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31 Dicembre
VALUTAZIONE. COME SI TRASFERISCE LA “CULTURA DELLA VALUTAZIONE” NELL’UNIVERSITÀ PDF Stampa E-mail

In realtà la cosiddetta “cultura della valutazione” nasce in ambito aziendale, in risposta alla maggiore complessità delle organizzazioni e per far fronte all’impossibilità di misurare prestazioni multidimensionali. Dal punto di vista delle organizzazioni, il mix di variabili qualitative e quantitative che determina il successo di un prodotto ha reso necessarie strategie atte a perseguire più obiettivi in parallelo. Dal punto di vista delle risorse umane, la prestazione è divenuta più difficilmente misurabile lungo una sola dimensione (ore di lavoro, quantità di prodotto, ecc.) anche a causa della molteplicità di mansioni assegnate a ciascuno. Il controllo multidimensionale difficilmente può essere perseguito attraverso una procedura di valutazione basata semplicemente sulla “misurazione”. Una frequente semplificazione identifica la valutazione con la misurazione, mentre la misurazione è solo uno degli elementi necessari alla valutazione, ne è strumento ma non ne costituisce l’essenza. Per valutazione, invece, si intende normalmente l’avvio di un processo “interno” attraverso il quale:

-           sono stabiliti obiettivi da raggiungere,

-           sono definite politiche coerenti con il raggiungimento di tali obiettivi,

-           è verificata la coerenza dei risultati ottenuti rispetto agli obiettivi prefissati.

Il processo mira principalmente a rendere trasparenti le scelte ed evidenziare gli sforzi per il miglioramento, non semplicemente a misurare, anche se la misurazione è uno strumento del processo. Pertanto, la valutazione non ha come obiettivo principale quello di emettere un giudizio, ma quello di “costringere” organizzazioni e persone al miglioramento continuo. Di conseguenza, la valutazione non impone parametri da raggiungere dall’esterno, ma impone agli individui e alle organizzazioni di darsi degli obiettivi (misurabili) e di fare il possibile per raggiungerli.
Come si trasferisce la “cultura della valutazione” nell’università?
Per quanto riguarda la valutazione delle organizzazioni è opportuno segnalare che sulla didattica qualche esperimento in questo senso è già stato effettuato, ad esempio con il progetto CampusOne, e sembra che l’AVA ripercorra più o meno le impostazioni della valutazione per obiettivi, basata sul trinomio autonomia, responsabilità e valutazione. Per la ricerca, però, abbiamo già fatto la VQR, che segue un modello teorico completamente diverso, con un processo di valutazione basato sulla mera misurazione ed eterodiretto da un organismo esterno alla struttura valutata. E’ evidente che per quanto riguarda la ricerca sono stati impiantati due processi di valutazione diversi nell’approccio e nella funzione e, probabilmente, anche nei risultati. Uno dei due processi risulterà superfluo. I posteri ci diranno quale.
Per quanto riguarda la valutazione delle risorse umane, il modello di valutazione è ancora più confuso. C’è l’abilitazione, che dovrebbe fungere da scrematura iniziale, fortemente basata sulla semplice misurazione di una sola delle attività principali dell’università, ossia la ricerca. C’è poi il concorso locale, che dovrebbe riportare in capo alle organizzazioni la responsabilità delle scelte e dei risultati. Ancora una volta si mescolano il modello di valutazione interna e il modello di mera misurazione, anche se in tempi diversi. Anche qui, però, è probabile che uno dei modelli tenda a prevalere sull’altro. I posteri ci diranno quale.
(Fonte: B. Bruno, roars.it 19-12-2012)

 
ITALIAN SCIENTISTS PROTEST EVALUATIONS PDF Stampa E-mail
The Italian government is attempting to safeguard the quality of the nation’s science by evaluating researchers and institutions, and by rewarding those that meet certain criteria with opportunities for promotion and increased funding. But the move has angered many Italian scientists, who argue that the evaluations rely on flawed metrics that don’t accurately reflect research quality, and will therefore not reward the best scientists. In an effort to root out nepotism in academia, the National Agency for the Evaluation of Universities and Research Institutes (ANVUR) implemented the new review scheme in 2011. Evaluators use three criteria: the number of papers published in the last 10 years, the number of citations accrued, and the “h-index” of those publications—a measure of both output and impact. Only applications that score above the national median on 2 of the 3 criteria can get the stamp of approval required to apply for higher positions. And only the top-ranking universities can expect to receive extra funding. But many scientists argue that the criteria are too crude to identify the true leaders. Some groups—including the Mathematics Union and the Association of Psychologists—have launched official protests. “It's like judging the bottles in a wine contest by the labels only without tasting their content,” Alberto Baccini, a professor of political economics at the University of Siena, told ScienceInsider. Critics say ANVUR methods for gathering bibliometric data are unreliable, and that even if they are calculated correctly, the data aren’t always a measure of research quality. Some lab leaders are listed as co-authors on dozens of papers for which they did very little work, for example, but ANVUR’s system will reward them with high scores. On the other hand, younger but more creative researcher may struggle to make the grade. The ANVUR president Stefano Fantoni told ScienceInsider that the criteria will only be used as a guide, and that committees can still give the green light to researchers who fail to meet the minimum requirements. But the rules are not clearly stated, critics hold.
(Fonte: Dan Cossins, the-scientist.com 17-12-2012)
 
UNIVERSITÀ. CHE COSA FARE SECONDO CONFINDUSTRIA PDF Stampa E-mail
Spendiamo ogni anno 9,4 miliardi di euro per le baby pensioni, mentre per il finanziamento delle università solo (poco meno di) 7 miliardi. È evidente che l'Italia non investe sul futuro. I giovani oggi non hanno più fiducia nelle università, sebbene nel nostro Paese vi siano numerosi atenei eccellenti e in grado di competere con le migliori università europee. Secondo l'ultima indagine Ocse, condotta sugli studenti di scuola secondaria, solo il 41% dei quindicenni italiani ha intenzione di proseguire gli studi universitari mentre in Corea del Sud sono oltre l'80%. Abbiamo fatto proliferare «università condominiali» in tutto il Paese e abbiamo progressivamente disinvestito sulla qualità dell'università, rendendo sempre più difficile ai nostri migliori atenei competere ad armi pari nello scenario internazionale. Mentre negli Usa quando nasce un figlio si accende un mutuo per finanziare il college, da noi l'università è nell'immaginario collettivo una spesa pubblica improduttiva, per non dire assistenzialismo a basso costo. La differenza tra il costo per lo Stato di uno studente universitario (da 7 a 15 mila euro) e le basse rette italiane (che non superano di norma i 1500 euro) è paradossalmente a carico delle famiglie a basso reddito. È indispensabile aumentare le tasse universitarie per le famiglie più ricche, destinando una parte delle maggiori entrate a un tondo per finanziare la mobilità degli studenti, sia in altre università italiane sia all'estero. Ma non basta. Noi spendiamo per il diritto allo studio uno scandaloso 0,12% del Pii, mentre la media Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) è dello 0,25%, il doppio. L'idea di un'università come «turris eburnea», chiusa alla contaminazione con la società e il sistema economico è definitivamente crollata. Oggi l'università funziona se crea competenze. Serve dunque professionalizzare le lauree triennali, prevedendo in determinati settori tecnico-scientifici di svolgere il terzo anno in apprendistato in impresa, attivare i nuovi dottorati industriali, diffondere i percorsi di alternanza. La poca fiducia e il disorientamento verso l'università saranno la poca fiducia e il disorientamento verso la società che vogliamo costruire. È una questione cruciale, che va risolta. L'università può svolgere un ruolo prezioso per la rinascita italiana, ma bisogna dare a rettori intraprendenti e docenti aperti le regole giuste per giocare ad armi pari in uno scenario che si è fatto globale.
(Fonte: I. Lo Bello, Vicepresidente per l'Education di Confindustria, Corsera 14-12-2012)
 
UNIVERSITÀ. CHE COSA FARE SECONDO IL PD PDF Stampa E-mail
Il PD vuole contrastare la destrutturazione del sistema universitario pubblico, a partire dalla difesa del diritto allo studio, pilastro dell'istruzione universitaria. Bisogna, in particolare, contrastare la riduzione delle immatricolazioni. Pur scontando differenze tra gli Atenei e negli Atenei, va comunque assicurato un livello minimo comune il più alto possibile, consentendo agli studenti di scegliere l'offerta formativa e culturale più adatta a loro. In questa direzione è necessario anche intervenire sulla tassazione universitaria, che non deve aumentare ma che, se possibile, deve essere diminuita. Ugualmente si deve intervenire sulle distorsioni prodotte da molte università telematiche che determinano l'abbassamento della qualità del titolo universitario. Per quanto riguarda la docenza occorre un aggiornamento a partire dalle posizioni assunte durante l'approvazione della legge Gelmini: contratto unico pre-ruolo, e ruolo della docenza con articolazioni interne. Analogamente, per quanto riguarda la governance, che ha visto il PD condividere l'apertura dei CdA al territorio, occorre valutare con urgenza gli esiti di queste scelte e superare gli elementi di accentramento e di verticismo ministeriale. Per il diritto allo studio si deve affiancare al sistema regionale quello nazionale, mentre bisogna prendere atto che il fondo per il merito è un esperimento fallito. Occorre introdurre un’effettiva progressività nella tassazione che, facendo salvi i redditi medi e bassi, faccia maggiormente contribuire i redditi alti così da impegnare maggiori risorse nel diritto allo studio. E' inoltre necessario semplificare la legislazione universitaria.
(Fonte: M. Meloni, responsabile università e ricerca del PD, 12-12-2012)
 
UNIVERSITÀ PERDUTA. C’ERA UNA VOLTA … PDF Stampa E-mail

Tanti anni fa mi iscrissi a Lettere. Fu un’avventura emozionante: si andava a lezione, per ascoltare i maestri, con la devozione di un comunicando. C’erano anche allora, certo, come oggi, docenti inadeguati o pigri o tromboni. E c’erano i privilegi baronali contro cui il Sessantotto giustamente si scatenò, ottenendo però solo di sostituire una generazione di baroni con i baronetti della successiva. Ma la cultura, le discipline, il pensiero, i classici erano come circonfusi di un’aura sacrale, la stessa che quattro secoli prima induceva Machiavelli a indossare abiti curiali prima di metter mano e prestare orecchio ai grandi del passato. E i professori meritavano comunque un rispetto che era frutto di gratitudine e di disponibilità all’ascolto: tutti, pure i professori di liceo, anch’essi a quel tempo protagonisti della vita pubblica e della cultura cittadina. Con lo stesso entusiasmo aspiravo alla mitica carriera universitaria e, un anno dopo la laurea, la intrapresi. Si trattava di scegliere un mestiere che consisteva nel dedicarsi con altrettanta passione all’insegnamento e alla ricerca, a coinvolgere aule gremite tentando di trasmettere non solo nozioni e metodi ma valori (quelle astrazioni con la maiuscola come verità bellezza libertà giustizia cui mi ostino nonostante tutto a credere) e a coltivare nello stesso tempo l’etica della ricerca, quella curiosità conoscitiva e quel pungolo intellettuale che il rigore, lo scrupolo, la dedizione consolidano, affinano, offrono in forma di documentate analisi e originali contributi alla comunità degli studiosi.
L’apprendistato di noi giovani assistenti godeva inoltre di un’altra preziosa risorsa: la quotidiana vicinanza o meglio l’amicizia che ci legava e che favoriva lo scambio intellettuale, l’ininterrotta conversazione in cui – tra una facezia e un ragguaglio – fermentavano idee. Anni felici, anni perduti. Non ci accorgevamo, mentre discutevamo di Bergman o di Berlinguer, di Boiardo o di Baggio, che l’edificio intorno a noi stava lentamente franando, sì che quando saremmo diventati a nostra volta docenti ci saremmo trovati con stupore in un altro edificio, tanto diverso e lontano da quello in cui ci illudevamo di abitare. In questa università di oggi che – in un paese che non investe nell’istruzione perché non crede nel futuro e perciò non ha futuro – ha sbarrato le porte a due o tre generazioni di giovani brillanti e meritevoli, tutti esclusi per mancanza di reclutamento. E così il cuore e il senso dell’Accademia, ossia la trasmissione di saperi da maestro ad allievo, la “scuola” che intorno a un docente appassionato riunisce collaboratori e discepoli che aspirano ad avvicendarglisi in quella missione, si son persi nel vano balbettio di un reparto geriatrico, in cui combattenti e reduci dai cinquanta ai settanta altercano tra loro.
(Fonte: F. Coniglione, roars.it 15-12-2012)

 
UNIVERSITÀ. DALLA DEQUALIFICAZIONE ALLA VALUTAZIONE PDF Stampa E-mail
La sempre maggiore dequalificazione delle strutture formative ha via via reso meno affidabile il criterio di selezione delle qualità, in un’applicazione perversa della democratizzazione e della possibilità di accesso all’istruzione, che si è tradotta in un sempre maggior abbassamento degli standard qualitativi. Ciò è stato favorito dalla decisione assunta dai governi di definanziare il settore pubblico dell’istruzione e invece di incoraggiare quello privato. Nel frattempo si sono anche deteriorati i meccanismi di cooptazione e di promozione dei talenti all’interno delle università, anche a seguito di evidenti fenomeni di malcostume (in sintonia con un generale degrado morale della società italiana e però esagerati da una campagna di stampa martellante fatta di dati falsi o distorti) e di una gestione delle carriere e dello sviluppo della ricerca che ha conosciuto negli ultimi anni un evidente peggioramento a seguito di riforme e interventi legislativi che hanno sottoposto il mondo universitario a una serie di shock successivi, da cui ancora fatica a riprendersi. Per rimediare a tutto ciò e per competere nell’economia della conoscenza, sviluppando le ricerche in campo tecnologico e scientifico, si è pensato allora che fosse necessario dotarsi di strumenti in grado di valutarne la qualità e di conseguenza anche le possibilità d’impatto economico. Mettendo in piedi una farraginosa e complicata macchina, quale quella predisposta dall’ANVUR per la VQR e l’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN), si vogliono in sostanza fornire indicatori facilmente intellegibili, in modo da spostare l’onere di decidere le allocazioni dei finanziamenti dalla comunità scientifica ai decisori politici. Ciò ha allettato molti ricercatori che si sono fatti strumenti docili e disponibili al servizio di questa strategia, sedotti dalla possibilità di divenire leader di un processo di rinnovamento che porterà dei vantaggi ai gruppi disciplinari o ai settori di cui essi sono principalmente espressione.
(Fonte: F. Coniglione, roars.it 19-12-2012)
 
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