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27 Dicembre
ORDINI PROFESSIONALI. NECESSARIA UNA DISCIPLINA DI TRANSIZIONE IN CASO DI MANCATA EMANAZIONE DEL REGOLAMENTO DI RIFORMA PDF Stampa E-mail
Manovra Monti. Il decreto 201/2011 tra le materie tratta della riforma delle professioni all'articolo 33: se entro il 13 agosto 2012 il governo non avrà riscritto i singoli ordinamenti professionali, adeguandoli ai principi indicati nella manovra di fine estate, le norme attuali saranno, infatti, considerate immediatamente decadute. Se quindi la legge di stabilità aveva previsto l'abrogazione dei vecchi ordinamenti al momento dell'entrata in vigore dei decreti di riforma, considerando di fatto come ordinatorio il termine di dodici mesi, il governo Monti sceglie la strada della perentorietà. Strada da valutare attentamente, secondo la commissione affari costituzionali che invita il governo a valutare se in caso di mancata emanazione del regolamento di riforma, non fosse necessaria una disciplina di transizione relativa alle funzioni attualmente svolte dagli ordini professionali, le quali hanno anche in diversi casi un rilievo pubblicistico. Ma non solo, perché il parlamento si sofferma anche sul rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definite. L'articolo in questione, infatti, incide sulla materia delle professioni che il comma terzo dell'articolo 117 attribuisce alla competenza concorrente di Stato e Regioni. In particolare, si legge nello studio della Commissione, «si interviene sulla delegificazione degli ordinamenti professionali prevista dalle legge di stabilità per stabilire che, a prescindere dall'effettiva emanazione del regolamento di delegificazione, alla data del 13 agosto 2012 saranno abrogate tutte le disposizioni vigenti sugli ordinamenti professionali. Inoltre, la disposizione richiede che la riforma degli ordinamenti professionali limiti a 18 mesi la durata massima del tirocinio, intervenendo su uno dei principi di delegificazione». In sostanza lo studio segnala che l'attribuzione «di potestà regolamentare allo stato in una materia di competenza concorrente quale quella delle professioni (effettuata come si è detto dalla legge di stabilità e sulla quale la norma in esame incide in maniera parziale), deve essere valutata alla luce del riparto costituzionale di competenze tra stato e regioni». Nelle materie di competenza concorrente spetta, infatti, alla legislazione dello stato la determinazione dei principi fondamentali, mentre la potestà regolamentare è riservata alle regioni (art. 117, secondo e sesto comma, Cost.).
(Fonte: B. Pacelli, ItaliaOggi 09-12-2011)
 
INVECE DI LIBERALIZZARE L’ACCESSO ALLE PROFESSIONI MEGLIO FRENARE L’ACCESSO ALL’UNIVERSITÀ IN MANIERA PIÙ INCISIVA PDF Stampa E-mail
I richiami della Comunità Europea all’Italia sul sistema universitario, iniziati tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ‘80, non erano dovuti al numero di laureati in assoluto, quanto allo scollamento tra accesso indiscriminato all’università e reale raggiungimento della laurea. Sulla base di questi richiami, l’Italia, negli ultimi 20 anni, attraverso apposite riforme ha inserito il numero chiuso basato su test a risposta multipla (che non risulta essere il miglior metodo per individuare i più meritevoli), ma in parallelo ha moltiplicato gli istituti universitari, introdotto la laurea intermedia, cioè triennale, senza valore legale all’estero, e ha promosso offerte formative allettanti, volte non tanto ad accrescere il prestigio dell’Ateneo e della formazione Universitaria, quanto a far ottenere, salvo eccezioni, facili lauree. E’ a questo proposito da menzionare anche, tra le “mirabolanti” riforme, quella che ha legato i finanziamenti universitari ai risultati, cioè al numero dei promossi e dei laureati finali, determinando il “tutti promossi, tutti laureati, in buona parte impreparati al mondo del lavoro”, e, aggiungo io, “ precari e incavolati”. Tutto ciò dovrebbe far pensare, più che alla liberalizzazione nell’accesso alle professioni, all’esigenza di frenare l’accesso all’università in maniera più incisiva, così come avviene negli altri paesi, oltre alla ineludibile riforma delle competenze professionali. Si tenga infatti conto che i differenti campi di attività delle professioni tecniche, in Italia sono ancora fermi a Regi Decreti della metà degli anni ’20 del secolo scorso, determinando competenze analoghe tra figure professionali che, per formazione e capacità, dovrebbero essere inconciliabili. Se nel 1968, nel 1977, nel 1990, nel 2003 e nel 2010 (le “mitiche” rivolte universitarie che ricordo), invece di chiedere l’università per tutti, e quindi di bassa qualità, si fosse richiesta una università che prepara veramente al mondo del lavoro, con corsi che insegnano il mestiere, e quindi a progettare con le norme caotiche che caratterizzano la professione, unitamente ai vincoli economici e di fattibilità, oggi probabilmente ci sarebbero solo 10 facoltà, a numero chiuso, un solo un corso di laurea in architettura, pochi e selezionati professori, per merito, così come pochi studenti. Avremmo molti meno Architetti, sicuramente molto più preparati e rispettati nel mondo del lavoro, sarebbe più facile superare l’esame di stato, e sentiremmo meno la crisi. Dal momento che però questo è il mondo dei sogni, allo stato dei fatti penso che non ci sia più nulla da fare, perché l’università di massa genera un tale volano economico (che è una notevole quota parte del PIL) che si autoalimenta, e se ne “impippa” del futuro dei giovani e dell’Italia; con questo andazzo siamo destinati ad essere fagocitati dai paesi emergenti, e contro questa battaglia legale tra nazioni, noi avremmo bisogno di pochi laureati preparatissimi, non migliaia di laureati che non sanno far nulla. Allora si che gli ordini professionali e l’esame di stato sarebbero forse un controsenso e da eliminare.
(Fonte: A. F. Ceccarelli, www.leggioggi.it/ 09-12-2011)
 
SOCIETA’ PROFESSIONALI PDF Stampa E-mail
Le misure di liberalizzazione creano opportunità per gli stessi professionisti, ma vanno applicate a tutti (si parla di rado dei notai, categoria a numero chiuso). Finalmente l'articolo 10 della legge di stabilità dà il via alle società professionali, strumento essenziale per svolgere l'attività in modo moderno. Le società tra avvocati (stp) introdotte nel 2001 sono rimaste inutilizzate perché le regole erano troppo rigide. Ma anche la nuova legge rischia di avere scarso impatto senza chiarimenti e integrazioni. Che ne sarà delle associazioni professionali, finora unica rudimentale forma organizzativa: se ne potranno costituire di nuove e con quali regole (nome, membri, responsabilità) visto che la legge del 1939 è stata (finalmente) abrogata? Probabilmente dovrebbero essere assimilate alle società semplici: chi vuole soltanto dividere le spese può fare un contratto senza rilevanza esterna o una società di mezzi. Poi bisogna far funzionare le società in nome collettivo, chiarendone le regole fiscali. Come disse l'Agenzia delle Entrate per le stp, si tratta di reddito professionale, quindi va tassato per cassa visto che l'oggetto esclusivo è la professione. Tuttavia, perché le società decollino, la responsabilità dei soci non può estendersi agli errori professionali degli altri soci, come invece vorrebbe la contro-riforma introdotta in Senato nel disegno di legge sull'ordinamento forense. Le società di capitali (almeno le srl) sono ammesse quasi ovunque in Europa: bene quindi averle permesse anche qui, ma bisogna chiarire se essendo professionali si applicano le regole fiscali (tassazione per cassa e trasparenza?) e il regime previdenziale delle società di persone. L'ingresso di capitali esterni nelle società professionali può aiutare soprattutto le piccole realtà a finanziarsi, ma è ammesso solo in Spagna (entro il 25%) e in Inghilterra, e con articolate tutele per l'indipendenza dell'attività professionale. L'indipendenza dell'avvocato è un cardine dello stato di diritto. Il nostro articolo 10 invece non pone limiti: i soci esterni potrebbero anche controllare la società e l'attività professionale. Questo è un salto nel buio, non strettamente richiesto dalla Ue e crea grandi resistenze. Vista l'urgenza di attuare senza intoppi le riforme essenziali è saggio per ora limitare l'ingresso di capitali esterni, al più a investimenti di minoranza e senza diritti di voto e rappresentanza.
(Fonte: Repubblica Affari e Finanza 12-12-2011)
 
IL CONSIGLIO UNIVERSITARIO NAZIONALE DOPO LA RIFORMA GELMINI PDF Stampa E-mail
In più contesti ricorre ormai il tema di una riforma, o riformulazione che dir si voglia, del Consiglio Universitario Nazionale (CUN). L’approvazione prima e l’attuazione lenta e farraginosa poi della Legge 240 (più nota come Riforma Gelmini) comportano un nuovo scenario normativo e politico del sistema universitario italiano, in cui si inserisce anche il CUN con i suoi ruoli e funzioni. Esemplifica bene questo cambiamento di funzioni la sottrazione al CUN della competenza sul collegio di disciplina, demandata adesso con la Riforma Gelmini ai singoli atenei. Il collegio del CUN, composto da professori di prima e seconda fascia e da ricercatori, ha svolto e svolge ancora di fatto, nelle more dell’attuazione della legge Gelmini, la funzione giudicante sulle vertenze disciplinari riguardanti professori e ricercatori. Sia la fase istruttoria che la presentazione del giudizio hanno carattere collegiale e vedono ciascun componente coinvolto a prescindere dal ruolo o fascia di appartenenza. Si tratta di una modalità operativa che vede pari doveri e poteri tra professori e ricercatori valorizzando quindi, come ragionevole, rispetto ai ruoli ricoperti, l’esperienza dei singoli docenti relativa al sistema universitario. Tale competenza, una volta sottratta al CUN, aprirà diversi scenari, come la differenziazione delle istruttorie e dei giudizi tra sede e sede, la perdita della collegialità, e soprattutto una minore indipendenza e un aumento dei conflitti di interesse nella formulazione dei giudizi. Infatti, mentre adesso i giudicati sono molto lontani dai componenti del collegio giudicante, in futuro giudicati e giudicanti saranno colleghi di sede. Tale scenario riduce la distanza fra giudicante e giudicato, distanza che dà maggiori garanzie di indipendenza al giudizio tutto e la cui riduzione configura un cambiamento peggiorativo. Un altro cambiamento peggiorativo apportato dalla L. 240/2010 riguarda la definizione di «criteri e parametri differenziati per funzioni e per area disciplinare» ai fini del conseguimento dell’abilitazione. Tali parametri, infatti, saranno individuati dallo stesso Ministero senza consultare in merito il CUN (che pure in passato era già stato incaricato della definizione di «standard minimi di qualità necessari per un ottimale svolgimento delle procedure concorsuali», e di definire standard utili «per determinare il grado di qualificazione dei proponenti dei progetti di ricerca di interesse nazionale»). Una materia estremamente interna alle singole discipline, pertanto, verrà sottratta all’ambito di competenze del CUN configurando un’estromissione delle comunità accademiche, con tutte le loro competenze, dall’elaborazione di criteri di selezione e riproduzione delle stesse comunità scientifiche. Al di là di questi esempi specifici, nella Legge 240/2010 sono poi contenute norme ed intersezioni di norme per cui il ruolo fondante di consulenza e proposta  del CUN viene notevolmente ridimensionato e il più delle volte limitato a puro parere consultivo. Si sancisce poi una sempre maggiore affermazione della prassi per cui su alcuni temi, in cui la richiesta del parere CUN avrebbe costituito un supporto migliorativo alle azioni ministeriali, ci si riferisce invece ad altri soggetti, non elettivi, ma di nomina ministeriale. Alla luce di questi cambiamenti, è necessario perciò chiedersi quale potrà essere il vantaggio che l’università e il Ministero potranno trarre dall’esautorazione di un organo collegiale tecnico e di natura elettiva che rappresenta nel modo più ampio e completo l’università.
Il valore specifico del CUN risiede nella funzione di raccordo del sistema universitario nazionale garantita dalla verifica dei regolamenti didattici di ateneo, rispetto ai quali il CUN esprime dei veri e propri giudizi di accreditamento dei corsi di studio. Ad oggi le singole università, per poter inserire nella propria offerta formativa dei nuovi corsi di studio, devono ottenere una sorta di validazione dal CUN. Il CUN vaglia e valida questi corsi alla luce della normativa di riferimento in particolare quella sulle “classi” di appartenenza dei corsi di studio, affrontando un processo di studio e istruttoria complesso che richiede competenze trans-disciplinari. Un altro compito fondamentale svolto dal CUN riguarda il tema della valutazione ai fini del reclutamento dei docenti. In quest’ambito il CUN definisce i settori concorsuali che costituiscono la base delle procedure di reclutamento stesse. Quest’azione del CUN, organo centrale che lavora però in stretto contato con le comunità scientifiche, è critica e vitale per regolare progressioni, ambiti e prerogative dei docenti e dei ricercatori universitari prevenendo e disinnescando potenziali e più laceranti conflitti in sede locale, dove più facilmente una visione e valutazione attente ad esigenze ed obiettivi complessivi potrebbe essere distratta da interessi particolari.
(Fonte: A. Pezzella, menodizero 09-12-2011)
 
INDEBOLITA L’AZIONE E LA CAPACITÀ INNOVATIVA DEGLI ATENEI PDF Stampa E-mail
L’università italiana vive da dieci anni una situazione sempre più difficile: una cronica carenza di finanziamenti, soprattutto per le infrastrutture e per la ricerca; un carico contributivo sulle famiglie degli studenti tra i maggiori in Europa; un drastico ridimensionamento numerico del personale docente e tecnico. Sono tutti fattori che hanno indebolito l’azione e la capacità innovativa degli atenei italiani. Ma ancor più li ha indeboliti il furioso attacco mediatico alla credibilità del sistema che, anche se giustamente motivato da gravi episodi di malcostume da estirpare con decisione, ha finito col travolgere la fiducia nell’intera università. Questa fiducia deve essere assolutamente ristabilita. È un obiettivo per il quale ci sono tutti i presupposti. Infatti la ricerca universitaria italiana dà ancora oggi risultati eccellenti su scala internazionale, soprattutto se rapportati all’esiguità dei finanziamenti e del numero di ricercatori. La formazione degli studenti, pur in presenza di problemi infrastrutturali e organizzativi, è di ottimo livello se comparata con gli standard europei. Il ruolo culturale, economico e sociale di ciascun ateneo nel suo territorio è in costante crescita e permette di recuperare importanti spazi di sviluppo. La dedizione al lavoro del personale universitario è, salvo eccezioni, ammirevole nonostante che cominci a diffondersi scoramento. Si tratta di un patrimonio nazionale che va difeso e rafforzato, non svilito e disperso. Non c’è del resto alcuna speranza di sviluppo duraturo per un paese che non “ama” la sua università. È giusto che le chieda sempre i massimi risultati e la massima trasparenza, ma anche che ne riconosca il ruolo cruciale. Servono dunque chiare discontinuità rispetto al recente passato. In questo momento di crisi non sarà facile reperire risorse finanziarie che compensino i pesanti tagli già subiti o addirittura riportino il finanziamento a crescere gradualmente verso le medie europee. I segnali di inversione di rotta, forse limitati in termini finanziari, devono però essere forti in termini politici. Si ridia innanzitutto più autonomia e meno burocrazia agli atenei e contemporaneamente si punti ad una valutazione stringente della qualità dei risultati ottenuti, senza sconti e senza ritardi. La si smetta con l’esasperato centralismo dirigistico, col delirio dei prerequisiti numerici, con la confusione dei ruoli negli organi di governo e di controllo del sistema.
(Fonte: Lettera di L. Modica al ministro Profumo, www.europaquotidiano.it 09-12-2011)
 
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