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20 Giugno
Riparte il processo di valutazione della ricerca scientifica PDF Stampa E-mail
Dopo quasi cinque anni, il processo di valutazione dei prodotti della ricerca universitaria si rimette in moto con il decreto del ministro dell’istruzione, università e ricerca del 19 marzo che definisce le Linee guida per la Valutazione Quinquennale della Ricerca (VQR) 2004-2008. Prima di illustrare i contenuti del decreto e dare qualche rapido giudizio sulle scelte compiute, è utile fare qualche passo indietro.
Un decreto legge del 2008 (convertito poi con una legge del 2009) prevede che, a decorrere dallo stesso anno, “al fine di promuovere e sostenere l’incremento qualitativo delle attività delle università statali e di migliorare l’efficacia e l’efficienza nell’utilizzo delle risorse”, una quota non inferiore del 7 per cento del fondo di finanziamento ordinario (si tratta, come è noto, di quel fondo statale che costituisce, ad oggi, la principale fonte di finanziamento per le università) sia ripartita in base alla qualità della ricerca scientifica (e di una serie di altri parametri, tra i quali la qualità dell’offerta formativa e dei risultati dei processi formativi; la qualità, dell’efficienza e dell’efficacia delle sedi didattiche). A questa disposizione danno attuazione gli ultimi due decreti ministeriali per la ripartizione del fondo ordinario, quello per il 2008 e quello per il 2009. In entrambi i casi, in particolare, per giudicare i risultati delle università nella ricerca scientifica, si rinvia agli esiti della “Valutazione triennale della ricerca-VTR (per il triennio 2001-2003)” compiuta dal Comitato per l’indirizzo della valutazione della ricerca-CIVR e conclusasi a fine 2005. Questa scelta è stata criticata aspramente, perché comporta l’attribuzione di premi ad alcuni, e, correlativamente, di svantaggi ad altri, sulla base di meriti acquisiti molti anni prima (da un minimo di sei ad un massimo di otto) del momento nel quale avviene la ripartizione dei fondi.
Opportunamente, quindi, il decreto ministeriale del marzo scorso rimette in moto il processo di valutazione. Per non lasciare vuoti, il decreto riguarda tutta la produzione scientifica del quinquennio successivo a quello oggetto del precedente ciclo di valutazione, anche se, inspiegabilmente, non comprende il 2009. Ecco i contenuti essenziali del decreto ministeriale. Anzitutto, come si è detto, esso definisce le linee guida, ma perché il processo di valutazione possa partire, in concreto occorre che sia emanato un apposito bando da parte del presidente del CIVR: entro i diciotto mesi successivi la procedura di valutazione deve concludersi. E’ ragionevole prevedere, quindi, che almeno per la ripartizione del fondo di finanziamento ordinario per il 2010 (se non addirittura anche per quello per il 2011) si dovrà fare riferimento ancora alla valutazione 2001-2003. La valutazione riguarda in via immediata la produzione scientifica dei “ricercatori” (termine nel quale il decreto comprende professori e ricercatori di ruolo e i ricercatori a tempo determinato), ma è in funzione di quella riguardante complessivamente le università alle quali essi appartengono. Ha ad oggetto i tipi di pubblicazioni espressamente elencati (articoli su riviste, a condizione che siano dotate di ISSN; libri e loro capitoli, limitatamente a quelli dotati di ISBN; brevetti depositati, ecc.), mentre altre pubblicazioni ne sono escluse, in ragione, presumibilmente, del minore impegno scientifico richiesto per la loro preparazione (per esempio, le attività editoriali e di curatela e i testi e i software di esclusivo interesse didattico e divulgativo). Il decreto, poi, disciplina le sequenze procedimentali attraverso le quali, prima, si definiscono le pubblicazioni da sottoporre a valutazione, poi avviene la valutazione vera e propria. Una prima sequenza procedimentale si svolge all’interno dell’Università e, a sua volta, si compone di due fasi: ciascun ricercatore seleziona non meno di due scritti tra quelli pubblicati nel quinquennio 2004-2008; l’Università ne seleziona due da inviare al CIVR, assieme ad una altra serie di dati richiesti dallo stesso decreto.
Segue, quindi, la valutazione da parte del CIVR che si articola, a sua volta, anche essa in due fasi. Una prima fase si svolge all’interno dei quattordici panel di area (corrispondenti alle aree scientifiche del CUN), composti di esperti di elevata qualificazione, anche stranieri. Il decreto stabilisce i criteri ai quali i panel si devono attenere per la valutazione, il tipo di giudizi conclusivi da esprimere, i metodi da adottare, l’atto conclusivo del lavoro (una graduatoria delle singole strutture per la rispettiva area). Una seconda fase si conclude con la relazione finale del CIVR. Questa, da un lato, basandosi sulle risultanze dei panel di area, attribuisce un punteggio complessivo a ciascuna struttura. Dall’altro lato, integra il giudizio su ciascuna università tenendo conto di altri tre aspetti: la propensione della formazione alla ricerca (per esempio, numero delle figure in formazione); la mobilità internazionale dei ricercatori; la capacità di impegnare risorse finanziarie proprie. Altro aspetto importante: alla valutazione delle università, il CIVR aggiunge quella dei singoli dipartimenti che ne fanno parte. Alcune considerazioni. La prima emerge dal confronto tra le regole del nuovo processo di valutazione e quelle del precedente, concluso nel 2005. Nella nuova disciplina si nota una maggiore complessità del processo di valutazione, almeno sotto due profili. Anzitutto, devono essere prese in considerazione pubblicazioni di tutti i ricercatori (sia pure nel numero massimo di due per persona), mentre nel precedente processo di valutazione ciascuna università doveva selezionarne un numero più ristretto, definito in base all’organico complessivo, con la conseguenza che solo i lavori di una parte dei ricercatori era sottoposto al giudizio del CIVR. Si tratta di un cambiamento che può avere un effetto importante, favorendo una concorrenza tra università, ma non più anche all’interno della stessa università, come avveniva invece in passato. Invece di avere ricercatori della stessa università in competizione tra loro perché sia loro, e non di altro collega, la pubblicazione sottoposta a valutazione del CIVR, può consolidarsi un interesse comune di tutti gli appartenenti alla stessa struttura perché ciascuno scelga i migliori tra i propri lavori scientifici, e così massimizzare il beneficio economico per l’intera università di appartenenza. In prospettiva, poi, si può produrre una ulteriore conseguenza virtuosa: ciascuna università, infatti, può essere incentivata a reclutare gli studiosi maggiormente qualificati ed impegnati nella ricerca in ragione dell’aspettativa di maggiori vantaggi economici che possono derivare da una crescita del proprio ranking. Va da sé, però, che una conseguenza di questo tipo intanto ha qualche possibilità di prodursi realmente, in quanto il peso del parametro della qualità scientifica sulla ripartizione dei fondi cresca in modo significativo rispetto a quello attuale.
Il secondo elemento di novità riguarda, invece, la valutazione dei dipartimenti. Questa, prima, era rimessa alla discrezionalità delle singole università. Nel nuovo decreto, invece, è il CIVR medesimo che svolge questo compito. In questo modo, la valutazione dei singoli dipartimenti diventa obbligatoria; è sottratta alle università, che sono così alleggeriti di un compito impegnativo; né questo aggrava il lavoro del CIVR che non deve fare altro che riaggregare i dati dei quali già dispone in ragione dell’afferenza dipartimentale dei singoli ricercatori; si fornisce alle università stesse una base obiettiva per le decisioni di ripartizione dei fondi ricevuti tra le proprie strutture. Una seconda considerazione emerge, invece, dal confronto con una altra serie di documenti pubblicati sempre in materia di valutazione negli ultimi mesi. Cito, tra i tanti, la proposta del CUN del febbraio 2010 sui “Criteri identificanti la scientificità della produzione individuale”e il documento del gruppo di esperti costituito presso il CNR sui criteri di valutazione delle attività di ricerca in campo umanistico del dicembre 2009. Il primo dei due ha una rilevanza normativa immediata: lo stesso decreto legge del 2008, del quale si è parlato all’inizio, infatti, prevede che l’attribuzione ai docenti degli scatti retributivi biennali dipende dalla effettuazione, nel biennio precedente, di pubblicazioni scientifiche; attribuisce al ministro dell’istruzione, università e ricerca, su proposta del CUN, e sentito il CIVR, il compito di definire i criteri identificanti il carattere scientifico delle pubblicazioni; quindi, la proposta del CUN che ho citato è l’atto di avvio di questo procedimento. Il secondo, invece, è un documento di studio che si prefigge l’obiettivo di fornire “uno strumento di lavoro accettato e riconosciuto dalla comunità scientifica per l’ammissione alle valutazioni comparative, per l’anagrafe della ricerca, per i finanziamenti nelle diverse sedi, per la concessione degli scatti retributivi biennali dei docenti, e per le attività dell’ANVUR in sede di valutazione qualitativa delle Università”. Anche qui dal confronto emergono due importanti differenze tra i documenti del CUN e del CNR, da un lato, e il decreto ministeriale, dall’altro. La prima differenza riguarda la nozione, rispettivamente accolta, di pubblicazione scientifica. Per il ministero, come si è visto, devono considerarsi tali, tra gli altri, tutti gli articoli pubblicati su rivista provvista di ISSN e tutti i volumi provvisti di ISBN. Per il CUN, invece, per poter essere sottoposto a valutazione, l’articolo deve essere pubblicato su rivista che, oltre a essere identificabile con il codice ISSN, prevede una procedura di revisione degli articoli sottomessi e subordini l’accettazione al parere favorevole di almeno due esperti terzi, possibilmente anonimi, o comunque al giudizio di un comitato scientifico che offra garanzia di autorevolezza e di terzietà. Per il gruppo di esperti CNR i criteri per la valutazione sono ancora più severi: per le riviste, per esempio, si dovrà tenere conto, infatti, oltre a quelli visti, anche di altri parametri, quali ad esempio la tradizione, la diffusione nei rispettivi ambiti disciplinari e la puntualità di uscita; la riconosciuta autorevolezza del direttore; l’autorevolezza dell’organizzazione scientifica che promuove o pubblica la rivista, ecc. La seconda differenza riguarda le pubblicazioni in forma elettronica. Il decreto del ministro non ne fa cenno. Nella proposta del CUN e nel documento del gruppo di esperti del CNR, invece, si dice espressamente che queste, purché conformi alla normativa vigente in materia e aventi i requisiti di scientificità dei quali si è detto, sono da considerarsi alla stessa stregua delle pubblicazioni a stampa. Come si vede, le differenze non sono di poco conto. Esse rischiano di provocare incertezze in quanti devono essere valutati e aggravamenti dell’azione pubblica, costretta ad utilizzare, senza una apprezzabile giustificazione, criteri differenti per qualificare un medesimo oggetto. Si rendono necessari, quindi, una accurata messa a punto della materia e una certa omogeneizzazione delle regole, per evitare, come purtroppo avviene spesso in Italia, che alla enunciazione di indirizzi interessanti e innovativi segua una pratica confusa che ne frustri la realizzazione. (G.Vesperini, iMille, Articolo pubblicato in vista della giornata co-organizzata da iMille e dedicata a “Ricerca ed Università” che ha avuto luogo il 25 maggio, a Roma)
 
Ospedali-università PDF Stampa E-mail
Università e ospedali: infatti già una legge del 1890 prescrive che gli ospedali delle città sede di Facoltà Mediche, come Milano ad esempio, mettano a disposizione locali e casi clinici per i diversi insegnamenti. Un secolo dopo, con la riforma costituzionale approvata nel 2001, la materia afferisce alla tutela della salute e quindi alle regioni. La legge regionale lombarda del 6 agosto 2009, ad esempio, disciplina i rapporti tra Regione e Università per lo svolgimento di attività assistenziali, formative e di ricerca e definisce una rete regionale, di cui fanno parte i poli universitari, gli ospedali e le strutture territoriali. Tutto previsto e regolato, quindi, ma cosa succede in pratica? Nel corso dei passati decenni, i cardiologi, i chirurghi, gli internisti, gli ortopedici, i ginecologi eccetera si sono riuniti in società scientifiche e associazioni culturali differenti e sono distinti in universitari e ospedalieri. Il cristallizzarsi di queste divisioni fa perdere di vista, talora, l'unicità della missione (cure umane e di qualità; ai malati non importa se chi li cura è universitario o ospedaliero) e insorgono fratture e incomprensioni, che si ampliano poi in occasione di nomine di primari, di concorsi, di attribuzioni di vario genere. A ciò si sommano poi gli interventi della politica. Sostenere che una posizione primariale è appannaggio di una categoria chiude le porte a chi ha sviluppato le proprie competenze nell'altra. Non si faranno, così, pubblici concorsi, ma selezioni in un'area limitata delle professionalità presenti e disponibili. Il problema è di portata nazionale: ci sono diverse situazioni in scadenza, per le quali il problema delle nomine dei primari si continua a presentare; non si tratta di interpretare le convenzioni o di cercare cavilli legali, ma di offrire al sistema sanitario i migliori professionisti di cui si può disporre. Nessun timore se i direttori generali seguiranno esclusivi criteri di merito; la politica, che li ha nominati, li lasci lavorare; stia alla finestra e controlli le scelte, ma solo attraverso i risultati, compresa la soddisfazione dei pazienti. Non si guardi più al colore e alla provenienza, ma alla sostanza, alle capacità dei candidati; gli indicatori ci sono e vanno applicati con imparzialità e intelligenza. La collaborazione tra università e ospedale per i necessari scopi di formazione sarà una facile conseguenza e in una sanità di qualità cresceranno studenti preparati e si formeranno bravi medici. Così si supera questo dualismo annoso e dannoso. (P. Spinelli 14-06-2010)
 
Chiarimenti in merito alla sentenza del consiglio giurisdizionale sulla piena equiparazione dei medici universitari al personale ospedaliero (indennità già De Maria) PDF Stampa E-mail
In ordine alla sentenza del Consiglio Giurisdizionale della Sicilia ed alla eventuale riferibilità della stessa al personale della dirigenza del ruolo sanitario non medico (psicologi, biologi ed altro) corre l’obbligo di precisare quanto segue. Innanzitutto val la pena di partire dalla doverosa specificazione che la disciplina del rapporto di lavoro della dirigenza del Servizio Sanitario Nazionale è articolata in due distinte aree della contrattazione collettiva, per scelta insindacabile delle parti sociali contenuta nei CCNQ (contratti collettivi nazionali quadro). Pertanto i dirigenti delle ASL e delle Aziende del SSN appartengono alla III area della contrattazione collettiva se dirigenti del ruolo sanitario, tecnico e amministrativo ovvero alla IV area della contrattazione se medici o veterinari. Biologi e psicologi sono appunto dirigenti del ruolo sanitario ed il loro rapporto di lavoro trova la sua fonte giuridica nel contratto della III area della dirigenza. Biologi e psicologi, al pari degli altri dirigenti possono poi avere come loro formale datore di lavoro non già una ASL o altra Azienda del SSN ma una Università, nel senso che essi sono inseriti nei ruoli della docenza universitaria: sono professori ordinari, professori associati o ricercatori. In tale evenienza, il loro rapporto di lavoro non trova la sua fonte giuridica in un contratto collettivo nazionale, in quanto il loro rapporto, come suol dirsi in gergo, non è “contrattualizzato”, nel senso che la disciplina del rapporto è rimessa ad una fonte legislativa e non già ad una negoziale. Il loro rapporto di lavoro, al pari di quello di altri dipendenti della pubblica amministrazione collocati in posizione apicale, quali militari e magistrati ecc., non ha subito gli effetti della cosiddetta “privatizzazione del pubblico impiego” attuata dal legislatore a partire dal D. Lgs 29/93. Fatta tale precisazione, occorre domandarsi come risulti, nel nostro ordinamento, regolamentato il rapporto di lavoro dei docenti universitari, dipendenti dell’università (e quindi non di una azienda del SSN), che prestano servizio presso le aziende ospedaliere universitarie. Come è noto, per tale particolare categoria di soggetti, a partire dall’istituzione della c.d. indennità De Maria, il legislatore ha sempre fissato meccanismi retributivi in applicazione dei quali agli stessi venisse garantita la parità retributiva rispetto ai loro colleghi, medici e veterinari, ma anche psicologi, biologi ed altri dirigenti, direttamente assunti dal Servizio Sanitario Nazionale. In forza di tali disposizioni i minimi contrattuali fissati, da ultimo, nei CCNL dell’Area III e IV hanno trovato applicazione in favore anche del personale della docenza universitaria impegnati in attività assistenziali delle aziende ospedaliere universitarie. In punto di fatto, va anche premesso che suddetto meccanismo retributivo, da ultimo fissato nella disposizione di cui all’art. 31 del DPR 761/79, si è tradotto in un beneficio concreto soltanto per alcune categorie di docenti, atteso che le tabelle retributive dei professori ordinari e di quelli associati con una più elevata anzianità, assicurano a detti soggetti un trattamento economico complessivo già di per sé più favorevole rispetto a quello fissato dai CCNL. Per dirla in breve, un professore ordinario di una disciplina medica guadagna di più di un medico ospedaliero e, pertanto, non occorre applicare in suo favore di alcun meccanismo equiparativo, ovvero che le retribuzioni dei docenti e in alcune ipotesi degli associati superano quelle dei medici ospedalieri e ciò in ragione del fatto che essi svolgono attività di didattica e di ricerca oltre quella assistenziale. All’opposto, un ricercatore ed un associato inserito da pochi anni nei ruoli della docenza, guadagna meno di un medico ospedaliero o di altro dipendente delle professioni sanitarie. Per tali ultimi soggetti il mantenimento del meccanismo equiparativo, indennità c.d. De Maria ovvero art. 31 DPR 761/79, ha rappresentato da sempre la condicio sine qua non per non attuare una odiosa discriminazione tra personale svolgente la medesima attività, almeno limitatamente all’impegno assistenziale richiesto. In tale contesto, si sono poi inserite le disposizioni di cui al D.Lgs 517/99 che hanno trovato e trovano la loro applicazione nei confronti del personale inserito nei ruoli della docenza e prestanti servizio presso le aziende ospedaliere universitarie, siano essi medici, veterinari, psicologi, biologi od altro. Va detto subito che la finalità della legge non è stata quella di abrogare il meccanismo equiparativo di cui beneficiavano i soggetti sopra indicati, ma quello di assicurare agli altri soggetti, professori e associati, una forma di corrispettivo per il loro impegno assistenziale. Come esposto in precedenza, per effetto della struttura della retribuzione del docente universitario dell’area medica, impegnato al pari dei suoi colleghi universitari in attività di didattica e ricerca, l’ulteriore attività di assistenza non riceveva alcuna forma di compenso. Orbene, il legislatore del 1999, nell’intento di rafforzare le strutture ospedaliere delle università anche a mezzo di un maggiore impegno assistenziale dei docenti in ruolo, ha fissato all’art. 6 i criteri per la determinazione di un assegno “aggiuntivo”.
Chiaramente quindi il legislatore non ha voluto togliere alcunché ma ha voluto semplicemente aggiungere ad altri. Purtroppo però tale interpretazione della legge, fortemente sostenuta dal CSA della CISAL Università per l’Area Medica e delle altre professionalità sanitarie di Napoli, biologi e psicologi inclusi, è sfuggita, o meglio, in talune ipotesi, non è stata bene rappresentata all’interprete e così la magistratura ha fatto una gran confusione emettendo diverse pronunce tutte in contrasto tra loro con il rischio di generare delle forti disparità tra stesse categorie di personale operanti in diverse aree del paese. Premesso che a detta situazione non vi è rimedio alcuno, va osservato che l’attuale panorama giurisprudenziale non è assolutamente confortante atteso che la posizione assunta dal Consiglio di Stato, l’unico organismo giurisdizionale abilitato a giudicare in seconda istanza sulle sentenze pronunciate dai vari tribunali amministrativi regionali, appare fortemente lesiva della posizione dei c.d. più deboli, ovvero proprio di quei ricercatori ed associati che chiedevano non solo di aggiungere qualcosa al loro trattamento retributivo ma principalmente di non vedersi tolto quanto a loro era assicurato dai principi equiparativi fissati dalla legislazione precedente.
Sul punto è auspicabile un ravvedimento da parte dei giudici del Supremo organo amministrativo nel senso di una riforma delle precedenti pronunce in accoglimento delle istanze volte al mantenimento dei principi perequativi delle retribuzioni. Va anche detto che molto potrà fare la contrattazione collettiva aziendale a cui è rimesso il compito di fissare le retribuzioni di posizione e di risultato, poste come base di calcolo dell’assegno aggiuntivo ex art 6 D. Lgs 517/99, e molto ancora potrà fare la legislazione regionale a cui competerà il compito di stipulare protocolli di intesa con le università per la parte assistenziale. Quanto, infine, alla pronuncia del Consiglio Giurisdizionale della Sicilia, ci si può limitare a dire che se ne apprezza lo sforzo interpretativo operato, ma che essa, purtroppo, non ha nessun valore vincolante per i giudici del Consiglio di Stato, essendo esso organo giurisdizionale proprio di una regione a statuto speciale. Per dirla ancora una volta in breve bisognerà trasferirsi in Sicilia, dove oltre a godere del bel mare e dei bei cannoli, si potrà godere del meccanismo equiparativo fissato dall’art. 31 del DPR 761/79. Poiché quest’ultima via non è ovviamente praticabile, occorrerà, là dove non ci fosse un riscontro positivo in ambito di contrattazione integrativa, intraprendere di conseguenza la strada giurisdizionale. L’ufficio Studi è a disposizione di quanti volessero ulteriori chiarimenti sulla problematica e su come intraprendere eventuali azioni legali. (Nota dell’Ufficio Studi Nazionale del CSA della CISAL Università. Avv. N. Allocati, Aprile 2010)
 
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