MAESTRI E ALLIEVI. RICERCATORI. BUROCRATIZZAZIONE. VALUTAZIONE |
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L'istituzione universitaria deve ritrovare la propria arché nella relazione maestro-allievo. Tra i rapporti interumani è forse il più misterioso perché fondato su una sottile dialettica tra fedeltà e tradimento. Il maestro coinvolge nelle sua ricerca l'allievo e gli consegna un'eredità di metodi e di saperi, ma poi a un certo punto l'allievo va oltre quel lascito e cerca nuove strade. Da qui scaturisce la crescita della conoscenza. Aver indebolito questo processo chiudendo le porte ad un'intera generazione di giovani ricercatori è la causa principale della crisi. Diversi campi del sapere rischiano la sterilità perché ormai da troppo tempo i maestri non possono coltivare nuove generazioni di studiosi. Per molti di questi il tradimento non è più un atto conoscitivo, ma è diventato una fuga dal paese. La condizione dei ricercatori non è uno dei tanti problemi, ma è la questione centrale da cui ripensare l'avvenire dell'università italiana. Il riformismo di destra e di sinistra dell'ultimo decennio ha dimenticato la natura istituzionale dell'università. Ne sono venute non solo politiche sbagliate ma perfino una cattiva agenda dei problemi. Tutta l'attenzione è stata concentrata sui mezzi è si persa la cura dei fini. Sono state scritte migliaia di norme che hanno messo in sofferenza la ricerca e la didattica senza risolvere alcun problema. Gli atenei sono stati risucchiati nelle angustie ministeriali proprio mentre dovevano aprirsi al mondo globalizzato. Bisogna capovolgere l'agenda delle riforme: basta con le leggi che burocratizzano gli atenei, occorrono politiche per la ricerca, per la formazione e per l'apertura internazionale. La burocrazia accademica è diventato l'apparato più rigido dell'intero Stato italiano. Rimango convinto che la gran parte di queste norme potrebbero essere sostituite da una buona valutazione della ricerca e della didattica. Se ne parla da dieci anni, ma ogni ministro ha preferito fare leggi sulla valutazione piuttosto che praticarla davvero. Arriviamo molto in ritardo rispetto ad altri paesi e rischiamo di sbagliare con l'ingenuità dei neofiti. Non può essere ridotto tutto alla bibliometria, rimane decisiva la peer review. Perfino i fisici, che sanno come la misura possa perturbare significativamente il fenomeno osservato, quando passano a gestire le politiche universitarie dimenticano talvolta il principio di Heisenberg. Nessuna differenza virtuosa è stata prodotta dalle continue riforme del decennio passato, le vere innovazioni sono piante rare cresciute su isolotti non sommersi dall’alluvione normativa. Perfino in Europa, dopo tanta enfasi sulla competizione, le analisi più avvedute registrano una crescente omologazione dei modelli universitari. Le famose classifiche internazionali sono state interpretate male. Certo, non si trova nessun ateneo italiano ai vertici mondiali, ma ottengono piazzamenti dignitosi molti nostri atenei di buon livello. Questi dovrebbero lavorare insieme per poter affrontare l’apertura verso il mondo. Le reti di università dovrebbero essere la specificità italiana da sviluppare, non solo con la competizione, ma anche con la cooperazione a diverse scale: come Paese per migliorare l’attrattività internazionale di studenti, ricercatori e investimenti; a livello regionale per integrare l’offerta ed evitare stupide sovrapposizioni; nel Mezzogiorno per realizzare una piattaforma di conoscenza rivolta all’area mediterranea. La valutazione dovrebbe essere posta al servizio di queste ed altre politiche di cooperazione, per scegliere le risorse migliori da integrare, per approfondire le diverse vocazioni, per differenziare l’offerta della ricerca e della didattica. (Fonte: V. Tocci, Risposte a sei domande sull’università, www.menodizero.eu 09-12-2011). |
RICERCA. IDEE PER IL FUTURO DELL'ITALIA. L'AGENZIA ITALIANA PER LA RICERCA SCIENTIFICA |
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«Nonostante le pressioni per i piani di austerità, investire nella ricerca ora potrebbe dare enormi benefici. Senza una struttura adeguata della ricerca si va incontro a un futuro oscuro», prevede Nature. Monito condiviso da Silvio Garattini, direttore dell'Istituto Mario Negri e tra i fondatori del Gruppo 2003: «La priorità è aumentare le risorse per evitare il sottosviluppo - dice Garattini a Corriere Economia -. Noi abbiamo suggerito di creare l'Agenzia italiana per la ricerca scientifica, che dovrà raccogliere le risorse e utilizzarle in modo razionale con un ruolo diverso dall'ANVUR (Agenzia per la valutazione dell'università e della ricerca), che valuta il merito, chi ha fatto cosa e come, mentre la nuova entità deve assegnare fondi su base competitiva. La Francia di fronte alla crisi ha messo in gioco 39 miliardi di euro per la ricerca». L'Italia destina alla ricerca meno di altri Paesi dell'Unione Europea: nel 2010 gli stanziamenti pubblici per la ricerca scientifica sono stati 8.314,7 milioni di euro, lo 0,54% del Pil, secondo il Notiziario statistico del MIUR che confronta l'Italia con il resto della UE sulla base del GBAORD (Government Budget Appropriations or Outlays for Research and Development), l'indicatore che misura le intenzioni di spesa per la ricerca in rapporto al Pil. Nel 2009, ultimo anno in cui sono disponibili i dati completi, l'Italia ha stanziato 163 euro per abitante, 12 euro meno della media UE. «L'emergenza economica non deve distogliere l'attenzione da ciò che determina la crescita nel medio periodo. E per un Paese avanzato come l'Italia, la ricerca è tra le determinanti più importanti dello sviluppo», osserva Guido Tabellini, rettore dell'Università Bocconi. Il governo deve intervenire presto finanziando almeno le aree che possono essere un volano per la ripresa. «Sono misure fattibili in tempi brevi - dice Alberto Mantovani, direttore scientifico di Humanitas e docente dell'Università degli Studi di Milano, presidente del Gruppo 2003 -. Primo: evitare ulteriori tagli. Secondo: erogare le risorse in modo affidabile senza distribuzioni a pioggia. Terzo: avere la valutazione dei pari, peer review, da parte di valutatori internazionali o comunque competenti, per la trasparenza nelle scelte. Quarto: togliere inutili vincoli». (Fonte: V. Vestrucci, Corsera 12-12-2011) |
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AL CONCORSO NELLO STESSO ATENEO È AMMESSO IL CONIUGE MA NON IL FIGLIO |
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Alberto Sordi alla domanda "perché non ti sposi?" avrebbe risposto tra il serio e il faceto: «E ché, me metto un'estranea in casa!?». Qualche anno più tardi una legge nostrana ha sancito tale principio di estraneità tra marito e moglie. La recente "riforma universitaria Gelmini", dettando norme sui concorsi, stabilisce che non ci si possa presentare a essi se in rapporto di parentela fino al quarto grado con il Rettore o comunque con un qualunque esponente di primo piano dell'Università che ha bandito il concorso. Come dire che adesso la moralità si fa per legge! Pochi hanno però notato che la norma esclude quanti sono uniti da "contratto" coniugale, ovvero rispettivamente i mariti delle mogli e le mogli dei mariti. In altri termini, un figlio del Rettore non può presentarsi al concorso, mentre la moglie sì. Oltre la puntualità giuridica della norma, la sostanza appare ridondante o ridicola. È ridondante nella misura in cui la pretesa di imporre la moralità attraverso le barriere legali si infrange su uno dei "mose" più comuni della parentopoli accademica: proprio il rapporto di coniugio, che, insieme a quello padre/figli, ha riempito le cronache nel corso degli anni, schiumando veleni e fango su tutta l'università italiana e facendo di ogni erba un fascio. È ridicolo perché nella sua palese contraddittorietà etica e giuridica, banalizza una vicenda vera, mostrandone la gravità, ma insieme l'inutilità del metodo scelto per risolverlo. Una nota di colore burocratico: in nome dell'autonomia universitaria qualche Università, nel suo Regolamento d'Ateneo, ha interdetto il rapporto di coniugio al pari di quello di parentela. Elementare tentativo di porre, costituzionalmente, sullo stesso piano tutti i protagonisti del format scandalistico delle parentopoli universitarie. Il ministero dell'Università ha censurato lo "scostamento" dalla legge, sterilizzando un problema, forse posto in modo discutibile, ma di certo esistente. L'Università ha resistito alla censura e ha emanato il Regolamento. E ora? Se avesse avuto ragione Sordi sarebbe nel giusto il ministero. Purtroppo, oltre la dialettica burocratica, la realtà ci dice che il problema esiste e, con buona pace di tutti, non Io risolve l'interdizione giuridica, ma la coscienza morale. Non è comunque questione di rispetto della legge, ma di piacere dell'etica: questione né ridondante, né ridicola. (Fonte: G. Puglisi, Sette 15-12-2011) |
STATUTI E NUOVA GOVERNANCE DEGLI ATENEI |
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La legge 240/2010 ha previsto che le università provvedano a «modificare i propri statuti in materia di organizzazione e di organi di governo dell'ateneo secondo princıpi di semplificazione, efficienza, efficacia, trasparenza dell'attività amministrativa e accessibilità delle informazioni». Con la fine di ottobre si è conclusa la prima fase attuativa di questo processo di riforma, che potrà determinare una radicale trasformazione della governance delle università e delle modalità di organizzazione e gestione delle attività didattiche e di ricerca. Pur essendo ancora presto per un'analisi approfondita e comparativamente attendibile delle diverse opzioni statutarie (al momento all'esame del Ministero), può essere tuttavia utile una prima riflessione sulle prospettive della "nuova" governance delle università. (Fonte: A. Amendola, www.menodizero.eu 09-12-2011). Testo integrale dell’articolo. Un commento all’articolo (Michele Riva 18-12-2011): Insegno negli USA in un'università statale. Mi stupisce come l'analisi della governance delle università USA venga sommariamente archiviata con un "un modello [...] del tutto distante, tuttavia, sia dalla tradizione antica e consolidata dell'università italiana", atteggiamento peraltro ampiamente diffuso nella pubblicistica italiana. Se la governance sembra "top down", ci sono correttivi formidabili "bottom up", derivanti dal fatto che un terzo o più dei budget viene generato direttamente dai docenti. Invece, le università pubbliche USA, che compaiono regolarmente nei primi posti di tutte le classifiche mondiali di università, dove le università italiane sono regolarmente assenti, potrebbero dare una quantità enorme di indicazioni (su governance ed altro) molto pratiche, applicabilissime, e molto necessarie alla cura dei problemi apparentemente irrisolvibili dell'università italiana. |
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