Rientro dei lavoratori e ricercatori italiani all’estero tramite incentivi fiscali |
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Il Senato ha approvato il provvedimento che con incentivi fiscali favorisce il rientro dei lavoratori in Italia, meglio noto agli addetti ai lavori come legge "rientro cervelli". Incrociando i dati Istat sui trasferimenti di residenza e quelli forniti dall'Aire (Anagrafe Italiani Residenti estero), quelli del V Rapporto Italiani nel mondo a cura della Fondazione Migrantes e di altre indagini specializzate (come ad esempio quella sui ricercatori italiani all'estero, effettuata dall'Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del CNR), è plausibile che annualmente oltre 30.000 giovani laureati o specializzati si trasferiscano in altre aree del mondo (soprattutto Usa e Nord Europa), attratti da migliori condizioni economiche o di ricerca. La nuova legge è finalizzata a incoraggiare, mediante la concessione di agevolazioni fiscali da utilizzare entro il 31 dicembre 2013, il rientro dei lavoratori dall'estero, ivi compresi i ricercatori che abbiano maturato un'esperienza lavorativa, di studio o di ricerca oltre i confini nazionali, valorizzandone le esperienze umane, culturali e professionali acquisite. Come incentivo fiscale è stato introdotto, in luogo del credito d'imposta, un regime di parziale detassazione del reddito imponibile ai fini delle imposte sui redditi, al quale hanno diritto i cittadini italiani e quelli appartenenti all'Unione Europea dalla nascita, che abbiano risieduto continuativamente nel nostro Paese per almeno 24 mesi e abbiano studiato o lavorato in un Paese terzo dell'Ue negli ultimi 24 mesi, nati successivamente al 1° gennaio 1969 e che, alla data del 20 gennaio 2009, siano in possesso di una laurea, abbiano svolto attività di studio o di lavoro ovvero abbiano conseguito una specializzazione post lauream all'estero e decidano di fare rientro in Italia. (Universitas 10-01-2011) Il testo del provvedimento. |
Perché non funziona il rientro dei cervelli |
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La legge 4 novembre 2005 n. 230 prevede la chiamata diretta come professore di prima o seconda fascia di studiosi italiani impegnati all'estero, che abbiano conseguito una posizione accademica di pari livello. Anche la legge Gelmini prevede tale possibilità. Con un apposito finanziamento, il decreto ministeriale n. 18/2005 permette a ricercatori con attività stabile all'estero da almeno tre anni di ottenere un contratto a termine (rinnovabile entro stretti limiti) con un'università italiana impegnandosi a un'attività continuativa, esclusiva e a tempo pieno. Inoltre questi studiosi sono tenuti a presentare una dichiarazione dell'università o istituzione di origine che attesti la loro messa in congedo o in aspettativa senza assegni per la durata del contratto. La legge Gelmini prevede, inoltre, la possibilità che il titolare di un contratto, dopo aver conseguito l'abilitazione scientifica a professore associato, sia inquadrato in tale ruolo. Ma coloro che sono ritornati, anche sulla base dei provvedimenti del ministero, sono stati poche centinaia di cui la maggior parte è poi ritornata all'estero. Perché il rientro dei cervelli non ha funzionato? Anche per mancanza di flessibilità dello stato giuridico dei professori e dei ricercatori. Un professore o un ricercatore che ritorna è lock-in: perde il legame istituzionale con l'istituzione estera e ricade nella legislazione italiana. Se volesse continuare a fare ricerca e a insegnare all'estero, ad esempio nella sua "vecchia" università, dovrebbe sottostare alla normativa esistente. Ma la disciplina sulla compatibilità dell'insegnamento all'estero per i docenti in ruolo nelle università italiane è lacunosa e la sua applicazione è dall'intreccio e dall’interpretazione non semplice e univoca di una serie di norme, nessuna delle quali regola direttamente e compiutamente il problema. Si può scegliere di continuare ad assolvere i propri compiti nell’università italiana di appartenenza (didattici e altri) ed essere autorizzati a svolgere attività didattiche e di ricerca all'estero. Se si chiede di essere esentati dai compiti nell’università italiana di appartenenza esiste il congedo di breve durata oppure il congedo straordinario di più lunga durata. La legge Gelmini prevede ora anche un'aspettativa per un periodo di cinque anni. È evidente la rigidità della normativa in un contesto in cui la flessibilità è premiante. La possibilità che un professore o un ricercatore facciano parte a pieno titolo di un’università o di un centro di ricerca all'estero aiuta il trasferimento di conoscenze, di know how, il movimento di allievi. Cosa che allo stato attuale non è possibile. Di qui la necessità della riscrittura delle norme sullo stato giuridico, sull'incompatibilità e poi della compatibilità con il tempo pieno. In altri sistemi, per esempio Gb e Usa, questi aspetti sono superati. Un esempio da seguire per migliorare il livello della ricerca e della didattica. (L. Filippini, Il Sole 24 Ore 17-01-2011)
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Le top 100 università europee 2011 secondo il Webometrics Ranking |
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La classifica delle migliori università europee secondo il Webometrics Ranking segue una metodologia di classificazione altamente correlata con quella delle altre classifiche mondiali, soprattutto quelle che si basano sui risultati della ricerca. Tuttavia, ha una copertura più estesa in quanto considera più di 6000 università e prende in considerazione le varie missioni universitarie (non solo quella della ricerca). È considerato, infatti, non solo l’impatto scientifico delle attività universitarie ma anche quello sociale, culturale, economico e politico. Secondo questa classifica la prima delle università italiane è quella di Bologna che occupa la 13° posizione. Le altre università italiane nella classifica occupano la 39° posizione (Università di Pisa) e la 62° (Università di Roma La Sapienza). (universando.com)
Classifica 2011 – a.a. 2010 Università (Paese)
1 University of Cambridge (Gran Bretagna)
2 Swiss Federal Institute of Technology ETH Zürich (Svizzera)
3 University of Oxford (Gran Bretagna)
4 University of Edinburgh (Gran Bretagna)
5 University of Oslo (Norvegia)
6 University of Helsinki (Finlandia)
7 Norwegian University of Science & Technology (Norvegia)
8 University College London (Gran Bretagna)
9 Universität Wien (Austria)
10 École Polytechnique Fédérale de Lausanne (Svizzera)
11 Université de Geneve (Svizzera)
12 University of Southampton (Gran Bretagna)
13 Università di Bologna (Italia) |
A proposito dell’indice di Hirsh |
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Esprimo le mie idee al riguardo dell’indice di Hirsch, un indicatore relazionato alla produttività accademica e all’importanza delle pubblicazioni realizzate: 1) Concordo con chi sostiene che, a scopo valutativo, l’indice h andrebbe meglio usato comparando ricercatori che appartengono alla stessa disciplina – chi mi legge sa benissimo perché – e che comunque, da solo, può essere fuorviante nel valutare Istituzioni diverse. Ma questo vale per tutti i parametri di valutazione (a meno che non si stia parlando di premi Nobel)! A mio giudizio, invece, tale indice rappresenta un notevole miglioramento rispetto a parametri utilizzati precedentemente perché fornisce un’idea precisa del reale impatto del lavoro di un ricercatore su quello dei suoi pari. E’ un parametro sicuramente superiore al fattore d’impatto cumulativo. Ho pubblicato lavori su riviste cosiddette ad “altissimo impatto” che hanno ricevuto un numero di citazioni inferiore di altri miei articoli pubblicati su riviste cosiddette “minori”. Alla fine, dato per assunto che nessuna grande scoperta arriva attraverso il lavoro di una sola persona o di un solo gruppo di ricerca, il lavoro di ogni ricercatore va valutato per come e quanto influenza il lavoro di altri ricercatori nella stessa o in altre discipline, nonché il mondo produttivo. 2) Google scholar è forse un po’ impreciso e “generoso”, ma se si paragonano gli h index calcolati con questo motore a quelli calcolati con ISI Web of Knowledge o Scopus, molto più rigorosi, lo scostamento nella stragrande maggioranza dei casi è inferiore al 5%. 3) Il lavoro dei ricercatori del VIA-Academy è, secondo me, al di sopra di ogni sospetto ed estremamente utile, non fosse altro (e sicuramente non solo per questo) perché è riuscito a far parlare ai media dei ricercatori italiani, in particolare di coloro che si sono sobbarcati l’immensa fatica di continuare a (provare a) lavorare in Italia. Quanti altri recentemente si sono presi la briga di farlo? (V. Di Marzo 11-01-2011) |
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