il numero di posti banditi pressoché costante nel tempo) cosa che permette ai potenziali candidati di programmarsi la propria carriera. Stessa cosa per i finanziamenti alla ricerca erogati dalle agenzie preposte (tipo ANR). In Italia invece i rari concorsi (ma anche i bandi di finanziamento) sono banditi senza alcuna regolarità, e anche i tempi d'espletamento e presa di servizio tendono a gonfiarsi a dismisura, e comunque in modo aleatorio. Poi ogni tot anni arriva un'ondata di concorsi, con gli effetti deleteri che vi potete immaginare. I problemi sono chiari, sperimentati anche altrove, le soluzioni sono ovvie a chi ha un minimo d’istruzione e onestà. A volte tali soluzioni sono perfino contenute nelle norme di legge (come la cadenza biennale dei concorsi universitari della 382/80) salvo che poi lo Stato stesso non è capace di seguire le sue stesse norme.
 
Personale di ricerca e brevetti in Italia e nell’OCSE PDF Stampa E-mail
Abbiamo la più bassa percentuale di ricercatori dell’UE, associata a una sua costante decrescita relativa in relazione al comportamento di altri paesi e alla crescita da questi conosciuta. Infatti, la percentuale del numero di ricercatori per 1000 lavoratori a tempo pieno è crescita molto meno rispetto a gran parte dei paesi dell’'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE); tuttavia cresce paradossalmente più di quella di Germania e Stati Uniti. Ma ciò può essere spiegato in considerazione del punto di partenza molto alto di questi due paesi, che già nel 1981 era rispettivamente del 4,7% e del 6,6%. È tuttavia da notare che paesi che ora sono nella nostra stessa zona di classifica (come Portogallo, Turchia, Spagna o Grecia) hanno fatto, nel periodo considerato, uno sforzo per aumentare la propria dotazione di ricercatori. Il basso numero di ricercatori e il ridotto finanziamento in R&S si riflettono anche sul numero di brevetti per milione di abitanti presentati all’European Patent Office (EPO): secondo i dati Eurostat del 2007, con i suoi 86,37 brevetti l’Italia è al di sotto della media EU27 (116,54), ma ancor più di nazioni come la Francia (132,37), l’Austria (216,97), la Finlandia (250,76), la Germania (290,7) e la Svezia (298, 36). Questo dato peggiora ulteriormente nel 2009 con 64,6 brevetti per milione di abitanti, che rimane sempre sotto alla media europea di 116,1. Inoltre, dal sito dell’EPO apprendiamo che tra le prime 100 aziende per numero di domande di brevetti presentate nel 2009, nessuna di esse è italiana. Tuttavia è da notare che la spesa pubblica che finanzia direttamente le imprese mediante incentivi di natura economica volti sostenere l’innovazione è in Italia tra le più alte in Europa, arrivando a finanziare il 14% del totale delle imprese e il 44% di quelle classificate come “innovative” (a fronte di medie EU27 rispettivamente del 9% e dell’8,9%). Una dispersione di risorse, visto che gli studi disponibili sottolineano la scarsa efficacia degli incentivi individuali alle imprese a sostegno dell’innovazione, in quanto «non sembra esserci un impatto significativo sulla capacità di brevettazione e sulla performance economica». È quindi necessario prendere consapevolezza del carattere “mitologico” dell’incentivazione individuale alle singole aziende e avviare un sostegno dell’innovazione che passi «per la promozione di reti di collaborazione tra imprese, università e centri di ricerca che riconosca la rilevanza del radicamento territoriale e delle componenti relazionali nella costruzione dell’innovazione»
(Fonte: C. Trigilia “Innovazione e territori in Italia”. I Quaderni di Italianieuropei, n. 1, 2010, pp. 119, 121)
 
Il finanziamento delle università in USA, Europa e Italia PDF Stampa E-mail

Una comparazione tra le entrate delle università di ricerca americane e quelle italiane (tenendo presente che in queste ultime non esiste la distinzione tra le università di ricerca e non di ricerca, come negli USA, sicché esse possono essere tutte considerate “di ricerca” in quanto tutte ricevono finanziamenti a tale fine) mostra che le entrate di fonte pubblica (Stato ed enti pubblici) nelle università statali ammontano complessivamente al 59%, di contro al 31% degli USA. Tuttavia tale dislivello è in parte colmato dal fatto che sono di provenienza pubblica anche il 22% dei finanziamenti per contratti di ricerca, arrivando così al 53%, laddove, in Italia quest’ultima voce è solo un misero 3,6%, arrivando il totale al 62,6%: una differenza percentuale a favore dell’Italia di poco meno del 10%. Tuttavia tali dati, per essere apprezzati nella loro reale portata, devono essere contestualizzati alla diversa realtà rappresentata dagli USA rispetto a quella conosciuta dalle università europee. Da un recente rapporto pubblicato a cura della European University Association apprendiamo, infatti, che nei 27 paesi che fanno parte dell’UE il finanziamento delle università è per il 72,8% pubblico e il 9,1% proviene dalle tasse studentesche. I finanziamenti che provengono dai contratti (di ricerca e consulenza) col settore degli affari ammontano solo al 6,5% cui deve essere aggiunto un 4,5% di fondi filantropici; in tutto l’11%. Come si vede, le entrate pubbliche delle università italiane sono di gran lunga inferiori a quella della media europea, mentre le entrate derivanti dalle tasse studentesche sono nelle università statali il 7,8%, inferiore alla media europea. Bisogna notare che una consistente quota (più di 1/3) delle entrate delle università statali italiane è rappresentata dalle attività istituzionali, che comprendono la vendita di beni e servizi, i redditi e proventi patrimoniali e le entrate per alienazione; insomma, non si può dire che le università italiane abbiano solo avuto il piatto in mano per chiedere i finanziamenti statali, ma si sono date da fare per incrementare le proprie entrate in maniera autonoma, ponendosi all’avanguardia in Europa e a livello quasi americano. Se aggreghiamo i dati in tre sole voci (entrate pubbliche di varia natura, entrate private, proventi da attività istituzionali autonome), risulta un quadro assai interessante, in quanto l’università italiana statale è al disotto della media europea per i finanziamenti pubblici ricevuti (sia come FFO sia per ricerca), come si vede dalla figura.
(Fonte: Blog di F. Coniglione 24-03-2011)

 
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