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30 Gennaio
SUL VALORE LEGALE DELLA LAUREA PDF Stampa E-mail

Già al Meeting di Comunione e Liberazione del 2003 davanti al Ministro Moratti, l’economista della Margherita, Enrico Letta, aveva esplicitamente menzionato l’abolizione del valore legale della laurea come possibile soluzione alle difficoltà incontrate dagli atenei di fronte alla “massificazione” dell’università. A sostegno di tale proposta interveniva l’allora Presidente della Compagnia delle opere Vittadini e, di lì a poco, il professore di economia internazionale Cantoni su Panorama. In Italia, da sempre, si è a caccia del cosiddetto “pezzo di carta”, anche se poi, tutti sanno, che è più la raccomandazione a contare e poco valore hanno i titoli di studio. Già Luigi Einaudi aveva espresso dubbi sul “valore legale” della laurea, giudicandolo, nel suo saggio “Sul monopolio culturale della scuola di stato”, una maniera per uniformare, di fatto, gli insegnamenti in tutte le scuole ai programmi decisi dallo Stato, pregiudicando alla radice ogni enunciazione di libertà d’insegnamento. Insomma, diceva Einaudi, affermare che tutte le lauree, ovunque prese, hanno lo stesso valore è un falso concettuale, poiché il valore dipende dalla valentia e dalla qualità degli atenei. E ora, più di mezzo secolo dopo, fra le altre questioni, il governo affronta anche quella del “valore legale della laurea”, perché dotare le imprese e il mondo del lavoro in generale di strumenti migliori per valutare un candidato all’assunzione, favorisce la produttività e la crescita, valorizzando il merito piuttosto che il titolo. E lo fa studiando il dossier sulle lauree, con due diverse ipotesi forti di riforma. La prima consiste nel determinare il valore unicamente dalla reputazione degli atenei: insomma un 110 e lode preso in un’università più facile, meno buona, non può valere un 100 che è costato più fatica presso un ateneo più difficile e migliore sotto ogni punto di vista. La seconda, meno drastica e più arzigogolata, prevede l’eliminazione del voto di laurea dal calcolo del punteggio nei concorsi pubblici, in modo da non favorire chi si laurea in una pessima università a svantaggio di chi ha faticato in un centro di eccellenza.
In generale l’idea appare ottima, sia nella prima (migliore) che nella seconda (peggiore) versione, ma vi è, come al solito, qualche recondito pericolo da considerare.
L’applicazione del nuovo orientamento potrebbe realizzare nuove diseguaglianze, con un “federalismo” universitario dove le maggiori risorse fossero destinate ai migliori atenei; con inoltre un meccanismo sperequativo tra i cittadini, cioè tra chi può permettersi università migliori e tutti gli altri.
Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 26 novembre 2005, proponendo di abolire il valore legale della laurea, sosteneva che tale “rivoluzione”, potrebbe far sì che non sia più necessario il possesso di un titolo di laurea per la candidatura a un concorso della pubblica amministrazione, né per l’esercizio di una libera professione. Come scrisse allora su IBS Focus Diego Menegon, il vero problema, ieri come oggi, è la difficoltà di valutare l’offerta di università, in genere pubbliche e di incentivare queste ultime a migliorarsi.
Già nel 2003, il braccio di ferro tra il ministro Moratti e i docenti, nonché il reinserimento all’ordine del giorno dei temi della ricerca e dell’università, hanno acceso il dibattito. Sempre nel 2005, il 21 e 25 giugno, Roberto Perotti e Daniela Marchesi scrissero due articoli sul Sole 24 Ore in cui tracciavano un quadro dei mali dell’università italiana, per poi esprimere scetticismo in merito alle soluzioni proposte dal ministero. Oggi le cose non sono cambiate. Un problema centrale, ad esempio, s’incentra sull’individuazione del criterio che di fatto orienta gli studenti nella scelta. Sono molti, infatti, coloro i quali mirano a laurearsi presto e con un punteggio alto per superare in giovane età un concorso alla Pubblica Amministrazione, il quale richiede solitamente altro rispetto a quanto acquisito durante i corsi di laurea. Circa poi i costi e la sperequazione evidente fra cittadini, già la Bocconi aveva proposto una possibile soluzione. Cioè l’elargizione di borse e la copertura totale o parziale degli oneri mediante voucher. O, altrimenti, fondazioni e imprese si prodighino per scommettere sulle giovani promesse e finanziare i loro studi nei paesi anglosassoni.
Lo scorso 25 maggio, il direttore Education di Confindustria, Claudio Gentili, ascoltato dalla commissione Cultura del Senato, ebbe modo di dire: “Nelle intenzioni del legislatore, il valore legale del titolo di studio doveva essere un ‘marchio di qualità’ concesso dallo Stato alle università”, che avrebbero dovuto “garantire ai cittadini la qualità della formazione universitaria”. “I cittadini – continuava Gentili – che si servono di professionisti, le imprese e il settore pubblico che assumono laureati sarebbero stati così garantiti sulla qualità delle competenze di quelle persone in base a curricula certificati”. Ma, sempre secondo lui, “il vero limite del valore legale sta nel suo uso formalistico che spesso ha ottenuto risultati opposti a quelli desiderati”. Sicché: “Abrogare il valore legale potrebbe significare – liberalizzare la formazione universitaria, lasciando che chiunque possa istituire una ‘università’ e che il mercato faccia da regolatore del valore, sostanziale e non formale, dei titoli rilasciati”.
Furono e sono contrari all’idea di nuovo accarezzata dal governo, alcuni sindacati e diverse associazioni di docenti, studenti e ricercatori universitari ed anche gli ordini professionali manifestano forti perplessità.
A parte ciò, come si ricordava nel 2008, quando un decreto legge dell’allora governo tentò, inutilmente, di abolire il valore legale della laurea, per fare questo non serve abrogare nessuna disposizione di legge, ma adottare una disciplina semplice e senza costi.  Con una graduatoria di atenei riconosciuta, comprendente anche atenei stranieri, si possono bandire concorsi fatti per “pesar”’ in maniera diversa le lauree secondo il ranking dell’università di provenienza dei candidati. Certo, distorsioni e aggiramenti saranno sempre possibili. Ad esempio si potrebbe stabilire una differenza di punteggio molto ridotta tra la prima e l’ultima università del ranking, in modo che la posizione in classifica non condizioni eccessivamente l’esito del concorso. Ma, per il fatto che in taluni casi possano essere banditi concorsi dolosamente “aggiustati”, peraltro facilmente individuabili, dobbiamo rinunciare a questo strumento? Senza contare che, a seguito dell’abolizione del valore legale, s’innescherebbe automaticamente una concorrenza virtuosa che riguarderebbe ogni aspetto saliente del sistema formativo universitario. Il ranking determinerebbe l’ammontare delle risorse di ciascun ateneo, sia quelle provenienti dal Ffo, e dovrebbe cominciare ad accadere già con il nuovo decreto legge, sia quelle provenienti dagli studenti. Per non scendere, o per risalire nel ranking, le università dovrebbero cooptare ricercatori e docenti preparati, scartando i “figli di” o gli “amici di”. L’amministrazione potrebbe cominciare a selezionare effettivamente i migliori a beneficio delle sue performance, e così via.  Pertanto, io credo, l’eliminazione del valore legale della laurea non presenta alcun serio problema tecnico né alcun costo. C’è solo un ostacolo ma formidabile, ed è, al solito, di natura politica.
(Fonte: C. Di Stanislao, www.improntalaquila.org 24-01-2012)

 
LA PROSPETTIVA DELLA CADUTA DEL VINCOLO DEL TIPO DI LAUREA NEI CONCORSI PUBBLICI PDF Stampa E-mail

Venerdì prossimo, in Consiglio dei Ministri, confronto sul tema della laurea: il suo valore legale, il peso che ha nei concorsi pubblici. Sullo sfondo, la proposta di un diverso criterio di accreditamento dei singoli atenei: ovvero il peso specifico che potrà avere il prestigio accademico di un'università (quindi anche i suoi criteri selettivi) rispetto ad altre. Stando alle indiscrezioni, nelle cartelle del governo sarebbe pronto per la discussione un provvedimento con molte novità.
Primo: nei concorsi pubblici, soprattutto per i quadri dirigenziali, dovrebbe cadere il vincolo del tipo di laurea. Basterà un titolo per partecipare. Ci saranno le doverose eccezioni «tecniche» (nel caso in cui occorra una competenza specifica, per esempio, da ingegnere). Però conteranno maggiormente la capacità e la professionalità dimostrata dal candidato durante il concorso. In sostanza, per diventare dirigente di una Asl poco importerà se ho una laurea in Giurisprudenza o in Lettere, sarà decisivo il mio risultato personale nel concorso. L'articolo 9 del Dl prevede: «Nei casi in cui non sia intervenuta una disciplina di livello comunitario, all'equiparazione dei titoli di studio e professionali provvede il Dipartimento della funzione pubblica, sentito il ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Con eguale procedura si stabilisce l'equivalenza tra i titoli accademici e di servizio rilevanti ai fini dell'ammissione al concorso e della nomina». Innovando così la normativa del 2001 che affida tale compito a un decreto del presidente del Consiglio. Né a Palazzo Vidoni né al Miur confermano che si tratti di una prima spallata al valore legale del titolo di studio. Certo la novità non sarebbe di poco conto. Anziché un Dpcm, che deve comunque passare per il Consiglio dei Ministri, potrebbe bastare un decreto interministeriale a stabilire quale peso dare ai titoli di studio in questo o quel concorso.
Secondo: revisione del criterio legato al voto di laurea, che dovrebbe sparire come elemento di punteggio.
Terzo: diverso accreditamento, cioè «apprezzamento», delle singole università, che smetteranno di essere di fatto tutte uguali.
In Confindustria si fa sapere che «non si può non essere d'accordo» con una mossa che «va sicuramente nella direzione di una vera liberalizzazione». Ma si rileva anche come si debba proteggere il «consumatore di formazione» (lo studente, la sua famiglia) circa la qualità del prodotto che si sceglie. Ovvero aiutare quel «consumatore» a capire quale sia l'ateneo giusto. O se, addirittura, certi atenei siano da evitare. Naturalmente nel settore privato la laurea in sé ha un peso specifico diverso rispetto al settore pubblico. La Confindustria da sempre guarda con favore alla prospettiva di un maggior rigore nella selezione degli atenei e a un’autentica concorrenza tra i migliori. E ripone molta fiducia nel lavoro dell'ANVUR, l'Agenzia nazionale di valutazione del Sistema universitario e della ricerca.
Dice Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli: «Nel settore privato non cambierà molto. E' del tutto ovvio che un capo del personale di una qualsiasi azienda assuma valutando i pro e i contro delle caratteristiche dei candidati, indipendentemente dalla laurea e dal suo stesso punteggio. Detto questo, se davvero il Consiglio dei Ministri varasse un provvedimento del genere, si stabilirebbe un principio sacrosanto anche per la pubblica amministrazione. Cioè la possibilità di accedere per le competenze acquisite dalla singola persona e non solo in base al famoso "pezzo di carta". Mi sembra molto giusta la prospettiva di rimuovere, per esempio, il blocco del tipo laurea per accedere alle professioni della pubblica amministrazione».
(Fonti: P. Conti, Corsera 22-01-2012; Eu. B., IlSole24Ore 24-01-2012)

 
LA LAUREA POTREBBE PERDERE PESO NEI CONCORSI PUBBLICI PDF Stampa E-mail
L'idea, che potrebbe tramutarsi in un decreto nel prossimo Consiglio dei Ministri, è quella di modificare gli accessi ai concorsi pubblici. Per esempio, non sarebbe più vincolante la laurea in una determinata materia ma potrebbero essere alternative altre lauree o, addirittura, esperienze cumulate nel settore. E un discorso che vale in modo particolare per i quadri dirigenziali dove avranno un peso maggiore le capacità dimostrate dal candidato che non gli attestati riguardanti la formazione. E un primo passo verso l'abolizione del valore legale della laurea, progetto già accarezzato dall'ex ministro dell'Istruzione, Gelmini, e che ora il governo potrebbe portare a casa. Altro punto all'ordine del giorno riguarda la revisione del concetto legato al voto di laurea che dovrebbe perdere valore come base di punteggio per i concorsi pubblici. Come la laurea specifica che dovrebbe tramontare (con l'eccezione di professioni particolari quali medico o ingegnere etc.) anche il voto conseguito con la tesi dovrebbe perdere incidenza. Resta sullo sfondo la proposta di un diverso criterio di accreditamento degli atenei. E innegabile che un 30 preso in una facoltà di un'università molto severa ha un peso diverso da un 30 strappato in un ateneo meno esigente. Ma chi stabilisce il peso specifico di un diploma in base alle caratteristiche dell'ateneo dove si è conseguito? Esiste già l'ANVUR, Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca. Il governo, e in modo specifico il ministro Profumo, punterebbero a potenziare l'agenzia, premendo sul pedale del merito a tutto campo. Le lodi, alla fine, non saranno tutte uguali e la laurea con il massimo dei voti avrà peso specifico diverso secondo l’università che l'ha certificata. E chiaro che si tratta di una rivoluzione per quanto concerne l'ingresso nel pubblico attraverso i concorsi.
(Fonte: QN 23-01-2012)
 
UNA PROPOSTA DI “AFFIEVOLIMENTO” DEL VALORE LEGALE DELLA LAUREA PDF Stampa E-mail
E’ necessario un intervento per eliminare subito alcuni aspetti perversi del valore legale del titolo di studio, in base ad un solido principio: la laurea ovunque conseguita costituisca un titolo di accesso, ma ogni altro aspetto di merito sia accertato con un esame a ciascun candidato per accertare ciò che sa e che sa fare in relazione alla posizione che andrebbe a ricoprire. La competizione tra le università scatta veramente e funziona positivamente solo quando si verifica attentamente e si premia la bravura dei rispettivi laureati nel mondo del lavoro, non quando si approntano tabelle in base a complicati e largamente arbitrari parametri quantitativi generali. Inoltre, una volta garantite eguali opportunità di partenza mediante un solido e ampio sistema di diritto allo studio, la valutazione del merito personale dei laureati è l’unico vero motore dell’ascensore sociale. In concreto si dovrebbe abolire ogni valutazione automatica dei voti universitari, troppo diversi da sede a sede. Si dovrebbe ampliare il ventaglio dei titoli equivalenti che danno accesso a un concorso pubblico affinché non se instaurino vere e proprie riserve corporative a favore di quello o quell’altro tipo di laurea. Si dovrebbe stabilire che nessuna progressione di carriera nella pubblica amministrazione può dipendere esclusivamente dal possesso di una laurea quale che sia. Sono interventi di cui si parla da molto tempo: una proposta di “affievolimento” del valore legale è contenuta in un documento della Conferenza dei Rettori del 1995; le classi di equivalenza del valore legale di lauree differenti sono contenute nel decreto ministeriale del 1999 che ha introdotto la nuova architettura europea degli studi universitari, il cosiddetto 3+2. E sono proprio gli interventi di cui il ministro Profumo ha fornito anticipazioni. (Fonte: L. Modica; Europa 26-01-2012)
 
VALORE LEGALE DELLA LAUREA. PROPOSTE IN DISCUSSIONE PDF Stampa E-mail
Il valore legale del titolo di studio fa sì che ogni laurea conferita da una qualsiasi delle ottanta università italiane abbia lo stesso peso nel mercato degli impieghi pubblici. Così gli atenei hanno scarsi incentivi a scegliere docenti preparati; i laureati bravi sono intercettati dal settore privato; le risorse delle famiglie premiano i servizi formativi scadenti. Problemi che si potrebbero superare se l'amministrazione pubblica valutasse le lauree sulla base di un ranking delle università di provenienza dei candidati. Come vorrebbe una proposta in discussione nel governo. Nel governo Monti si sta discutendo una riforma dell’università che potrebbe avere effetti assai più rilevanti di tutte quelle succedutesi negli ultimi venti anni. Quattro sarebbero le questioni in discussione: - eliminazione del vincolo del tipo di studio per l’accesso ai concorsi pubblici; - eliminazione del valore del voto di laurea nei concorsi pubblici; - valutazione differenziata della laurea a seconda della qualità della facoltà/università di provenienza; - eliminazione o riduzione del peso della laurea nei concorsi pubblici.
(Fonte: P. Manzini, lavoce.info 27-01-2012)
 
RESTITUIRE UN VALORE REALE, DI MERCATO, ALLE LAUREE PDF Stampa E-mail
Attualmente le lauree non hanno nessun effettivo valore economico e culturale, quindi abolirne il valore legale è la premessa necessaria per restituire un valore reale, di mercato, alle lauree. La strada maestra da percorrere è quella della riforma radicale: l’abolizione tout court del valore legale del titolo di studio, per creare un nuovo sistema di accreditamento e di certificazioni a livello nazionali dei percorsi formativi; un sistema di garanzie completamente diverso da quelle attuali, fuori dalla scuola e dall’università. Questa è la proposta della galassia radicale contenuta in un appello di prestigiosi docenti universitari, indirizzato al Parlamento. In questo modo si aprirebbe la strada ad una pluralità di agenzie di accreditamento e di certificazione della qualità e delle competenze delle nostre università, agenzie dotate di professionalità necessaria ad una valutazione effettiva, mentre con il sistema vigente fondato sul valore legale, qualsiasi istituto universitario una volta acquisito il timbro burocratico del “valore legale”, non deve più darsi eccessiva pena per formare le future generazioni. La formazione è “garantita dal pezzo di carta” Altri benefici si avrebbero grazie ad un circolo virtuoso di informazioni, che permetterebbe soprattutto alle famiglie con meno risorse e scarsa informazione di scegliere, con i propri figli le università migliori, non vivendo sulla falsa illusione che tutte le università sono uguali. Non è un caso che oggi chi ha risorse economiche e conoscenze giuste decida di studiare all’estero. Abolendo l’uguaglianza formale del titolo universitario preso in qualsiasi università italiana, si farebbe emergere la reale differenza nell’offerta didattica fra i diversi istituti universitari. In questo modo si incentiverebbero gli studenti a frequentare le università migliori e nel contempo si incentiverebbero i professori a formare gli studenti migliori.
(Fonte: AGENPARL 27-01-2012)
 
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