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16 Luglio
IL TASSO DI AUTONOMIA FINANZIARIA PRO CAPITE DELLE UNIVERSITÀ PDF Stampa E-mail

Gran parte delle entrate dei bilanci degli atenei italiani proviene dal Fondo di Finanziamento Ordinario, erogato direttamente dal Ministero per L’università e la Ricerca. Oltre al Fondo di finanziamento ordinario, che rappresenta la forma primaria di sussistenza degli atenei italiani, altrettanto importante e rilevante è il Fondo statale per il finanziamento delle università. Accanto alle due forme di finanziamento pubblico, gli atenei trovano le risorse per il loro funzionamento nelle entrate proprie, che comprendono le tasse pagate dallo studente per ogni genere di corso accademico. Versamenti che quindi sono strettamente legati al numero degli iscritti all’università, che tuttavia vengono rilevati per anno accademico, a differenza delle entrate che sono misurate per anno solare. Profondamente legato all’entità delle risorse che gli atenei ricevono ogni anno dagli studenti attraverso rette e contributi, è il tasso di autonomia finanziaria pro capite delle università. Livello di indipendenza economica per ogni studente = Entrate proprie: Popolazione studentesca. Si riportano i dati esemplificativi di alcuni atenei relativi all’indicatore di autonomia contributiva pro capite nel 2009:

Università di Roma La Sapienza: 2422,88 euro

Università di Bologna: 2716,12

Università di Roma Tor Vergata: 5916,20

Università di Bari: 2742,81

Università di Palermo: 1092,29

Università della Basilicata: 7061,30

Università di Foggia: 4498,29

Università di Messina: 996,81

Possiamo osservare come l’Università La Sapienza riceva dallo Stato più del doppio di quanto ottiene da tasse e contributi pagati dagli studenti. L’Università di Bari registra una dipendenza finanziaria dallo Stato che supera di 2.000 euro pro capite la sua autonomia finanziaria. Molto accentuato il rapporto dell’Università di Palermo con i fondi pubblici, che pur essendo piuttosto bassi in termini assoluti, si avvicinano a un livello di quattro volte superiore rispetto ai contributi ricevuti da ogni studente. Ma l’esempio più clamoroso di tale squilibrio è offerto dall’Ateneo di Messina, che dipende dai fondi statali per un valore di 7,5 volte superiore alla propria autonomia finanziaria.
È ragionevole chiedersi se l’intero flusso di denaro proveniente dall’Erario a favore di atenei dotati di scarsa autonomia finanziaria sia davvero indispensabile per rispondere alle esigenze formative e di ricerca. E se non sia doverosa un’opera di radicale riduzione di finanziamenti pubblici così sproporzionati ai contributi e alle tasse versati dagli studenti. Se il legame di dipendenza finanziaria dallo Stato è condiviso da quasi tutti gli atenei, non mancano università capaci di rivelare un assoluto equilibrio tra le due voci, o addirittura un grado di autonomia economica in attivo rispetto agli stanziamenti pubblici. L’Università della Basilicata presenta un’indipendenza contributiva di 7.061,30 euro a fronte di 6.381,59 euro di dipendenza economica. L’Università Tor Vergata di Roma vanta un’autonomia contributiva per studente di 5.916,20 euro, rispetto a 4.506,28 euro pro capite di dipendenza economica dall’Erario. E l’Università di Foggia, uno degli istituti più recenti visto che la sua creazione risale all’agosto 1999, può godere di un’indipendenza finanziaria di 4.498,29 euro a fronte di 6.125,91 euro di trasferimenti economici dallo Stato.
(Fonte: “Le fonti di finanziamento dell’Università italiana. Un’analisi comparativa tra similitudini e diversità”, a cura di D. Leogrande e V. C. De Nicolò, link 26-06-2012)

 
RIDUZIONE DEI FINANZIAMENTI. COME SI ATTREZZANO GLI ATENEI PDF Stampa E-mail
«Le risorse provenienti dal Ffo (Fondo Finanziamento Ordinario) sono diminuite del 10% in 4 anni, come nella media nazionale - precisa Mario Morganti, prorettore dell’Università Roma 3 - e per farvi fronte abbiamo razionalizzato le spese di funzionamento, facendo specifici accordi con i fornitori di servizi, mentre è stata lasciata intatta l’offerta formativa, basata su 64 corsi». Sul taglio dei costi di funzionamento ha puntato anche l’Università di Padova, come assicura il suo rettore Giuseppe Zaccaria, ma insieme ad altre misure: «Abbiamo aumentato i proventi esterni, tanto che ormai il finanziamento pubblico rappresenta solo il 60% dell’intero budget, e per non peggiorare la qualità dei corsi (178 oggi) e dei servizi agli studenti, non abbiamo ridotto le tasse universitarie, come invece richiede una legge del 1997, che stabilisce che il loro gettito non può superare il 20% del contributo pubblico, ma, d’altronde, con la riduzione nel corso degli anni delle risorse provenienti dal Ffo era impossibile mantenere tale soglia, tanto che oggi è da noi al 28%». Pure l’Università di Palermo ha puntato sulla crescita delle fonti esterne di finanziamento, come spiega il prorettore Vito Ferro: «Dai soli 2 progetti finanziati dal 7° programma quadro dell’Ue nel 2008, siamo arrivati nel 2012 a 23 progetti, ed anche a questa circostanza si deve l’incremento della nostra quota premiale del Ffo». L’Università di Palermo ha poi ridotto il corpo docente, che è passato da 2.500 unità a 1.900, attraverso meccanismi di pensionamento, anche anticipato, con il risultato di ridurre i corsi da 179 a 125. L’università di Ferrara si è mossa nella stessa direzione, come conferma il rettore Pasquale Nappi: «Le spese dell’ateneo si sono ridotte grazie ad una limitazione al 50% del turnover, a cui si aggiunge una vera e propria spending review, che ha riguardato pure i compensi dei componenti degli organi dell’ateneo, tanto che oggi un membro del Cda riceve un gettone di presenza di poco più di 100 euro». La situazione per l’Università di Ferrara si è poi recentemente complicata per il sisma dell’Emilia, che ha causato danni per circa 20 milioni di euro, un quarto del bilancio annuale. «Per superare questa situazione — aggiunge Nappi — chiederemo risorse al programma di ricostruzione governativo, e nel frattempo abbiamo esentato dalle tasse gli studenti colpiti dal terremoto».
(Fonte: M. Di Pace, La Repubblica 01-07-2012)
 
IMMATRICOLAZIONI, LAUREATI E ABBANDONI PDF Stampa E-mail
Le immatricolazioni presso le università italiane sono le più basse d'Europa, così come il numero di laureati. Altissima la percentuale di abbandoni. Secondo la più recente ricerca sull'argomento, condotta dall'Eurostat, i laureati in Italia, nella fascia d'età tra i 30 e i 34 sarebbero, nel 2011, soltanto il 20,3 %.  Molto più alta la media europea: 34,6%. I dati italiani non migliorano se messi a paragone con quelli dei paesi economicamente più avanzati:  in Germania i trentenni laureati sono il 30,7% del totale, in Spagna il 40,6%, in Francia il 43,4%, in Gran Bretagna il 45,8%. L'obiettivo per il 2020 è il 40% a livello Ue. Ma l'Italia data la posizione di partenza non riuscirà a raggiungere l'obiettivo. Secondo l'XI rapporto del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario con riferimento alla quota percentuale di spesa pubblica destinata all’istruzione universitaria, i valori percentuali più elevati si registrano per la Norvegia (5,3%), la Nuova Zelanda (5,2%), il Canada (4,5%) e la Danimarca (4,5%). Nelle ultime posizioni, subito prima dell’Italia, si collocano il Giappone (1,7%) ed il Regno Unito (2,0%).
(Fonte 27-06-2012)
 
INTRODURRE LA FORMAZIONE TECNICA UNIVERSITARIA SUL MODELLO DELLE SCUOLE UNIVERSITARIE PROFESSIONALI TEDESCHE PDF Stampa E-mail

Per stimolare gli investimenti in istruzione bisogna spingere i giovani a lavorare e studiare allo stesso tempo. Per fare questo bisognerebbe introdurre in Italia la formazione tecnica universitaria sul modello delle scuole universitarie professionali tedesche tedesche (Fachhochschulen). Ciascuna università, anche sede periferica, in accordo con un certo numero di imprese locali, potrebbe introdurre un corso di laurea triennale caratterizzato da una presenza simultanea in impresa e in ateneo. Metà dei crediti verrebbe acquisito in aula e metà in azienda. Il lavoratore sarebbe impiegato in azienda e seguito da un tutor. Con controlli reciproci fra università e impresa sulla qualità della formazione conferita al lavoratore che ridurrebbero fortemente il rischio di abuso. I grandi atenei potrebbero organizzare una decina di questi corsi con un bacino di circa 800 studenti per ateneo, pari a 80 studenti per anno in ciascun corso di specializzazione. I piccoli atenei difficilmente ne organizzeranno più di due o tre ciascuno. In questo modo si potrebbe arrivare ad avere ogni anno 12-15mila nuovi giovani occupati. A regime, su tre anni, la riforma potrebbe portare i giovani occupati e impegnati in lauree brevi di specializzazione intorno alle 50mila unità, un numero significativo, data la dimensione delle coorti di ingresso nel mercato del lavoro.
Le due riforme di cui sopra sono a costo zero per le casse dello Stato. La terza avrebbe costi limitati. Potrebbe impegnare i fondi strutturali inutilizzati mettendo a disposizione fino a 150 milioni per il decollo di nuove iniziative imprenditoriali soprattutto nelle aree più svantaggiate del paese. Mediante un accordo con le banche, potrebbe selezionare 1.000 progetti imprenditoriali da sostenere attivando credito fino a quattro o cinque volte questa cifra.
La fase di selezione dei progetti comporterebbe il finanziamento di uno stage all'estero (o in regioni con un forte tessuto imprenditoriale e buone università) in cui perfezionare il proprio business plan per 5.000 aspiranti imprenditori. I soldi verrebbero dati ai giovani, ma servirebbero di fatto come garanzia per i prestiti bancari. Sarebbe un modo anche per spingere le banche a spostare la loro attenzione dai clienti consolidati e spesso non più in grado di generare valore aggiunto a chi ha idee e la forza ed entusiasmo per portarle avanti.
(Fonte: T. Boeri, La Repubblica 04-07-2012)

 
RACCORDARE LA PREPARAZIONE DEGLI STUDENTI AL CORSO DI LAUREA CHE SCEGLIERANNO APPLICANDO L’ARTICOLO 6 DEL D.M. 270/2004 PDF Stampa E-mail

Gli studenti che si iscrivono ai vari corsi di laurea degli atenei italiani provengono da esperienze formative diverse, e hanno preparazioni iniziali diverse. Perciò numerosissimi studenti si trovano nella necessità di recuperare lacune formative che in molti casi sono profonde. Gli atenei dovrebbero creare un raccordo virtuoso con gli istituti di istruzione secondaria. Qui per raccordo virtuoso si intende un rapporto tra le due istituzioni che permetta agli studenti di accordare la loro preparazione al corso di laurea che sceglieranno. L’articolo 6 del D.M. 270/2004 affronta questo problema. Cosa dice esattamente l’art. 6? (I) In primo luogo, l’art. 6 stabilisce che i regolamenti didattici di ateneo devono definire preventivamente il corpus delle conoscenze richieste per l’accesso ai singoli corsi di studio. Ad esempio, allo studente che intende iscriversi al corso di laurea in ingegneria l’ateneo deve dire quali sono le conoscenze di cui deve già essere in possesso. (II) In secondo luogo, l’ateneo deve verificare se lo studente sia in possesso delle conoscenze richieste per l’accesso, attraverso una prova iniziale di verifica. È chiaro che il contenuto della prova iniziale deve essere adattato al corso di laurea a cui lo studente si è iscritto. Non sarebbe saggio prevedere che la stessa prova iniziale venga assegnata a chi si iscrive a lingue e a chi si iscrive a ingegneria.
(III) In terzo luogo, l’art. 6 stabilisce che, se l’esito della prova iniziale non è positivo, gli atenei devono prevedere specifici obblighi formativi aggiuntivi da soddisfare nel primo anno di corso. Questo è un punto molto importante per l’applicazione dell’art. 6. Occorre distinguere tra i due aspetti che formano un’applicazione accorta dell’art. 6 (e in particolare proprio dalla predisposizione di obblighi formativi aggiuntivi).
Il primo aspetto si qualifica per l’effetto virtuoso retroattivo che verrebbe ad avere: quello di spronare gli studenti delle scuole secondarie superiori ad accordare la loro preparazione al corso di laurea che sceglieranno. Si tratta evidentemente di un passo importante verso la soluzione del problema posto in premessa. Il secondo aspetto è che se vogliamo evitare di applicare l’art. 6 in modo che sia un modo surrettizio per ripristinare il numero chiuso anche per corsi di laurea che non sono ad accesso programmato, gli obblighi formativi aggiuntivi devono essere configurati in modo da evitare che l’esito negativo della prova iniziale venga interpretato come un marchio indelebile, una distinzione irreversibile tra chi è bravo e chi non lo è.
(Fonte: F. De Biase, roars 04-07-2012)

 
STUDENTI STRANIERI IN ITALIA PDF Stampa E-mail
Le sedi più ambite dagli studenti stranieri sono l’Università di Bologna, seguita dal Politecnico di Milano, l’Università di Firenze, l’Università Milano Bicocca ed il Politecnico di Torino. Tra le destinazioni artistiche la più ambita è l’Accademia delle Belle Arti di Roma, seguita dalle Belle Arti di Brera, e quella di Firenze. Nell’anno 2009/2010 gli studenti provenienti dal Far East sono il 7,4% degli stranieri iscritti alle nostre facoltà, prima di loro solo gli albanesi con il 20,2%. Seguono i romeni con il 6,8% e i greci con il 5,8%. A primeggiare tra le facoltà preferite dagli stranieri studenti in Italia è Economia con 10.842 iscritti e il 18,2% del totale. Seguono Medicina e Chirurgia con 8.191 iscritti (13,8%) e Ingegneria con 8.155 iscritti (13,7%). In fondo alla classifica ci sono le facoltà di Scienze Motorie (0,2%), Statistica (0,3%) e Scienze della Comunicazione (0,6%). A fine anni Novanta la quota di stranieri nelle nostre facoltà non superava l’1,6% della popolazione universitaria, oggi la percentuale è almeno raddoppiata.
(Fonte: La Repubblica 02-07-2012)
 
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