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06 Giugno
Metodologie per la valutazione quinquennale della ricerca PDF Stampa E-mail
Si è svolto a Monserrato l’incontro con il prof. Franco Cuccurullo, rettore dell’Università di "G. D’Annunzio" di Chieti-Pescara e Presidente del Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca. L’iniziativa è servita per conoscere i criteri seguiti dal CIVR e la procedura informatica messa a punto dal Cineca per raccogliere i dati 2004-2008. Con la valutazione quinquennale della ricerca (VQR) 2004-2008 il Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca si accinge ad effettuare per il MIUR un censimento che riguarderà i progetti, le pubblicazioni e i brevetti di 67mila ricercatori italiani, operanti in 90 strutture, tra università ed enti di ricerca statali e privati. Grazie al supporto informatico del Cineca potranno essere valutati fino a 146mila lavori delle 14 aree individuate dal Consiglio Universitario Nazionale: 1) Scienze matematiche e informatiche, 2) Scienze fisiche, 3) Scienze chimiche, 4) Scienze della Terra, 5) Scienze biologiche, 6 Scienze mediche, 7) Scienze agrarie e veterinarie, 8) Ingegneria civile ed Architettura, 9 Ingegneria industriale e dell’informazione, 10) Scienze dell’Antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche, 11) Scienze storiche, filosofiche, psicologiche e pedagogiche, 12) Scienze giuridiche, 13) Scienze economiche e statistiche, 14) Scienze politiche e sociali.  “Un grandissimo lavoro” - ha spiegato il prof. Cuccurullo durante la presentazione della metodologia a Monserrato - “che vede impegnato il CIVR a favore della ricerca e dei ricercatori, non certamente contro”. Lo scopo è quello di certificare entro il 2011 la quantità e la qualità della ricerca per i singoli ricercatori italiani, per i dipartimenti e gli enti di appartenenza. Le informazioni, trattate ed elaborate secondo i parametri di peer review e analisi delle citazioni, permetteranno di aggiornare l’anagrafe di tutto il personale impiegato nei progetti di ricerca e di avere un reale quadro comparativo rispetto alla situazione internazionale. All’incontro era presente anche la dott.ssa Agnese Damiani, del gruppo di lavoro nazionale CIVR, che ha presentato la procedura informatica messa a punto dal Cineca per l’inserimento delle pubblicazioni nel database online. (Cagliari, 19-05-2010. unicaweb - IC)
 
La valutazione dell’editoria PDF Stampa E-mail
Il modello anglosassone delle University Press è spesso guardato con ammirazione dalla comunità scientifica per la sua capacità di selezione dei contenuti in base a criteri di valutazione oggettivi e imparziali. Non si fatica, quindi, a riconoscere alle pubblicazioni che vengono da quell’ambito una scientificità ed una credibilità attribuita con molta maggiore difficoltà alla produzione europea e nazionale. In questo senso peer review, double-blind review, comitati di lettura, direttori “scientifici” di collana sarebbero gli strumenti attraverso i quali la nostra ricerca potrebbe recuperare una considerazione ed un peso internazionali ora smarriti. O, ancora meglio, potrebbe tornare a un dialogo con la comunità scientifica globale, dal momento che questi requisiti sono reputati, allo stato dell’arte, indispensabili ed ineludibili. Ora, in tutto questo dibattito, temo si sia sottovalutato il modello economico e produttivo su cui sono fondate le case editrici universitarie del mondo anglofono. In primo luogo le generose sovvenzioni che ricevono dalle istituzioni madri le rendono dipendenti in forma non sostanziale dall’andamento del mercato editoriale e quindi molto spesso possono costruire i propri budget su obbiettivi più contenuti e meno incerti rispetto a quelli a cui sono costretti gli editori di cultura italiani. In secondo luogo, i fondi a disposizione per gli acquisti da parte delle biblioteche, universitarie e pubbliche, non sono neanche lontanamente paragonabili a quelli, sempre minori, nelle mani delle nostre istituzioni. Questo significa che già in partenza la casa editrice può ragionevolmente considerare venduta una parte consistente della propria produzione, riducendo moltissimo il rischio d’impresa di ciascun volume. In terzo luogo, last but not least, ovviamente non si può dimenticare il valore economico della lingua in cui si pubblica. L’uso dell’inglese garantisce l’accesso ad un mercato globale (si parla di 1 miliardo e 500 milioni di persone capaci di comprenderlo) dal quale naturalmente siamo esclusi. La combinazione di questi tre elementi ha permesso l’affermarsi di un modello produttivo destinato a soddisfare la domanda della comunità accademica e a rafforzare il prestigio della ricerca scientifica e quindi delle Università di origine. Lo scopo, quindi, non è mai stato tanto quello di parlare ad un pubblico di lettori colti esterni al circuito specialistico e di pubblicare volumi divulgativi di larga diffusione, quanto quello di essere all’avanguardia nei diversi ambiti di studio e di influire e di indirizzare il dibattito internazionale. Di fronte all’attuale crisi economica e finanziaria questo modello ha mostrato, però, delle crepe molto profonde: le Università hanno dovuto tagliare notevolmente i finanziamenti a disposizione delle proprie case editrici e anche il sistema bibliotecario ha dovuto ridurre di molto le proprie acquisizioni, procedendo a ristrutturazioni e ridimensionamenti (ad esempio anche l’immediato successo delle nuove forme di editoria elettronica andrebbe messo in relazione con questa necessità di contenimento dei costi). La conseguenza diretta di queste difficoltà è stata la rapida trasformazione dell’offerta libraria. Sarebbe sufficiente andare a sfogliare i cataloghi più recenti delle principali University Press per notare come sia insorta la necessità di raggiungere un pubblico di lettori diverso e come l’esigenza commerciale sia diventata più stringente: improvvisamente le copertine mostrano un’attenzione alla grafica e al design come mai in passato, i titoli si sforzano di rendere sexy anche gli argomenti più paludati, c’è una sempre maggiore attenzione alle dimensioni e al prezzo di vendita. Ma, aldilà dei maquillage più vistosi e di superficie, c’è soprattutto un mutamento di sostanza. La divulgazione è diventata, non tanto un tema astratto di discussione, ma piuttosto un’improrogabile esigenza di sopravvivenza; vendere più copie è diventata la parola d’ordine che si sente ripetere con sempre maggiore frequenza negli incontri alle fiere di settore. Si sono venute così a creare, all’interno degli editori universitari, due linee di produzioni distinte e differenti; una più tradizionale, indirizzata ai professionisti delle singole discipline, in cui vigono ancora i criteri scientifici di selezione del materiale da pubblicare, ed una nuova in cui questi criteri sono per così dire più laschi, dove si rivolge maggiore attenzione alla qualità della scrittura, alla forza delle tesi esposte, alla capacità di comunicare e di attrarre un lettore colto e curioso. In questa seconda linea, tecnicamente definita come trade, la lontananza e la differenza tra University Press e editori commerciali si è molto ridotta. Se un tempo un autore pubblicava con Oxford University Press la monografia specialistica e con Penguin il volume per il grande pubblico, ora questa distinzione è molto più confusa e incerta, tanto che non è raro trovare curiose sovrapposizioni di temi e collane. Qui la valutazione diviene strettamente editoriale, gli spazi di intervento degli editors più ampi e ai comitati accademici di lettura è riservato uno spazio più di indirizzo generico e, in definitiva, ridotto. Questo, perché è proprio questo genere di testi a garantire la sostenibilità economica di libri dal mercato più ristretto. Paradossalmente, sia detto per inciso, proprio questa trasformazione ha consentito ai volumi delle case editrici di cultura, italiane ed europee, che più si sono incamminate per questo sentiero, di vedersi riconosciuto un interesse, sconosciuto anche soltanto 10 o 5 anni fa. Mentre in passato ad essere tradotte erano soltanto quelle opere a cui veniva attribuita una particolare valenza ed un’eccellenza scientifica, ora capita di ricevere offerte interessanti per testi che occhieggiano al lettore e che si spingono in una direzione più commerciale. In altre parole, quello che è entrato in crisi è il criterio per cui spettava alle istituzioni culturali la selezione e la produzione scientifica più avanzata e alle aziende editoriali private, finalizzate al profitto, il compito di fungere da mediatori, da traduttori, di questa produzione verso l’opinione pubblica. Una frattura, questa, che consentiva con una certa facilità di separare il grano dal loglio, la “scienza” dalla “non-scienza”. Di fronte a tutto questo, gli editori italiani, da Einaudi a Laterza, da Il Mulino a Bollati Boringhieri, da Carocci a Cortina, e così via non si trovano presi alla sprovvista. La mancanza di un mercato captive, a parte quello delle adozioni universitarie, l’assenza di politiche pubbliche di sostegno alla lettura, la scarsità di fondi per le acquisizioni bibliotecarie, oltre naturalmente a forti tradizioni culturali e politiche, ha da sempre costretto a suonare su una tastiera ampia. Pubblicazioni scientifiche e divulgative si sono sempre alternate con regolarità, consentendo una produzione varia e, sia consentito dirlo, mediamente ricca, non al di sotto di quanto avveniva nei paesi a noi più vicini. E questa varietà è un valore che deve essere il più possibile preservato. Che il sistema universitario italiano necessiti di un sistema di valutazione efficiente ed affidabile della propria attività di ricerca, pare del tutto ovvio. Che questo sistema debba passare attraverso la definizione di criteri oggettivi e destinati a premiare merito e impegno, altrettanto difficilmente contestabile. Quello che pare una scorciatoia è che questo sistema non si proponga di giudicare la qualità ovunque essa sia, nel manuale come nell’articolo di rivista, nella monografia specialistica come nell’intervento o nel saggio per il lettore di libreria, ma ricorra ad automatismi tanto astratti quanto facilmente scavalcabili. Sappiamo tutti che troppo spesso nel nostro paese al posizionamento di paletti rigidi e fitti, corrisponde la facilità con cui le reti di relazione clientelari o amicali riescono ad oltrepassarli. La loro unica funzione diventa allora quella di rendere più complesso l’ingresso e la circolazione degli outsiders e degli irregolari. Altrettanto insostenibile, mi pare, è spostare l’onere della prova, ovvero il giudizio sulla qualità “scientifica”, dalla comunità degli studi a quello della produzione editoriale, semplicemente perché non è il suo mestiere. Compito degli editori è, tautologicamente, stampare libri che siano letti, che circolino il più possibile, che formino, che suscitino dibattito e che diffondano idee e opinioni. Se poi questi volumi abbiano una qualità scientifica e siano espressione di un’attività di ricerca di valore, sta proprio alla comunità degli studi decidere. D’altro canto, in anni a noi recenti, si è provato a costituire delle University Press italiane, autogestite dall’accademia e finalizzate a dare visibilità e peso al lavoro scientifico dei singoli atenei. A parte qualche eccezione, il risultato mi pare sia sotto gli occhi di tutti e non proprio dei più entusiasmanti, anche come modello di gestione delle risorse e di ritorni in termini di arricchimento culturale. Mentre assistiamo al sistematico indebolimento del ruolo sociale della cultura nel nostro paese, ad una progressiva perdita di peso del ceto intellettuale e insegnante, pensare di rispondere rafforzando artificialmente le difese dei bastioni accademici, pare semplicemente un segnale di grande debolezza. Intanto i barbari avanzano e conquistano casamatta su casamatta. Abbiamo di fronte una rivoluzione, come quella digitale che stiamo vivendo, che fa saltare ogni organizzazione gerarchica dei contenuti, tende a creare una fruizione orizzontale dei prodotti culturali e sembra cancellare ogni dato considerato acquisito per sempre. Il problema non dovrebbe essere piuttosto quello di quale risposta dare a questa sfida? Come ricostruire il senso delle nostre ricerche nella società in cui siamo? A chi vogliamo parlare e cosa vogliamo dire? La qualità sta tutto in questo. (http://900tempopresente.it/2010/05/17/la-valutazione-delleditoria-un-contributo-di-giovanni-carletti-editori-laterza/ - 17-05-2010)
 
Il CNR valutato da 150 scienziati PDF Stampa E-mail
Si è conclusa la valutazione della rete scientifica del Consiglio nazionale delle ricerche effettuata da un panel di oltre 150 scienziati, dei quali 60 stranieri, presieduto dal prof. Giancarlo Chiarotti dell'Università di Roma "Tor Vergata". Per ciascun Istituto, sono stati esaminati la produzione scientifica, brevettuale, le attività di technology transfer, le infrastrutture materiali e le risorse di personale. La valutazione ha incluso almeno due visite della sede, in alcuni casi tre. È in assoluto la prima volta che i 107 Istituti del Cnr sono sottoposti a uno screening individuale con valutatori terzi e componente internazionale. L'azione dei panel è stata considerata favorevolmente dal personale, che vi ha visto un'occasione per mostrare le proprie potenzialità, all'interno e all'esterno dell'Ente. I risultati ampiamente positivi e gli apprezzamenti, manifestati in particolare dalla componente europea del panel, hanno confermato il livello internazionale del Cnr. La valutazione sarà una base sarà una base di partenza importante per definire le strategie dell'Ente e, riteniamo, un incentivo ai finanziatori (ministeri, regioni, imprese) ad investire nel Cnr. "La valutazione numerica media degli Istituti effettuata dai Panel per le varie aree scientifiche, tecnologiche e culturali è risultata molto buona" scrive il Panel Generale, e particolarmente soddisfacente appare la capacità di attrazione di fondi esterni. Nella Sezione A (Science, Medicine, Engineering, Economics) 49 Istituti su 87 (56%) sono classificati con un punteggio al di sopra o eguale alla media (73/100) e 20 (23%) sono decisamente eccellenti; nella Sezione B (Humanities, Social Sciences, Law), che comprende 20 Istituti, otto hanno riportato un punteggio pari o sopra la media (82/100) e quattro hanno un punteggio di almeno 90/100. Le considerazioni del CdA sulla valutazione e la relazione finale del Panel generale sono disponibili sul sito del Cnr: http://www.cnr.it/sitocnr/IlCNR/Attivita/ValutazioneIstituti.html. Ma il processo di crescita e il completamento della riforma dell'Ente proseguono con la recente nomina, da parte del Ministro Vigilante, di cinque esperti a integrazione del Consiglio di Amministrazione: vi sono ora tutte le condizioni perché il Cnr adempia le previsioni del Decreto Legislativo di riordino. È essenziale a questo punto - dopo che già prime indicazioni sono emerse dagli incontri con i Direttori e dal confronto all'interno degli Organi di vertice, e che molteplici iniziative sono in corso - dare voce a ogni singolo ricercatore, tecnologo, tecnico e amministrativo che lavori al Cnr, nello spirito della Carta Europea del Ricercatore. È mia intenzione coinvolgere la Rete Scientifica, incluso il personale che vi svolge attività tecnico-formative e di supporto, e l'Amministrazione Centrale, in una discussione ampia, franca e costruttiva. L'apporto di idee, suggerimenti e soluzioni del personale è irrinunciabile al fine di operare correzioni che consolidino il Cnr e lo rendano più adatto alle nuove sfide della ricerca. L'opinione di ciascuno è importante e utile. Ho quindi programmato due giornate di incontro, dalle quali potranno emergere una visione di insieme della direzione da intraprendere o comunque delle raccomandazioni da illustrare al CDA e agli Esperti che lo integrano. (L. Mariani, Presidente del Cnr, Almanacco della scienza n.6,  26-05-2010)
 
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