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02 Agosto
La riforma e la fine dei concorsi. Le università sotto esame PDF Stampa E-mail

La cosa più rilevante accaduta in questi mesi nell'università è la nascita dell'Anvur, un'agenzia indipendente il cui compito è valutare gli atenei e lo stato della ricerca. Più importante della stessa legge di riforma che l'aula del Senato inizia oggi a discutere: perché gli incentivi sono spesso più efficaci delle leggi.

Dallo scorso anno, una quota (il 7%) dei fondi che lo Stato trasferisce alle università viene assegnata sulla base di un esperimento di valutazione, effettuato prima della nascita dell'Anvur. Le università migliori ricevono un premio che può essere cumulato nel tempo. Nel 2011 atenei virtuosi (ad esempio i Politecnici di Torino e Milano) potrebbero quindi ricevere fino al 14% in più, una cifra che li metterebbe ampiamente al riparo dai tagli orizzontali previsti dalla Finanziaria.

In altre sedi, invece, il taglio complessivo potrebbe superare il 14%. Poiché i fondi pubblici ormai servono a mala pena a pagare gli stipendi, le università peggiori, per sopravvivere, dovranno attuare ampie riorganizzazioni, ad esempio chiudere i dipartimenti responsabili per la modesta valutazione dell'intero ateneo.

L'efficacia dell'Anvur dipenderà dalle persone chiamate a guidarla. I primi passi lasciano ben sperare. Il consiglio direttivo sarà individuato (riproducendo le modalità seguite per lo European Research Council, Erc) all'interno di una rosa di nomi indicati da cinque esperti. La presenza fra essi di Salvatore Settis e Claudio Bordignon, gli unici italiani che fanno parte del comitato scientifico dell'Ex, è una garanzia della qualità delle scelte. Se non vi saranno sorprese, l'autorevolezza e l'indipendenza dell'Anvur saranno in contro-tendenza rispetto ad un governo che dimostra un crescente fastidio verso le agenzie indipendenti.        -

La fine dei concorsi universitari è l'aspetto più rilevante della riforma. Sono i tempi eterni e la corruzione dei concorsi che hanno indotto tanti giovani ad emigrare. Salvo il vaglio di una certificazione nazionale, le università potranno assumere chi ritengono a loro più adatto. È per questo motivo che l'Anvur è il vero perno della riforma: se l'agenzia non funzionasse, la nuova legge consentirebbe di assumere amici e parenti senza dover neppure truccare i concorsi. In queste ore ricercatori e professori associati premono per essere tutti promossi ope legis. La nuova legge li protegge fin troppo. A chi già lavora nell'università riserva di fatto i due terzi di tutti i nuovi posti: solo un nuovo docente ogni tre proverrà da fuori. E la definizione di «esterno» non impedirà all'università di Trieste di assumere un suo allievo temporaneamente trasferito a Gorizia. In Senato numerosi emendamenti propongono di abbassare ancor più la quota di esterni. Ma quanti nuovi posti vi saranno nei prossimi 5-6 anni? Pochissimi se i professori insistono per insegnare fino a 70 anni. Il Pd chiede che l'età di pensionamento sia abbassata a 65 anni, come accade quasi ovunque in Europa. Questo, e un graduale innalzamento della quota di fondi pubblici assegnata sulla base delle valutazioni, consentirebbe di non perdere una generazione di ricercatori. I professori resistono: non per insegnare fino a 70 anni, ma per non perdere potere. C'è una soluzione semplice per convincerli ad andare in pensione: prevedere che dopo i 65 anni non si possa più partecipare alla selezione dei nuovi docenti, né dirigere le Scuole di specializzazione, soprattutto quelle di medicina. (F. Giavazzi, Corsera 22-07-2010)
 
La riforma immaginaria dell’università che muore PDF Stampa E-mail

Oggi il disegno di legge del Governo sulla riforma dell’università andrà in Aula al Senato. Dopo la riforma Brunetta della pubblica amministrazione, sacrificata sull’altare della manovra economica, anche questa riforma sembra destinata a svanire nel nulla. Nel dibattito in Commissione, i pochi aspetti innovativi del provvedimento, quelli sulla governance delle università, sono stati accuratamente disinnescati dalle lobby accademiche, ben rappresentate in Parlamento. Lunga vita avranno le facoltà, destinate nel disegno originario ad essere soppiantate da dipartimenti molto più vicini all’organizzazione della ricerca, il peso degli esterni nei consigli di amministrazione è stato ulteriormente ridotto e l’obbligo di programmazione triennale, un tentativo di rendere le università maggiormente lungimiranti, abolito perché avrebbe legato le mani, meglio vincolato i bilanci, del Ministero. Non che fossero grandi cambiamenti, ma almeno una parvenza di innovazione la davano. Forse per salvare le apparenze, il ministro Gelmini negli ultimi giorni è stata molto attiva nel fare le uniche riforme di cui questo governo ha sin qui dato prova, quelle annunciate a mezzo stampa. Ecco allora una serie di notizie distillate ai giornali prima ancora che ai parlamentari. Dalla scelta di abbandonare il sistema 3+2 (triennio seguito da biennio) a quella di obbligare i docenti universitari ad andare in pensione a 65 anni “per fare posto ai giovani”.

Anche queste innovazioni hanno già il sapore dello stantio: l´abbandono del 3+2 ci riporta indietro alla situazione di dieci anni fa di cui francamente non avevamo nostalgia, il pensionamento forzato dei docenti anziani rappresenta un modo ormai ampiamente sperimentato di ridurre i costi mettendo a carico dell´Inpdap, anziché degli atenei, docenti che continuano a insegnare e a partecipare alle decisioni accademiche più importanti. Invece di fare spazio ai giovani, rende questi ultimi meno competitivi di fronte ad anziani che praticamente lavorano a costo zero. Del resto i giovani migliori se ne sono già andati. In queste settimane le università hanno eletto commissari di concorsi banditi anni fa, alcuni addirittura nel 2001. L´odissea questa volta si è svolta nelle carte dei concorsi anziché nello spazio e al contrario, tornando indietro nel tempo, anziché evolvendo dal mondo delle scimmie. I candidati più validi in quei concorsi hanno già trovato lavoro altrove, lontano dal nostro paese. Quelli rimasti in lizza verranno giudicati sulla base di pubblicazioni vecchie di dieci anni, come se la produzione scientifica fosse rimasta congelata dall´inizio del Nuovo Millennio, prima che venisse completata la sequenza del genoma umano, fossero stati inventati i farmaci più efficaci nel contrasto del virus HIV o si fossero ritrovati i resti di Ardi, il nostro più antico antenato. Per non parlare dei concorsi delle università telematiche, che vengono annullati dopo esser stati banditi. Per ricevere i finanziamenti ministeriali (e la benedizione del Presidente del Consiglio) per loro conta solo bandire i concorsi anche se i posti banditi non verranno mai creati.

Il panorama è desolante. Eppure oggi le condizioni sarebbero quanto mai propizie per fare una riforma vera, dal basso, dell´università. Due fatti importanti si sono prodotti in questi anni.

Il primo è che molti atenei sono rimasti senza soldi. Ben prima della manovra in corso, la spesa per l´università è diminuita di circa un miliardo dal 2008 al 2010, una riduzione del 7 per cento rispetto ai livelli prima della crisi. Lo certificano i dati della Ragioneria dello Stato. Dato che la spesa pubblica complessiva è nel frattempo aumentata del 10 per cento, la quota della spesa universitaria nel bilancio dello stato è diminuita di quasi il 17 per cento, in netta controtendenza rispetto agli altri paesi, in cui si approfitta delle crisi per investire in capitale umano. Come messo in luce dalla Corte dei Conti, il Fondo di Finanziamento Ordinario per le università in Italia ormai copre a malapena gli stipendi dei docenti, un costo fisso, dato che non possono essere licenziati. Non ci sono risorse per investimenti nella ricerca o per migliorare la qualità della didattica.

La seconda novità è che, con un ritardo di quasi 10 anni, sono state riavviate le procedure e le strutture per una nuova tornata di valutazione della ricerca universitaria dopo quella condotta nel 2004 e, purtroppo, finita in un cassetto. La congiunzione astrale fra questi due eventi ci offre oggi una grande opportunità per riformare dal basso l´istruzione superiore. Basta che il Governo metta a disposizione nei prossimi tre anni un miliardo per l´università (ci avvicinerebbe ai livelli di spesa universitaria pro-capite del Regno Unito, un paese con un sistema universitario pubblico che funziona molto meglio del nostro) e si impegni a distribuirlo tra gli atenei seguendo scrupolosamente i risultati della valutazione. D´ora in poi darà risorse aggiuntive solo agli atenei con i punteggi medi per docente più elevati. Almeno inizialmente le graduatorie potranno essere definite per macro aree per non penalizzare le università del Sud che partono obiettivamente in condizioni di svantaggio. Spingerebbe ogni sede a cercare di reclutare e valorizzare i ricercatori più produttivi per migliorare il proprio punteggio. E la pubblicità della valutazione (significa rendere pubblici i due migliori “prodotti”, lavori scientifici o brevetti, presentati da ogni docente per la valutazione) non solo renderebbe il processo più trasparente, ma anche servirebbe come incentivo individuale. E´ un incentivo potente: per chi vuole davvero fare il nostro mestiere, il bene più prezioso è la reputazione.

Un crescente numero di studi documenta effetti positivi di investimenti nell´istruzione universitaria sui tassi di crescita, soprattutto in paesi avanzati, vicini alla frontiera tecnologica. Un incremento del 3 per cento del numero di persone con un PhD in un paese è in genere associato all´aumento del numero di brevetti e della produttività attorno all´1 per cento all´anno. Esattamente quanto ci servirebbe per riuscire almeno a non perdere altro terreno nei confronti degli altri paesi dell´area dell´Euro da qui al 2015. Secondo le ultime stime del Fondo Monetario, l´Italia è destinata ad accumulare un ritardo di altri 5 punti di pil rispetto a Francia e Germania. Non riformare e per davvero la nostra università equivale perciò a condannarsi ad un´altra pesante recessione, dopo quella che abbiamo appena vissuto. (T. Boeri, La Repubblica 22-07-2010)
 
Sei più Giavazzi o più Boeri? Bocconi divisa dalla Gelmini. Insegnano nella stessa università ma la pensano all’opposto sulla riforma PDF Stampa E-mail

Se le coincidenze hanno un senso quella andata in scena ieri suona come il preludio di qualcosa di possibile. La coincidenza è che due economisti di fama, docenti nella stessa università (Bocconi), ieri si confrontavano sullo stesso tema (la riforma dell’università, ora in discussione al senato) sulle prime pagine dei due principali quotidiani italiani. Vedere incrociare le armi Francesco Giavazzi (Corriere della sera) e Tito Boeri (Repubblica) può far sorridere: entrambi lavorano nello stesso ateneo, vivono gli stessi problemi, frequentano le stesse persone, eppure propongono ricette abbastanza diverse. I maligni (i docenti universitari quando parlano dei colleghi sono spesso maligni) dicono che può dipendere dal fatto che il primo è consulente del ministero e il secondo no. Vero ma non basta. Il tasso di antiberlusconismo dei due è più o meno lo stesso: entrambi scrivono per LaVoce.info, organo lib-lab della fondazione Debenedetti.

Anche lo schema destra/sinistra non aiuta: in fondo la riforma universitaria in Italia, al netto di una storica egemonia del pensiero di sinistra, è sempre stato un terreno politicamente trasversale agli schieramenti e molto condizionato dalle lobby parlamentari. Non è un mistero che il vero ispiratore della riforma Gelmini sia quell’Alessandro Schiesaro, 47 anni, latinista di vaglia e riformista dichiarato considerato vicino al Pd. Dal 12 settembre 2008 è lui il capo della segreteria tecnica del ministero incaricato di rivestire di un disegno strategico i pesanti tagli al mondo dell’università e della ricerca.

Il fatto curioso è che nei loro editoriali Giavazzi e Boeri parlano delle stesse cose in modo molto diverso. Il primo esalta l’abbassamento dell’età di pensione dei docenti (a 65 anni, come chiede anche il Pd, ma che i docenti non vogliono). Il secondo lo stronca spiegando come sia aggirabile. Il primo saluta la nascita dell’Anvur, l’Agenzia indipendente per la valutazione universitaria, come il perno della riforma. Il secondo considera la valutazione della ricerca universitaria come un criterio decisivo per la distribuzione dei fondi ma non cita l’Anvur e anzi parla di valutazioni sulla base di «pubblicazioni vecchie di dieci anni». Il primo festeggia la fine dei concorsi universitari come incentivo anti-corruzione e contro la fuga dei cervelli. Il secondo lamenta i tagli all’università e alla ricerca di circa un miliardo dal 2008 al 2010, «in netta controtendenza rispetto agli altri paesi in cui si approfitta della crisi per investire in capitale umano» (in Germania è vero, in Gran Bretagna no).

Chi ha ragione? L’opposizione in parlamento darà più retta al primo o al secondo, e come si dividerà sul ddl Gelmini? E il mondo universitario si spaccherà tra gli ottimisti alla Giavazzi e i pessimisti alla Boeri? Va detto che gli articoli di giornale su come riformare l’università sono uno dei passatempi preferiti dei (tanti) docenti universitari che scrivono sui quotidiani. Docenti che spesso scrivono che l’università italiana fa schifo e quasi sempre usano un linguaggio da iniziati, comprensibile intra moenia ma quasi indecifrabile per i lettori comuni. Tutti ripetono che servirebbero robuste iniezioni di meritocrazia, ma non sono mai d’accordo sul come.

È ormai chiaro a tutti (docenti, studenti e lettori comuni) che i concorsi universitari sono nel 90 per cento dei casi una barzelletta e che premiano i soliti noti. L’effetto finale è che l’università appare irriformabile e che la fuga dei migliori cervelli all’estero sia un evento fatale, inevitabile, irreversibile, quasi meritato.

Si può risalire questa china? Pochi sembrano crederci. A detta di tutti la Gelmini è digiuna di università, ma sembra avere l’umiltà di consultarsi con persone che ne sanno più di lei. La sua riforma è considerata troppo radicale da alcuni e troppo poco ambiziosa da altri. Il problema è che il ministro Tremonti sembra avere un conto aperto con l’accademia, un mondo al quale appartiene ma che considera estraneo, improduttivo, ostile.

In fondo il suo metodo è sempre lo stesso: prima tagliare, poi riformare. E, nonostante gli auspici del capo dello stato, quel metodo potrebbe aver già convinto l’opposizione a votare no. Comunque. (G. Cocconi, Europaquotidiano 23-07-2010)
 
Università. Un'idea su pensioni e ricerca PDF Stampa E-mail

La proposta del Pd, fatta propria dal ministro Gelmini, di reperire risorse per le carriere dei giovani universitari mandando in pensione tutti i professori al compimento del sessantacinquesimo anno di età, come era inevitabile, ha innescato un conflitto generazionale nelle università. Come molti commentatori hanno osservato, però, la questione è resa assai delicata dal fatto che in essa sono in gioco due valori, entrambi importanti e entrambi degni di essere tutelati.

C’è, da un lato, la necessità di reperire risorse per consentire di fare carriera ai giovani meritevoli (e sottolineo meritevoli: ci sono anche giovani che non meritano affatto di farla ed è auspicabile che non la facciano). E c’è, dall’altro lato, la necessità di non impoverire di colpo l’università mandando a casa, insieme ai peggiori, anche i migliori fra i professori ordinari che abbiano compiuto 65 anni.

La via maestra, in realtà, dovrebbe essere quella indicata da Michele Salvati (Corriere, 23 luglio) e ribadita, con l’aggiunta di qualche suggerimento assai interessante, da Irene Tinagli (La Stampa, 24 luglio): mettere a pieno regime il sistema di valutazione e distribuire premi (meglio se consistenti) e punizioni (meglio se durissime) sulla base della qualità della produzione scientifica individuale. I mezzi ci sono. Basta solo avere la voglia (e la capacità politica) di attivarli. Il grande vantaggio sarebbe quello di poter reperire risorse da destinare ai meritevoli togliendole ai non meritevoli, quale che sia l’età di costoro. Per esempio, si potrebbe decidere di ridurre lo stipendio a tutti quei docenti (di 30 anni o di 65 non fa differenza) che abbiano alle spalle una produzione scientifica insufficiente. E sarebbe anche altamente educativo se si decidesse che chi non ha prodotto nulla, poniamo negli ultimi cinque o dieci anni, debba essere messo alla porta. A un sistema di premi e punizioni sulla base della produzione scientifica svolta occorre arrivare al più presto. Non c’è altro mezzo per ridare slancio, prestigio e forza all’università.

Ma, se capisco qualcosa di politica (il che, naturalmente, non è scontato), sembra che governo e opposizione siano in realtà, in questo momento, alla ricerca di una via rapida, immediata (più immediata di quella che si affida al sistema della valutazione) per placare ansie e potenziali ribellioni degli universitari più giovani. Come percorrere questa via più rapida, salvando capra e cavoli, salvaguardando entrambi i valori sopra indicati? Si può fare solo se ci si affida a norme transitorie, in attesa che il meccanismo dei premi e delle punizioni connesso al sistema della valutazione entri a pieno regime. Si potrebbe stabilire, ad esempio, che, per un certo periodo di tempo (cinque anni o più) vadano in pensione, al compimento del 65° anno di età, tutti quei professori che risultino privi di pubblicazioni scientifiche nei tre anni precedenti all’anno di promulgazione della norma transitoria (a meno che, nel suddetto triennio, non abbiano avuto compiti direttivi nell’ateneo di appartenenza).

Uscirebbero dall’università, liberando risorse da destinare ai più giovani, i docenti che non fanno più ricerca mentre resterebbero quelli che la fanno. Oppure la norma transitoria potrebbe ispirarsi alla proposta di Francesco Giavazzi (Corriere, 22 luglio) ma con un’integrazione che mi permetto qui di suggerire. Al compimento del sessantacinquesimo anno, come propone Giavazzi, tutti i professori perdono il diritto di entrare in commissioni di concorso e di detenere cariche direttive (presidenze di facoltà, direzioni di dipartimenti, corsi di laurea, cliniche universitarie, eccetera). Forse non si elimina del tutto ma certo si riduce grandemente il cosiddetto «potere accademico» di questi docenti. Per giunta (ed è l’integrazione che propongo), i professori che accettano di andarsene in pensione a 65 anni, ricevono un bonus economico e non sono penalizzati a fini pensionistici rispetto ai professori che scelgono di restare. I docenti interessati solo ad esercitare potere accademico sarebbero incentivati ad andarsene. Liberando posti da destinare ai più giovani. Resterebbero invece i professori ultrasessantacinquenni con la perdurante passione per l’insegnamento e la ricerca e, proprio per questo, capaci di dare ancora molto all’università. (A. Panebianco, Corsera 25-07-2010)
 
Professori e ricercatori universitari dopo la manovra finanziaria PDF Stampa E-mail

Negli anni 2011/13 vengono bloccati per un triennio la maturazione di classi e scatti, e l’adeguamento annuale delle posizioni stipendiali sulla base degli indici annualmente determinati dall’Istat . Senza possibilità di recupero. Le progressioni di carriera disposte in questi anni hanno solo valore giuridico. Inoltre l’articolo 9 al comma 2 prevede che gli stipendi superiori ai 90.000 euro lordi sono ridotti del 5% fino a 150.000 euro, mentre per la parte eccedente i 150.000 euro il taglio sarà del 10%.

NOTA

Le perdite sono a regime e per sempre, nel senso che si trascinano negli anni, determinando la modifica delle curve retributive della docenza. Il rallentamento della dinamica retributiva produce danni relativamente maggiori per i docenti più giovani, che sono all’inizio della carriera, piuttosto che per coloro con maggiore anzianità che hanno accumulato un percorso salariale e previdenziale consistente. Proprio perché i tagli non sono recuperabili, il loro effetto cumulativo va misurato in termini di perdita individuale sull’arco dell’intera carriera futura. La proiezione riguarda i tre anni del blocco, ma essa andrebbe, in effetti, calcolata, in termini di minore retribuzione attesa e conseguita, per tutta la carriera di ciascuno. Si vedrebbe allora che il blocco produce una perdita di reddito a regime estremamente rilevante. Non va poi sottovalutato l’effetto del blocco sulla contribuzione pensionistica, particolarmente per chi matura nel nuovo regime.

TABELLA

La proiezione è sulle posizioni iniziali, mediane e finali delle tre fasce di docenza, in modo da dare l’idea dell’entità dei tagli a seconda della collocazione individuale in classi e scatti. Nella tabella che segue,

•        la prima cifra (a) rappresenta la perdita media per il blocco di classi e scatti, calcolata sullo stipendio annuale lordo, e cioè la differenza tra una classe e quella superiore proiettata per tre anni dal 2011 al 2013.

•        La seconda cifra (b), la perdita dovuta al mancato adeguamento annuale per la posizione di riferimento, sempre nei tre anni, nell’ipotesi arbitraria che per tutti e tre gli anni l’adeguamento fosse pari al 2% annuo (ma l’anno scorso, ad esempio, l’adeguamento è stato del 3,77%).

•        La terza cifra (c) rappresenta la perdita media annuale a regime consistente in un importo pari a 1,5 scatti (blocco per tre anni degli scatti biennali).

•        Ovviamente anche gli importi della colonna b) con la norma attuale non verranno recuperati.

Perdite medie complessive nel triennio

Professore ordinario confermato a T.P.

a         b                c

Ordinario classe       1:       9351   + 7.530        4675

Ordinario classe       9:       10380 + 11.105       5190

Ordinario classe       14/3:  6402   + 13.950       3201

 

Professore associato confermato a T.P.

a         b           c

Associato classe 1:            6642   + 5650               3321

Associato classe 9 :           7371   + 8185              3685

Associato classe 14/3:        4545  + 10205   2272

 

Ricercatore confermato a T.P.

a          b        c

Ricercatore classe 1:          4743   + 4327            2371

Ricercatore classe 9:          5265   + 6132            2632

Ricercatore classe 14/2:     3246  + 7445   1623

 

RIENTRO DEI RICERCATORI – ARTICOLO 44

Dal 2011 I ricercatori che ritornano a lavorare in Italia potranno escludere dalla formazione del reddito il 90% degli emolumenti purché al momento dell’emanazione del decreto siano stati 2 anni continuativi all’estero, si applica anche a chi sarà all’estero per i successivi 5 anni. Dovranno prendere la residenza fiscale in Italia e si applica per 3 anni.

(Elaborazione a cura del centro nazionale FLC CGIL su dati Aran e Miur)
 
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