Bocciato il cosiddetto emendamento 'salva università eccellenti' |
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Oggi, durante la discussione sul ddl università, e' stato presentato l'emendamento 1.317 (Ceruti, Rusconi) che consente alle università che hanno conseguito la stabilità e sostenibilità del bilancio, il cosiddetto emendamento 'salva università eccellenti', di poter derogare alle restrizioni imposte dalla legge, come premio per la loro virtuosità. L'emendamento in questione, per la cui approvazione si erano spesi in molti, dai rettori a Confindustria, e' stato bocciato dalla maggioranza. 'Cosi' anche l'emendamento 'salva università eccellenti' e' stato bocciato in Senato dalla maggioranza. In particolare, e' stata messa fuori gioco l'Anvur, l'Agenzia nazionale per la valutazione dell'università' e della ricerca. Neppure alle università eccellenti sarà riconosciuta quell'Autonomia e quella Responsabilità che avrebbero dovuto essere i principi cui ispirarsi per riformare il mondo accademico italiano. Questi avrebbero dovuto essere i principi su cui affermare la rigorosa valutazione degli atenei da parte di un'autorità terza, l'Anvur, appunto. Ma senza autonomia e responsabilità non ci potrà essere una seria valutazione. E senza valutazione non potrà emergere il merito. Su questo emendamento pareva esserci convergenza da parte di maggioranza, opposizione e ministro, oltre al consenso del mondo universitario, della società e della Confindustria''. (ASCA 28-07-2010.) |
Pensioni dei docenti, piove sul bagnato |
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La proposta del Partito democratico, che il governo sembra voler far propria, di abbassare l’età pensionabile per i docenti universitari da 70 a 65 anni dovrebbe favorire i giovani a spese dei vecchi. Non è così. Non solo mandare in pensione prima gli attuali sessantacinquenni è in controtendenza rispetto a tutte le riforme che favoriscono la partecipazione al mercato del lavoro degli anziani, non solo non fa risparmiare soldi alle casse pubbliche nel loro complesso, ma chi veramente pagherà il costo di questo cambiamento sono tutte le generazioni successive, inclusi gli attuali giovani ricercatori. Il motivo di questo paradosso è legato ai diversi regimi pensionistici che attualmente operano.
DUE SCENARI, ALCUNE STIME
Gli attuali sessantacinquenni sono per lo più coperti dal vecchio regime retributivo. Per costoro, una volta raggiunti i 40 anni di contributi (compresi eventuali riscatti di anni della laurea etc.), la pensione rappresenta il 75-80 per cento dell’ultima retribuzione, indipendentemente dall’età di pensionamento. Ma i sessantacinquenni di un futuro ormai prossimo avranno una parte sempre più grande di pensione calcolata col metodo contributivo, e ogni anno in meno di contribuzione riceveranno una pensione sensibilmente più bassa.
Per chiarire gli effetti della proposta sulla generazione di mezzo, quella che per prima è soggetta per intero al regime pensionistico previsto dalla legge Dini (con tutte le sue successive modifiche), abbiamo preso in considerazione un ipotetico giovane che nel 1995 (o in qualunque anno successivo) ha cominciato la carriera universitaria: per i primi dieci anni è ricercatore universitario, poi per dieci è professore associato e per i restanti anni è professore ordinario. Abbiamo ipotizzato che il giovane in questione cominci la sua carriera a 30 anni – è tipico della carriera universitaria cominciare dopo il dottorato di ricerca (in Italia o all’estero) e qualche anno di esperienze post-doc (borse, assegni di ricerca, e così via). Al nostro ipotetico giovane abbiamo applicato le retribuzioni in vigore nel 2010, ed abbiamo ignorato gli effetti della manovra economica, attualmente all’approvazione del parlamento, e discussa nel pezzo di Baldini e Caruso. Abbiamo considerato due scenari, un primo in cui la crescita dell’economia è dell’1,5 per cento annuo, un secondo in cui la crescita è dell’1 per cento annuo. I risultati con l’età di pensionamento a 70 anni sono in linea con le aspettative: il tasso di rimpiazzo, e cioè il rapporto fra la pensione percepita e l’ultima retribuzione, è compreso fra il 62 per cento (se l’economia cresce di più) e il 57 per cento (se l’economia cresce di meno). Il nostro giovane ricercatore ha già la sfortuna di appartenere ad una generazione in cui gli effetti della riforma Dini si sentono appieno.
GIOVANI OGGI. ANZIANI DOMANI
Abbassare l’età di pensionamento di cinque anni ha due effetti negativi per il giovane ricercatore: da un lato può contribuire solo 35 anni, dall’altro perde le retribuzioni più elevate previste per gli ultimi anni di carriera, per effetto dell’anzianità di servizio. In entrambi gli scenari considerati, la pensione percepita è di circa il 20 per cento più bassa rispetto al caso in cui si va in pensione a 70 anni. I tassi di rimpiazzo si riducono meno che in proporzione, perché l’ultima retribuzione è più bassa a 65 anni rispetto ai 70 anni: in un caso (crescita all’1,5 per cento) il tasso di rimpiazzo è del 53 per cento, nell’altro (crescita all’1 per cento) è del 49 per cento. Non è quindi corretto presentare la proposta di abbassare l’età pensionabile come una riforma a favore dei giovani: i giovani di oggi sono gli anziani di domani, e costringere tutti ad andare in pensione prima per allontanare gli anziani di oggi dal lavoro penalizza prevalentemente proprio i giovani. Non ci sembra che questa proposta sia la soluzione ai problemi dell’università italiana. Se lo scopo della proposta è quello di ridurre la gerontocrazia nell’università, è preferibile considerare altre ipotesi, che riducano il potere accademico degli ultra-sessantacinquenni (specie se improduttivi nella ricerca!), e che nello stesso tempo offrano più opportunità a chi nelle generazioni successive fa buona ricerca. (A. Brugiavini, G. Weber, Lavoce.info 27.07.2010) |
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Costa troppo il pensionamento a 65 anni dei professori ordinari |
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Dopo tanto parlare, e dopo tanto dichiarare da parte del ministro dell’Istruzione, ma pure della Lega e del Pd, anche stavolta non si parla minimamente di mandare i prof universitari in pensione a 65 anni. Costa troppo. A fare i primi calcoli è stato il Consiglio Universitario Nazionale, un organo istituzionale che ha il compito di dare pareri tecnici al ministero. Giovedì scorso si è riunito e ha approvato una mozione che è una condanna a morte di tutte le chiacchiere di questi mesi sullo svecchiamento nelle università. Circa 500 milioni di euro l’anno per cinque anni di spese in più a carico del Tesoro che ovviamente non darebbe mai via libera ad un’operazione del genere anche se se dovesse teoricamente condividerla. Alla cifra si arriva piuttosto in fretta se si considera che ci saranno circa 1500 uscite di prof l’anno cui si dovrebbe corrispondere l’indennità di liquidazione - spiega il Cun nella sua mozione - e questo vuol dire spendere circa 300 milioni di euro l’anno. I restanti 200 arrivano dal calcolo delle pensioni aggiuntive, tutte con importi alti, pari a circa l’80% degli attuali stipendi. «La proposta del pensionamento a 65 anni prevede una riduzione troppo drastica e repentina - avverte Andrea Lenzi, presidente del Cun - Nessun comparto può permettersi di perdere il 50% della classe dirigente senza colpo ferire». La mozione del Consiglio si conclude con un ulteriore consiglio che suona come il deprofundis definitivo: «il trend generale in tutti i settori produttivi, per motivi sia economici che demografici (allungamento della durata media della vita), è decisamente avverso all’anticipazione dell’età pensionabile». A sollevare lo stesso tipo di obiezione è Franco Donzelli, economista, docente dell’Università di Milano che ha scritto un’analisi che verrà pubblicata sul sito lavoce.info. Ricorda, infatti, che mandare in pensione i prof universitari a 65 anni «presuppone che qualcuno provveda al pagamento delle corrispondenti pensioni», e che il bilancio pubblico «dovrebbe farsi carico dei costi aggiuntivi indotti dai pre-pensionamenti per un ammontare sostanzialmente pari a quello degli stipendi, al netto dei contributi previdenziali». Anche Donzelli, dopo un rapido calcolo, arriva alla cifra di 550 milioni di euro l’anno e conclude che la proposta «lungi dal rappresentare una politica solidale di redistribuzione dei redditi fra generazioni a costo nulla per la collettività rappresenta in realtà una misura estremamente onerosa per la finanza pubblica» e quindi «non avrà seguito». Ringiovanimento bocciato, insomma. Lo sostiene anche Giuseppe Valditara, senatore del Pdl e relatore del disegno di legge sulla riforma dell’Università su cui stasera si dovrebbe votare in Senato. «Si tratta di una proposta eccessivamente penalizzante. Molti professori universitari a 65 anni sono al culmine della loro esperienza e competenza. Perché privarsene? E poi penalizzerebbe i ricercatori attuali che si troverebbero ad andare in pensione con 34-35 anni di anzianità. E non si riuscirebbe mai a coprire il vuoto di professori che si creerebbe. Alla fine siamo riusciti a trovare un equilibrio ponendo nel disegno di legge come limite di età i 70 anni». Ma il fronte dei favorevoli al ringiovanimento è nutrito, comprende il ministro Gelmini che più volte ha ribadito di essere d’accordo, e Lega e Pd che hanno presentato emendamenti in questo senso. Maria Chiara Carrozza, rettore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e relatrice della proposta del Pd: «E’ chiaro che l’immissione di giovani ha un costo. Il nostro obiettivo era di sensibilizzare il governo su un problema che esiste. D’altra parte il governo non ha nemmeno previsto incentivi per il pensionamento, preferisce pensare ai professori e non ai giovani che continuano ad andare all’estero impoverendo il nostro paese delle sue risorse future migliori. E ha imposto una cura uguale per tutti, università malate e non malate, finendo per bloccare le migliori, quelle che potrebbero andare avanti». Per nulla convinta dell’obiezione sui costi anche l’Apri, l’associazione di ricercatori italiani che ha dato il via per prima alla proposta insieme al Via-Academy, un’organizzazione di accademici italiani all’estero. «In molti Paesi si va tranquillamente in pensione a 65 anni. Lo stesso destino in Italia tocca ai ricercatori degli Enti di Ricerca come il Cnr senza che questi si sentano particolarmente penalizzati. Esistono forme contrattuali per trattenere in servizio i docenti ed i ricercatori ancora essenziali per portare avanti una linea didattica o per la gestione di fondi di ricerca da loro ottenuti». Quanto al Via-Academy due giorni fa ha inviato due giorni fa ancora una lettera ai parlamentari italiani per un ultimo appello alle loro coscienze prima del voto di stasera. (F. Amabile, La Stampa 28-07-2010) |
Università di stato, un modello che frena l'eccellenza |
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In un articolo pubblicato su La Stampa intitolato Università di stato, un modello che frena l'eccellenza, Riccardo Varaldo, presidente della Scuola Superiore Sant'Anna spiega la strada da percorrere perché il sistema si avvii ad una svolta decisiva. Secondo Riccardo Varaldo, presidente della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, l’Università italiana è in crisi, lo è in misura maggiore che nel resto del mondo. E la causa principale, al di là dei tagli, consiste in un «modello di governance senza responsabilità che non consente di ottimizzare l’impiego delle risorse, privilegiare il merito e qualificare l’università come agente di innovazione». Così Varaldo scrive in una lettera pubblicata in un articolo pubblicato su La Stampa intitolato Università di stato un modello che frena l'eccellenza. Per Varaldo, l’Università è a un bivio: può arroccarsi sul tradizionale modello, basato sul modello corporativo e caratterizzata da una scarsa efficienza; o aprirsi all’esterno,c on una «governance imprenditoriale», in grado di «riconoscere e incentivare chi è in grado di competere con successo nell’attività di ricerca e nell’acquisizione di risorse sia dal settore pubblico che dal settore privato». Secondo Varaldo, accanto alla «libera formazione» e alla «libera ricerca», si affianca una « terza missione», «quella con cui ci si apre all’esterno in modo organico», «tramite l’impiego di ricercatori e tecnologi di provata capacità, l’acquisizione di brevetti, il licensing e l’incubazione di spin off». Tale missione, in Italia, non riesce a farsi strada. Ciò che impedisce questa apertura, consisterebbe sul fronte interno, quello universitario, «in tradizioni ideologiche e strutture di governance che sacrificano lo spirito innovativo e imprenditoriale degli ambienti più aperti e dinamici». Sul fronte esterno, quello del ministero, il fatto che la terza missione non è contemplata. Il nocciolo duro della questione è rappresentato dalla «de-statalizzazione delle università». «Appare sempre più evidente – dice - la complessità della crisi del modello tradizionale di “Università di Stato”, troppo dipendente dal trasferimento di risorse pubbliche», non può passare inosservato al legislatore». Il punto saliente della riforma dovrebbe realizzarsi nel far si che «l’attività» non sia più «predeterminata unicamente dal finanziamento statale ma di poterla responsabilmente determinare in funzione del finanziamento da attrarre». (La Stampa 28-07-2010) |
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