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01 Settembre
Sull’istituzione di un «voucher» o «credito» di studio che permetta l’iscrizione a una delle università pubbliche PDF Stampa E-mail

Da diversi decenni molti medici si affaccendano al capezzale dell’università italiana e non si contano le medicine che l’ammalata ha dovuto trangugiare. Per la verità, più che a farmaci moderni, i rimedi assomigliano a quelli prescritti dai medici di Goldoni e di Molière: emetici, purganti, ricostituenti o lassativi. Un po’ ipertrofica, un po’ ipocondriaca, l’università sopravvive ai mali che l’affliggono, specchio di un Paese tentato dalla modernità, ma timoroso delle sue conseguenze. Nelle pagine che seguono, delineiamo una proposta – del tutto parziale – che potrebbe concorrere a risolvere uno dei maggiori problemi che affliggono il sistema universitario, e cioè la lentezza e l’inefficienza con cui esso adempie la sua funzione formativa. La lentezza è una causa non secondaria della «qualità» non eccelsa della formazione universitaria: basti dire che il tempo medio per conseguire la laurea triennale è oramai vicino ai cinque anni. L’inefficienza è un fattore della scarsa produttività di un sistema dove, si usa dire, «è facile entrare ma difficile uscire». E inefficiente il nostro sistema lo è davvero, a giudicare dal fatto che un immatricolato su due abbandona le aule prima della conclusione degli studi.
Due ulteriori considerazioni sono necessarie prima di procedere. Ovunque in Europa i sistemi universitari pubblici sono quasi interamente finanziati dallo Stato, conformemente al principio che l’alta formazione è un primario interesse collettivo. C’è un consenso che nessuno si azzarda a mettere in discussione: lo sviluppo duraturo è indissolubilmente legato alla crescita della conoscenza; questa produce innovazione, che alimenta il progresso tecnico, la produttività e lo sviluppo. La conoscenza è prodotta da uomini e donne le cui capacità di studiare, apprendere e ricercare vanno accuratamente coltivate; questo processo è affidato ai sistemi formativi, alla scuola e all’università. Sulla formazione occorre perciò investire, per portare una quota sempre maggiore di persone nel sistema scolastico e universitario, ai vari gradi di questi, con la migliore possibile qualità. Così cresce il capitale umano, così si nutre lo sviluppo. In linea di principio il discorso non fa una piega e la storia – almeno nel lunghissimo periodo – lo conferma. Ma siccome istruire costa – e le spese in istruzione devono competere con altri investimenti delle risorse pubbliche – non è fuori luogo chiedersi quante e quali persone (e con quali costi) occorra o convenga portare ai più alti gradi della conoscenza. Ora, c’è accordo che tutti i componenti di una generazione debbano accedere a un minimo capitale di conoscenza (a una conoscenza di «cittadinanza», potremmo dire). Cent’anni fa leggere, scrivere e far di conto costituivano la conoscenza «minima» necessaria (che peraltro molti non riuscivano a conseguire); nella società assai più complessa di oggi la conoscenza «minima» che tutti dovrebbero acquisire deve consentire l’uso corretto del linguaggio, e magari di una lingua straniera; il maneggio di macchine sofisticate, la familiarità col computer, la comprensione di testi e la conoscenza di leggi e regole complicate. Un secolo fa tre anni di scuola; oggi undici, domani (auguriamoci) tredici, per tutti. Poiché questa conoscenza minima si configura come un diritto di “cittadinanza”, è giusto che la società si adoperi per consentire a tutti di ottenerla: tra gli “obiettivi” di Lisbona c’è anche quello di ridurre a meno del 10 per cento (nel 2010) l’abbandono prima del conseguimento di quel diploma secondario superiore che, oggi, un giovane italiano su quattro non riesce a raggiungere. Insomma, è giusto che la fiscalità generale si faccia carico dell’onere di portare tutti – o almeno quasi tutti – al livello minimo. Ma dopo? L’apprendimento di materie complesse e la produzione di nuova conoscenza sono «capacità» (innate o acquisite che siano) distribuite in modo assai diseguale negli individui. Nessuno penserà che tutti i componenti di una generazione possano, e perciò debbano, accedere a un dottorato di ricerca.
La seconda premessa è che il sistema dell’istruzione in generale – compreso quello universitario, che chiude il ciclo – non svolge particolarmente bene il proprio compito. Vi è una forte permanenza intergenerazionale delle disparità d’istruzione, per cui i figli dei laureati accedono alla laurea molto più facilmente degli altri (si veda, tra i tanti, Daniele Checchi e Gabriele Ballarino, Sistema scolastico e diseguaglianza sociale, Il Mulino, 2006); e questo si aggancia alle differenze di reddito, perché le famiglie che mandano i figli all’università sono mediamente più ricche delle altre. In media la differenza di reddito può non colpire particolarmente (è del 12-15 per cento), ma se, dai dati dell’indagine Banca d’Italia ad esempio, prendiamo i giovani di 19-26 anni, notiamo che la quota che si è iscritta all’università cresce con il reddito familiare (che qui è «equivalente», cioè: pro capite, ma aggiustato per la dimensione familiare): dal 26 per cento di quelli con meno di 1.000 euro/mese a testa, fino al 42 per cento di quelli con oltre 3.000 euro/mese. Insomma, il sistema pubblico di finanziamento dell’università è regressivo, perché, formalmente rivolto a tutti, favorisce in pratica i ceti più abbienti. Il ciclo poi tende a ripetersi nelle generazioni successive, perché chi ha un alto grado d’istruzione consegue un maggior reddito nel corso di vita, consolidando le disuguaglianze. Questa situazione è aggravata dalla debolezza dei meccanismi di sostegno agli studenti «bisognosi e meritevoli», ossia le risorse necessarie per rendere effettivo il «diritto allo studio».
In conclusione: se è giusto che l’istruzione primaria e secondaria sia a carico della fiscalità generale, lo stesso non vale per l’istruzione universitaria, alla quale accede solo una quota di ogni generazione di licenziati dalla scuola secondaria e che – a oggi – è un meccanismo che alimenta, anziché attenuare, le disuguaglianze.
L’università pubblica spende annualmente per le sue funzioni di formazione e di ricerca – due attività inscindibili – circa 13 miliardi (2007), cioè qualcosa come 7.200 euro per ciascuno degli 1,8 milioni di studenti iscritti (cfr. Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario (Cnvsu), Decimo rapporto sullo stato del sistema universitario, 2009, http://www.cnvsu.it). Si tratta di una spesa pro capite inferiore del 30 per cento alla media dell’Unione europea e che pone l’Italia in coda tra i Paesi occidentali. Ma si tratta di un’illusione statistica: in parte per l’alto numero di studenti «fuori corso» (760 mila circa) e in parte perché una buona quota di studenti (tra un quarto e un quinto) è «inattiva», cioè non ha superato esami nell’anno accademico precedente. I «veri» studenti universitari, quelli attivi, impegnati a tempo pieno e con ragionevole profitto negli studi, sono molti meno degli apparenti 1,8 milioni: diciamo che potrebbero essere la metà o poco più (dipende dai parametri che si utilizzano per convertire gli studenti «virtuali» in «effettivi»). Con questa conversione, la spesa per studente effettivo crescerebbe a 13-14 mila euro/anno, in linea con quella prevalente nei Paesi europei.
Si può obiettare che occorrerebbe spendere di più, visto che gli italiani hanno un grado medio d’istruzione terziaria più basso di quello di altri Paesi di pari sviluppo. Ma questo è vero solo per lo «stock», perché le generazioni oltre la mezza età hanno studiato meno a lungo: le nuove generazioni, invece, quelle da cui si origina il flusso delle immatricolazioni, hanno oramai proporzioni d’ingresso nell’università comparabili con gli altri Paesi europei. Nell’attuale decennio, più della metà dei componenti di ogni generazione si è iscritta all’università (Cnvsu 2009, p. 22). Inoltre è assai discutibile che il sistema si debba adoperare per catturare lo «studente marginale» (a meno che non si tratti di uno studente meritevole e capace, scoraggiato o escluso dalle difficoltà economiche), per ingrossare le fila di coloro che entrano nell’università. C’è il rischio che questi sia sottratto ad attività per le quali è più portato, che forse gli darebbero maggiori soddisfazioni economiche o morali, cosicché il bilancio costi-benefici ne risulterebbe negativo, sia per la persona sia per la collettività.
I problemi semmai sono altri. Uno è costituito dall’alta quota di abbandoni: secondo i calcoli dell’Ocse – che ha utilizzato una metodologia standard a fini di comparazione tra Paesi – la proporzione degli immatricolati che completano gli studi «terziari» era nel 2007 pari al 45 per cento in Italia, contro il 56 negli Stati Uniti, il 64 in Francia, il 77 in Germania, il 79 nel Regno Unito e il 69 nella media dell’Unione (Oecd, Education at a Glance 2009, Paris, 2009, p. 78; si tratta di Completion rates in tertiary type A education). In nessun altro grande Paese la frequenza degli abbandoni (strettamente collegata a quella dei «fuori corso» e degli «inattivi») è alta come da noi.
Un altro elemento negativo è costituito dalla lunga durata del percorso universitario. La durata effettiva del percorso di laurea triennale si sta allungando man mano che il nuovo sistema (nato nel 2001-02) entra a regime: era di 4,2 anni nel 2005, cresciuta a 4,7 nel 2008; nel 2005 i laureati con 3 o più anni di ritardo erano il 13 per cento, nel 2008 il 26 (Cnvsu 2009, p. 60). Non abbiamo dati sulla durata effettiva impiegata da quei tre quarti (o quattro quinti) di laureati che accedono alla laurea specialistica, ma che impieghino almeno tre anni per un percorso di due è una stima prudente. Occorre aggiungere che, in Italia, l’età canonica al conseguimento del diploma secondario è di circa un anno più alta rispetto alla media europea e che l’età media all’iscrizione all’università eccede i 20 anni. È quindi normale che il neo-laureato di primo livello abbia 25 anni e quello di secondo livello ne abbia 28.
In Italia può essere meglio valutato un diplomato giovane e malleabile di un laureato anzianotto e che costa di più.
Lo «slow food» intellettuale non giova agli studenti né al Paese, per almeno tre ragioni. La prima, generale, è che la lunghezza esagerata dei processi formativi è una componente importante di quella «sindrome del ritardo» che rallenta la transizione dei giovani italiani verso l’età adulta e verso la piena autonomia garantita dal lavoro, dall’abitazione propria, dalla capacità di unirsi in coppia e di prendere decisioni riproduttive. Un ritardo che, in definitiva, deprime il tasso di produttività e innovazione del Paese. Ma che, ancor peggio, è il frutto di una filosofia del «parcheggio», secondo la quale è pienamente accettabile – dalla famiglia, dalla società e dal sistema universitario – che si trascorra nell’università il doppio degli anni canonici previsti.

È, questo, uno degli anestetici prodotti dalla società italiana negli ultimi decenni, per attutire la graduale perdita di prerogative delle giovani generazioni: «caro giovane, aspetta pure senza affrettarti che arrivi il tuo turno nella società: intanto stai in famiglia, perché così spendi poco; iscriviti all’università sotto casa; pigliatela comoda, perché tanto c’è poco lavoro; non disturbare il sonno dei professori che ti permettono di tirarla di lungo; non preoccuparti dei risultati scolastici, perché tanto la laurea conta poco – molto meglio investire nelle amicizie giuste…».

La seconda ragione attiene alla scarsa valutazione che il mercato sembra dare ai nostri laureati, comprovata dai modesti vantaggi economici della laurea. Per i giovani uomini italiani (25-34 anni) i guadagni di chi ha la laurea, fatti uguali a 100 i guadagni di chi ha conseguito solo il diploma superiore, sono pari a 130, contro 138 in Francia, 140 nel Regno Unito, 148 in Germania, 165 negli Stati Uniti – e i divari sono considerevolmente più ampi per le donne (Oecd 2009, pp. 144-45). Nell’Italia della piccola impresa, può essere valutato più favorevolmente il diplomato giovane e malleabile, capace di imparare sul campo, del laureato anzianotto, con conoscenze obsolescenti, che costa di più e ha aspettative che rischiano di restare frustrate.
Infine, terza ragione, si può sostenere che la «regolarità» del percorso di studio è una componente della qualità dell’apprendimento che, se troppo prolungato, rischia l’obsolescenza. Non ci vuol molto per capirlo: qualsiasi corso formale d’istruzione richiede che sia ordinatamente seguito un programma, che siano verificate le conoscenze acquisite, che i ritmi dell’insegnamento e dell’apprendimento siano normalmente tenuti. Dove questo non si realizza, ne soffre la qualità della formazione.
Può una riforma dei criteri di finanziamento dell’università pubblica migliorare la qualità degli studi, comprimere gli sprechi, senza compromettere – anzi rafforzando – le aspirazioni dei giovani che vogliano proseguire gli studi dopo la conclusione del ciclo superiore? La proposta che segue, da articolarsi ulteriormente, spinge in questa direzione. Va subito premesso che essa dovrebbe realizzarsi in congiunzione con una vigorosa politica del diritto allo studio, della quale non parliamo ma cui andrebbe affidato il compito di rimuovere i maggiori ostacoli che i giovani con meno risorse, proprie o familiari, incontrano nell’affrontare un ciclo universitario. Va inoltre detto che una tale riforma non può prescindere da serie valutazioni degli studenti – condotte con metodologia omogenea – all’inizio e alla conclusione del ciclo di studi.
Il d.d.l. 1905 di riforma dell’università – nel testo uscito dalla Commissione istruzione in Senato – all’art. 4 (Fondo per il merito) fa menzione dell’istituzione di «prove nazionali standard» per gli iscritti al primo anno per accedere al Fondo (peraltro senza finanziamenti pubblici), che la successiva delega legislativa dovrebbe specificare. Queste prove potrebbero essere estese a tutti gli studenti che intendono immatricolarsi (eventualmente associandole agli esami di maturità) per conoscere oggettivamente le loro competenze, anche con riferimento alle università in cui s’iscrivono. Infine, va ricordato che il contributo delle famiglie al costo dell’università dei loro figli è assai modesto: con riferimento al 2007, il contributo medio per studente nelle università statali è di 870 euro, che sale a circa 1.050 se si escludono dal calcolo gli studenti esentati. L’ordine di spesa non è distante dall’abbonamento a una palestra o a un circolo sportivo ed è pari a meno di un decimo del costo effettivo (Cnvsu 2009, p. cxix ). Un onere assai modesto è un incentivo a «tirarla di lungo».
La proposta s’incardina sull’istituzione di un «voucher» («buono» o «credito» di studio) che permetta l’iscrizione a una delle università pubbliche che abbia queste caratteristiche:
a) al momento dell’immatricolazione, ogni studente riceve un credito che copre il costo effettivo della frequenza a tempo pieno. È una misura universalistica, aperta a tutti i residenti che abbiano i requisiti per immatricolarsi, spendibile in qualsiasi università del sistema pubblico;
b) alla fine di ogni anno accademico, il voucher è rinnovato per l’anno successivo, ma solo in proporzione ai crediti formativi acquisiti (o modulato secondo soglie prefissate);
c) lo studente il cui voucher non è stato (integralmente) rinnovato può continuare a iscriversi, ma pagando di tasca propria la cifra non più coperta dal voucher, ridotto o annullato;
d) il voucher è assegnato per un numero di anni pari alla durata canonica dei corsi.
Sono possibili varianti, ovviamente. Ad esempio, lo Stato potrebbe pagare il primo voucher immediatamente, per coprire il costo dell’iscrizione al primo anno, e poi non erogare più nulla fino al momento della laurea (meglio: al momento del test finale – v. oltre), quando pagherebbe ai neo-dottori una somma corrispondente ai voucher del secondo e del terzo anno di studio. Il vantaggio è che si semplificano i controlli intermedi (soprattutto in un sistema come il nostro, dove gli esami si possono dare anche con notevole ritardo rispetto alla frequenza ai corsi) e s’incentivano ancor più gli studenti a non attardarsi, attirandoli con la «carota» del rimborso delle spese di iscrizione. Si disincentivano poi fortemente gli abbandoni dopo il primo anno, perché le iscrizioni agli anni successivi, se non seguite da laurea, resterebbero a quel punto interamente a carico delle famiglie. Lo svantaggio però è che le famiglie dovrebbero anticipare somme considerevoli (probabilmente oltre i 10 mila euro/anno), con incidenza relativa evidentemente molto diversa tra i più e i meno abbienti.
In ogni caso, quel che importa salvaguardare è lo scopo del voucher, e cioè coprire i costi dei «servizi universitari» (docenza, esami, laboratori, aule, biblioteche, amministrazione ecc.), facendoli gravare sulla collettività, per gli studenti che studiano, e sui privati negli altri casi.
Il sistema, che può apparire crudo in questa presentazione sommaria, può essere «addolcito» in molti aspetti di dettaglio, sui quali non ci soffermiamo: ad esempio per gli studenti lavoratori o che scelgano un tempo parziale, per quelli bisognosi (in combinazione con la leva del diritto allo studio), per i casi eccezionali (malattie o altro) che rallentino il corso degli studi.
Notiamo subito che, senza contrappesi, un sistema siffatto indurrebbe gli atenei a cercare di incassare «facilmente» il corrispettivo del voucher, e cioè attirando studenti anche con modeste competenze e scarso impegno, indebolendo il rigore degli studi e rilassando le regole. Occorre quindi accompagnare il voucher con l’introduzione di test di valutazione molto seri, da articolare opportunamente per grandi aree: scientifica, bio-medico-naturalistica, umanistico-sociale, ecc. (cfr. per esempio il Gre – Graduate Record Examination, per la valutazione della capacità degli studenti rispetto ai curricula «graduate» negli Stati Uniti, http://www.ets.org/gre). Somministrati sotto la responsabilità dell’Anvur (Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario e della ricerca, http://www.anvur.it ), i test fornirebbero la base per l’attribuzione d’incentivi e penalità nel finanziamento degli atenei e delle varie aree scientifiche, e dovrebbero svolgersi sia all’ingresso (o alla maturità) sia in uscita, cioè in corrispondenza dell’esame di laurea, o poco dopo.
Quel che si vuole premiare è, infatti, il «valore aggiunto», il di più che l’università ha saputo dare agli studenti, o forse solo tirare fuori da essi. Se invece non si valuta la differenza, ma solo il livello finale raggiunto, diventa conveniente per le università porre un filtro all’ingresso, per reclutare solo gli studenti più capaci, che poi, ovviamente, risulterebbero anche i più bravi al test finale. Probabilmente, l’idea di non ammettere proprio tutti all’università – o almeno non con i fondi pubblici, e cioè a spese degli altri – non è peregrina, e il test all’ingresso può servire anche a questo scopo.
L’idea di non ammettere proprio tutti nelle università pubbliche non è peregrina.
Ma conviene qui ricordare due cose. La prima è che valutare correttamente le capacità di un individuo o di un’istituzione è un’operazione estremamente complessa e delicata, e che ciò che stiamo qui a cuor leggero suggerendo di fare (cioè basare barriere all’entrata, premi e penalizzazioni sui risultati di test) è invece, in pratica, molto difficile da realizzare bene. La seconda è che il valore di un ateneo non si misura solo sulla didattica ma anche – almeno in egual misura – sulla ricerca: il sistema di cui trattiamo qui si occupa solo del primo aspetto, ma non bisogna dimenticare che, in una riforma complessiva del sistema, anche il secondo (la ricerca) deve essere adeguatamente valorizzato.
I vantaggi del «sistema voucher» sarebbero molteplici. Anzitutto aumenterebbe la regolarità degli studi e le università sarebbero sollevate da una massa di studenti fittizi e inattivi, con guadagni di efficienza e di qualità. È patologico che quattro studenti su dieci siano fuori corso, o che quasi uno studente su quattro tra quelli in corso sia «inattivo»: questo non ha paralleli negli altri grandi Paesi, e comporta spreco di energie private e di denaro pubblico.
Altri vantaggi riguardano la «qualità» della formazione: il sistema del voucher sostiene il merito (solo chi viaggia con passo regolare non paga) e – accorciando il periodo medio di permanenza nell’università – migliora l’occupabilità dei laureati. Inoltre l’obbligo di tenere un passo regolare spingerebbe studenti e famiglie a un maggior controllo sull’efficienza dell’università (sul lavoro dei docenti, sulla funzionalità dell’amministrazione, dei servizi, delle biblioteche…). Si svilupperebbe anche una competizione virtuosa tra istituzioni. Né vanno trascurati i vantaggi che potrebbero aversi in tema di mobilità degli studenti, dato che questi potrebbero più facilmente scegliere università e corsi di studio più convenienti.
Infine, la riforma avrebbe una ricaduta positiva di «sistema», smontando uno dei fattori più potenti della «sindrome del ritardo» dei giovani in Italia. Si corresponsabilizzano famiglie e studenti; si elimina l’equivoco patto non scritto tra istituzioni, famiglie e studenti secondo il quale le istituzioni pretendono poco, le famiglie richiedono poco, gli studenti non responsabilizzati tendono a seguire i percorsi più facili, in accordo con le istituzioni universitarie. Un patto non scritto che è alla radice dello scarso prestigio dell’università e del modesto «valore» di mercato dei laureati. Rompere questo patto è un modo per ridare slancio alla società.
(Articolo “Studenti, accelerate il passo!” di M. Livi Bacci, G. De Santis, il Mulino" n. 4/10)

 
Il finanziamento delle università PDF Stampa E-mail
Ci sono università che hanno fatto del rigore dei conti un must e altre che hanno sperperato in modo vergognoso il denaro pubblico, senza alcun controllo e sono sull’orlo del fallimento. A Messina, ad esempio, il numero dei professori ordinari è salito negli ultimi 5 anni del 290%, pur alla presenza del blocco delle assunzioni perché tutti gli associati sono stati, in blocco, promossi ordinari. Che l’autonomia dell’università sia stata usata male è un dato di fatto e la legge Gelmini tenta di correre ai ripari introducendo regole ispirate ai migliori standard internazionali per aiutare l’università a risalire la china. L’autonomia usata male ha bisogno di nuove regole che colleghino libertà e responsabilità. L’Università italiana è in grave ritardo nel suo processo di rinnovamento culturale e organizzativo. Oggi si trova di fronte ad una scelta: abbandonare un modello di università condizionata dall’autogoverno corporativo, poco produttiva e con scarsi mezzi, e scegliere un modello di università innovativa, organizzativamente efficiente, produttiva sul piano della ricerca e della didattica. La realtà ci mostra segnali positivi. Mentre prima Padoa-Schioppa e poi Tremonti riducevano i fondi per l’università, la quota dei bilanci dei nostri atenei che non proviene dal finanziamento statale è triplicata. Oggi, ad esempio, il S. Anna di Pisa per l’84 % non dipende dai fondi statali. Lo Stato finanzia l’Università con 7 miliardi di euro. La somma delle entrate degli atenei italiani supera i 13 miliardi. Ciò significa che le università sono state costrette, come avviene in tutti i Paesi del mondo, a cercare forme di finanziamento sul mercato. (C. Gentili, Il Messaggero 02-08-2010)
 
Finanziamenti esterni. Un’alternativa ai tagli ministeriali PDF Stampa E-mail

Il prossimo sarà il mese decisivo per i conti delle università; il primo compito del ministero alla ripresa delle attività sarà la distribuzione del fondo ordinario, che per la prima volta arriva ad anno quasi chiuso (di solito l'assegno è distribuito in primavera). Poi, burrasche politiche permettendo, sarà la volta dello "scambio" fra riforma e risorse, atteso in parlamento: a inizio agosto il senato ha approvato in prima lettura il disegno di legge sulla governance, che introduce l'abilitazione nazionale e il doppio mandato quadriennale per i rettori, e il ministro Mariastella Gelmini ha ribadito «l'impegno» del governo a trovare le risorse per rimpolpare i fondi del 2011. Il primo tentativo, rappresentato dai 400 milioni comparsi nelle versioni iniziali della manovra, non è andato a buon fine, e la battaglia riprende a settembre. L'allarme è alle stelle. Con la dotazione attuale, l'anno prossimo il fondo statale sarebbe inferiore ai 6 miliardi, con una flessione del 17,2% rispetto ai livelli 2010: troppo pochi per pagare anche solo gli assegni fissi al personale, che costano 6,5 miliardi l’anno. In questo modo, lamentano i rettori degli atenei statali, il sistema entrerebbe nei fatti in dissesto.
Il pericolo è concreto ma non riguarda tutti, perché negli ultimi anni i bilanci delle università sono cambiati profondamente. Tra 2001 e 2007 (lo spiega l'ultimo rapporto del comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario), mentre il fondo ordinario superava di poco l'inflazione e le risorse ministeriali legate alla ricerca rimanevano fermi, gli atenei hanno quasi raddoppiato (da 1,2 a 2,2 miliardi l’anno) i finanziamenti «diversi» (privati o europei) per la ricerca, hanno spinto sulle tasse chieste agli studenti (+53,4%) e si sono ingegnati nella ricerca di altri canali per sostenere i conti (le alienazioni, sono passate da 210 a 436 milioni). Risultato: il crollo previsto per l'assegno statale in alcuni atenei mette a rischio anche gli stipendi, in altri è un problema ben più gestibile.
Per distinguere sommersi e salvati si possono impiegare due indicatori. Il primo è offerto dal rapporto tra spese di personale e fondo ordinario. Chi dedica al personale più del 90% del fondo deve bloccare tutte le assunzioni; quest'anno capita a sette atenei (Urbino, Cassino, Bari, L'Aquila, Reggio Calabria, Siena e l'Orientale di Napoli), ma senza gli «sconti» contabili offerti dalle norme per il personale convenzionato con il servizio sanitario le università, fuori soglia sarebbero 24; l'anno prossimo, con 1,3 miliardi in meno dallo stato, gli atenei fuori controllo sarebbero la maggioranza, ma c'è chi rimane comunque lontano dalla zona pericolo. A parte piccoli atenei come Catanzaro o Roma Foro Italico (l'ex istituto universitario di scienze motorie), tra i grandi atenei spicca la situazione del Politecnico di Milano e di Milano Bicocca (la Statale è invece vicina al 90%, al lordo degli «sconti»). All'altro capo della classifica s’incontrano invece Urbino e Siena, accompagnati dalla maggioranza degli atenei napoletani e dalla Sapienza di Roma.
Ad aiutare i conti delle università c'è anche la loro capacità di trovare sul «mercato», fatto di bandi europei e di finanziamenti privati, i fondi per alimentare le attività di ricerca. Anche in questo campo, il primato tra i grandi poli statali è del Politecnico di Milano, che ricava per queste vie circa l'80% delle risorse destinate alla ricerca, accompagnato da L'Aquila (i dati si riferiscono ai bilanci precedenti al terremoto) e dalla Politecnica delle Marche. Brillante anche la performance di Urbino, che paga però i suoi problemi storici di bilancio, mentre nel Mezzogiorno primeggia l'ateneo di Benevento. L'Orientale di Napoli, Foggia e Lecce mostrano invece in questo settore la dipendenza più alta dalle finanze statali.
Gli strumenti per gestire le facoltà, insomma, passano sempre di più dai canali alternativi a quello ministeriale, anche perché il tira e molla continuo fra governo e atenei allunga i tempi e non aiuta certo la programmazione, di fatto impossibile se la decisione sulle risorse arriva quando ormai gran parte della dote è già spesa. La partita con l'Economia, poi, non è ancora finita, ma è difficile ipotizzare che l'anno prossimo si riescano a riportare il fondo ai livelli del 2010.
Seguono i confronti con gli Stati Uniti e la Germania.
Negli Stati Uniti il governo federale non contribuisce direttamente alle spese delle università, ma finanzia gran parte della ricerca che si svolge in ateneo tramite le sue agenzie federali, come la National Science Foundation (Nsf) e i National Institutes of Health (Nih). La ricerca è anche finanziata da privati, tramite contratti e donazioni. I fondi acquisiti per un progetto di ricerca non sono interamente utilizzati per la ricerca: l'università ne trattiene una quota (circa il 30%) per le spese generali.
In Germania i finanziamenti interni alla ricerca sono scarsi e si basano principalmente su tre fattori: i risultati della didattica, le pubblicazioni e la capacità di ottenere finanziamenti esterni. Questi ultimi dipendono soprattutto dalle fondazioni e dai centri di ricerca come il Cnr, che valutano attraverso una commissione i progetti presentati da docenti e ricercatori. In base ai fondi ottenuti dai privati si ricevono risorse anche dell'ateneo. I progetti finanziati in genere hanno una durata di quattro anni. (G. Trovati. Il Sole 24 Ore 26-08-2010)

 
Reclutamento: scarsa mobilità tra atenei e bassa capacità di contendersi i migliori ricercatori PDF Stampa E-mail

Uno degli aspetti più importanti da valutare nella riforma universitaria in discussione in parlamento, è la sua capacità di ricreare nel sistema universitario condizioni di competizione per la qualità. Occorre comprendere se riuscirà a spingere le università ad attrarre giovani ricercatori offrendo buone possibilità di carriera su base competitiva. Se quindi correggerà il trend che si protrae ormai da troppo tempo, nel quale l'appiattimento delle posizioni interne è stato accompagnato da un preoccupante esodo di ricercatori promettenti che hanno trovato all'estero migliori opportunità di carriera.
Nello scorso decennio il numero - troppo elevato - di promozioni interne alle università ha modificato le proporzioni tra ordinari, associati e ricercatori fino a costituire una situazione di quasi parità numerica tra le categorie: la tipica "piramide" dei ruoli è andata distrutta a causa del prevalere delle promozioni interne alle stesse università. Ancora oggi la maggior parte delle carriere avviene per progressione interna.
Per correggere questo squilibrio, due anni fa la legge 190 ha introdotto un vincolo stabilendo che le proporzioni tra le categorie interne devono essere: 60% di ricercatori, 30% di associati e 10% di ordinari e personale tecnico. Due anni di funzionamento di questa norma stanno ripristinando la struttura a piramide, ma non hanno rimosso le cause della distorsione. Si sono creati problemi collaterali: almeno una parte di coloro che vinceranno i concorsi attualmente in atto (per associato o per ordinario) avrà difficoltà a trovare un collocamento immediato.
Con l'approvazione della legge di riforma Gelmini la norma (190) sarà soppressa. La nuova legge, pur con un intento condivisibile, impone nuovamente dei vincoli, stabilendo che la proporzione tra chiamati dall'esterno e promozioni interne sia 60\40.
La strada più efficace sarebbe invece quella di eliminare i motivi delle distorsioni e costruire gli incentivi corretti. Questa via è percorribile una volta compreso che le distorsioni sono originate da due effetti. In primo luogo, le chiamate di nuovi posti, e le promozioni, sono decise dai consigli di facoltà, ove prevalgono gli interessi ad appoggiare gli interni. Il secondo elemento è il costo: una promozione interna costa molto meno di una chiamata esterna e dunque è facile gioco sostenere la convenienza di questa scelta, anche se in realtà questa convenienza è tale solo nel breve periodo.
Quest'ultima distorsione peraltro nasce dal modo in cui i fondi ministeriali sono distribuiti tra le università: se un professore si sposta da un’università all'altra, i fondi per il suo stipendio non sono spostati all'università che lo chiama, che quindi se ne assume per intero il carico finanziario.
Vi sono molti modi per correggere questa difficoltà, tutti fondati sull'idea di appoggiare finanziariamente le chiamate di esterni, purché effettuate sulla base di valutazione di qualità. Si potrebbe per esempio trasferire, con il professore, almeno una quota dei fondi per il suo stipendio all'università che lo vuole reclutare (nel mondo anglosassone il professore/ricercatore porta con sé i propri fondi di ricerca); questo renderebbe equivalente il costo economico di una promozione interna rispetto a quello di una chiamata e permetterebbe di ripristinare la mobilità tra atenei.
Qualunque sia la via scelta, e tenendo conto che per essere efficace deve fondarsi su un finanziamento ad hoc che attenui l'attuale drastica riduzione del fondo ordinario di finanziamento (Ffo), questa soluzione permetterebbe di ridurre le due maggiori distorsioni del sistema universitario: la scarsa mobilità tra atenei e la bassa capacità di contendersi i migliori ricercatori. (M. Egidi, Il Sole 24 Ore 30-08-2010)

 
Reclutamento: punti organico e assunzioni PDF Stampa E-mail

La metà degli oltre 1.700 posti da professore ordinario e associato banditi nelle università statali italiane, che produrranno circa 3.500 idonei, sono solo «teorici», nel senso che non si possono tradurre nel 2010 in assunzioni effettive; se si guarda solo al grado più alto della piramide accademica, quello degli ordinari, i «bandi impossibili» superano addirittura il 60 per cento.
A bloccare la strada verso la cattedra di quasi duemila idonei non saranno però solo i vincoli di bilancio, su cui si è concentrata in questi mesi l'attenzione dei rettori e della politica. Certo, il crollo del 17,2% del fondo ordinario previsto per il 2011, cui il governo ha promesso però di mettere mano, non facilita la gestione, soprattutto negli atenei che sono meno attivi nella ricerca di fonti alternative di finanziamento, e sono quindi più dipendenti dall'assegno statale. Nel caso dei concorsi, però, il nodo è un altro. Il problema nasce con il primo decreto Gelmini, quello del novembre 2008, che per frenare la passione degli atenei per i concorsi da ordinario e associato, ha introdotto il sistema delle quote, nel tentativo di favorire l'ingresso di nuovi ricercatori. All'interno delle possibilità "liberate" dal turn over 2008 e 2009 (gli atenei possono dedicare ai nuovi ingressi una spesa pari al 50% delle cessazioni), almeno il 60% delle assunzioni deve riguardare i ricercatori, mentre gli ordinari non possono superare il 10%.
Il tutto è misurato non in termini di persone ma di «punti organico», un meccanismo che pesa il costo di ogni docente in base al proprio ruolo: con questa modalità, un ricercatore vale la metà di un ordinario, mentre un associato vale il 70%. Da qui il problema: le università, nonostante i cofinanziamenti ministeriali per il primo ruolo docente, hanno bandito pochi concorsi da ricercatore, o troppi posti da ordinario e associato, per poter davvero accogliere tutti. A complicare le cose c'è anche un problema di calendario: i tempi dei concorsi universitari sono infiniti, i posti banditi riguardano le sessioni del 2008, e sono quindi in gran parte maturati prima del tentativo "moralizzatore" firmato da Mariastella Gelmini.
Risultato: solo 11 atenei su 57 sono in regola con entrambe le quote, e potrebbero portare fino alla presa in servizio tutti i concorsi banditi (sempre che non intervengano problemi di bilancio), negli altri, invece, il blocco è obbligatorio. I casi limite sono quelli di Catanzaro e Roma Tre, dove le quote obbligatorie introdotte per decreto chiudono la strada a oltre il 92% degli aspiranti ordinari e associati, ma sono una quindicina le università dove almeno otto posti su dieci dovranno fare i conti con il sistema dei vincoli: tra loro ci sono due politecnici su tre (Milano e Torino), e grandi atenei come la Bicocca di Milano e Salerno. Tra quelli senza problemi vanno invece segnalati Venezia, Trieste, La Sapienza di Roma e la Federico II di Napoli.
Attenzione, però, perché i calcoli riportati in tabella (http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-08-30/negli-atenei-mille-concorsi-080435.shtml?grafici&uuid=AY0zo3KC ) rischiano di peccare per ottimismo. Gran parte dei ricercatori, come accennato, sono «cofinanziati» dal ministero, e in questo caso il loro valore in «punti organico» si dimezza; dal momento che le quote per ordinari e associati vanno calcolate in rapporto a questo parametro, il cofinanziamento prosciuga ulteriormente gli spazi per i ruoli «maggiori». Nel calcolo, poi, si suppone che le università abbiano intenzione di sfruttare tutti i punti organico a loro disposizione senza assumere personale tecnico-amministrativo, ma è difficile pensare che nessun ateneo abbia esigenze in proposito.
L'unica via d'uscita, allora, è quella di puntare sulle promozioni degli interni, perché chi fa carriera senza cambiare ateneo costa molto meno in termini di punti organico. Con il risultato, paradossale, che il sistema delle quote finisce per incentivare l'immobilità accademica, cioè proprio la tendenza che intendeva cancellare. (G. Trovati, IL Sole 24 Ore 30-08-2010)

 
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