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27 Dicembre
STUDENTI. INDAGINI COMPARATIVE IN EUROPA PDF Stampa E-mail
Studiare all'università costa. E agli studenti fuori sede costa ancora di più. Due miliardi di euro per l'istruzione accademica. A tanto ammonta nel complesso la somma che le famiglie italiane sono costrette a spendere per tasse e contributi richiesti dalle università statali e non. Solo nel 2009, sempre considerando l'indagine del ministero, le famiglie hanno contribuito al finanziamento delle università statali con oltre 1,6 miliardi di euro, una spesa cresciuta del 20% tra il 2005 e il 2009 e l'incremento ancora maggiore si riscontra nelle università non statali (circa il 41%) alle quali sempre nello stesso anno preso in considerazione le famiglie hanno versato oltre 500 milioni di euro. Ancora nel 2009, la spesa media pro capite degli studenti per iscrizione e frequenza ai corsi nelle università statali è stata di circa 910 euro, il 5,2% in più del 2008; gli studenti delle università non statali hanno invece pagato mediamente 3.591 euro, poco più dell'anno precedente. In Italia circa quattro studenti universitari su dieci studiano e lavorano. A dirlo i risultati dell'indagine comparata Europea «Eurostudent IV- Social and Economie conditions of student life in Europe» a confronto con i Risultati della Sesta Indagine Eurostudent sulle condizioni di Vita e di studio degli universitari italiani, presentata dalla Fondazione Rui, insieme ad alcuni dati della sesta indagine Eurostudent sulle condizioni di vita e di studio degli studenti universitari italiani. Insomma gli studenti italiani sono dei lavoratori anche se rispetto agli anni `90 il lavoro studentesco appare oggi meno diffuso, quando rappresentava la maggioranza assoluta della popolazione studentesca europea. Nel nostro paese il 24% dei giovani, terminata la scuola, decide di posticipare l'iscrizione all'università per cominciare subito a lavorare. Una percentuale che, se si considera il totale degli studenti lavoratori, si alza fino al 39%, un dato in linea con la media continentale del 40%. Nel nostro paese, il 13% degli studenti sono entrati in università dopo almeno due anni dalla maturità. In Europa l'interruzione momentanea degli studi è diffusa soprattutto nel nord: in Danimarca è pari al 38%, in Irlanda al 34%, in Finlandia al 28% e in Norvegia al 24%. Nell'Europa meridionale, invece, coloro che riprendono gli studi dopo almeno due anni sono pari al 2% in Croazia, 3% in Francia e 4% in Spagna. I più alti tassi di iscrizione senza interruzione si registrano in Croazia, Lituania e Repubblica Ceca, con una percentuale del 90%. All'estero, gli studenti nella fascia 25-29 anni che vivono fuori dalla famiglia di origine e che hanno già partner o figli (o entrambi) vanno dal 47% della Svezia al 30% della Slovenia. In Italia, secondo la ricerca lo stesso grado di autonomia si raggiunge solo dopo i 30 anni, con un 60% di studenti indipendenti dalla famiglia.
(Fonte: ItaliaOggi 12-12-2011)
 
TASSE STUDENTI. MEGLIO UN TETTO MASSIMO ALLE SINGOLE TASSE PDF Stampa E-mail
La regola dice che la quota di contributo in tasse degli studenti non deve superare il 20% del finanziamento complessivo che va all’ateneo dalle casse del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo).  L’ateneo di Pavia ha «incassato» troppo e ora, dice il Tar, deve restituire i soldi agli studenti. Una sentenza che, se estesa ai molti atenei italiani che sforano il parametro, implicherebbe un costo enorme, insostenibile per un sistema, quello dell’istruzione, dove i soldi ultimamente non abbondano. IlSussidiario.net ne ha parlato con Giuseppe Giovanelli, direttore amministrativo dell’ateneo. Direttore, la sentenza del Tar rischia di provocare una serie di ricorsi a catena tra gli atenei italiani non in regola. “La sentenza vale per il caso di Pavia, non ha una valenza di ordine generale. Ha però il merito di mettere in evidenza che ci troviamo di fronte ad una norma risalente ad un contesto ben preciso, quello degli anni novanta, distante anni luce dalla situazione attuale”.  
Che cosa intende dire? “Oggi la situazione è molto diversa, perché l’intervento dello Stato sì è di molto ridotto. E gli atenei hanno necessità di trovare modalità di finanziamento alternative. Vent’anni fa i finanziamenti crescevano di anno in anno, ora è il contrario: il denominatore da anni è andato diminuendo, e il rapporto è aumentato”. Se guardiamo l’elenco degli atenei che hanno sfondato il tetto previsto dal parametro, ci accorgiamo che sono quasi tutti atenei del nord. Come lo spiega? “Molte di queste università sono sotto finanziate dal ministero rispetto alla media nazionale. Porto l’esempio di Bergamo. Ha una media pro capite per studente di tasse universitarie pari a 836 euro, il 27% in meno della media nazionale di 1.100 euro. Nonostante questo sfora il tetto, ed è tra quelle che lo superano di più: questo dice molto, a mio avviso, dell’incapacità del parametro di fotografare la situazione”. In altri termini? “Il paradosso è che l’ateneo di Bergamo, una delle università con le tasse più basse, sfora un parametro concepito per ridurre le tasse a carico degli studenti! Ma i nostri maggiori introiti sono dovuti all’aumento degli studenti, raddoppiato negli ultimi dieci anni, non all’aumento del singolo importo delle tasse. Le nostre tasse hanno finanziato i servizi. In altri termini, abbiamo avuto uno sviluppo «superiore» a quello del finanziamento dello Stato”. Come andrebbe riformato il sistema di finanziamento? “Se l’obiettivo è quello di mettere un limite alle tasse universitarie, lo si deve eventualmente fare definendo tetti massimi all’importo delle tasse singole, non creando un rapporto tra introito totale per tasse e finanziamento dello Stato. Il parametro del 20% è troppo anacronistico e come tale andrebbe eliminato. Poi c’è l’altro fronte: quello del finanziamento statale, oggi troppo sperequato tra le diverse università”. Cioè ci sono atenei che ricevono più soldi della media nazionale, e altri che ne ricevono di meno. “Sì. Ogni anno, nella determinazione del fondo di finanziamento, si parte dal finanziamento dell’anno precedente e solo una parte marginale viene distribuita con criteri premiali: lo si è fatto solo negli ultimi anni. Ma la valutazione sulla base dei risultati è stata introdotta in un momento in cui il finanziamento complessivo del sistema è in riduzione, ed è difficile pensar di fare una ridistribuzione di risorse con risorse decrescenti”.
(Fonte: IlSussidiario.net 23-12-2011)
 
STUDENTI. NO AI PRESTITI D’ONORE. SI A TASSE MODERATAMENTE PIÙ ALTE PDF Stampa E-mail
Che le tasse universitarie italiane siano troppo basse è già stato sostenuto su lavoce.info (vedi per esempio Checchi e Rustichini). Il problema è particolarmente impellente in un contesto di costante riduzione del Fondo di finanziamento ordinario, che pone un tetto massimo alla contribuzione e che viene sistematicamente sfondato dagli atenei. Tuttavia, il nodo è squisitamente politico, e come tale deve essere affrontato. Qual è il contributo studentesco ai bilanci universitari che si ritiene socialmente equo e sostenibile? Attualmente la contribuzione universitaria sul totale delle entrate incide per il 12,9 per cento a livello nazionale. Noi riteniamo che una soglia ragionevole che possa essere assegnata agli atenei come punto di riferimento sia quella del 20 per cento del totale delle proprie entrate: stiamo parlando di quasi raddoppiare le attuali tasse universitarie. D’altronde, anche gli altri paesi europei sembrano molto restii a seguire la Gran Bretagna sul terreno dell’innalzamento delle contribuzioni, e anzi alcuni vanno in direzione diametralmente opposta. Né la contribuzione nelle Ivy league universities americane raggiunge soglie di questa entità: nelle università di Harvard, Princeton e Yale le tasse universitarie (tuition fees) hanno un gettito (al netto di degli interventi di sostegno allo studio - financial aid) che copre rispettivamente l'8,3 per cento, il 7 per cento e l’8,9 per cento del totale delle spese. All’interno delle università ci deve essere spazio anche per i prestiti d’onore e per corsi di eccellenza che possono costare più di quelli standard e quindi richiedere prestiti d’onore. Se l’opt out parziale per alcuni corsi può apparire opzione ragionevole in linea di principio, ci sembra che il sistema proposto per la sua complessità e novità sia più adatto a un opt out completo di interi atenei, per esempio alcuni politecnici. Ma allora ci chiediamo se davvero sia desiderabile una riconfigurazione del sistema universitario italiano a macchia di leopardo, dove alcuni atenei, pur di origine pubblica, si muoverebbero in contesti di quasi mercato, mentre altri continuerebbero a essere sovvenzionati in massima parte dallo Stato. E quanto conterebbe nella scelta la composizione sociale dei territori in cui si trovano gli stessi atenei? L’innalzamento generalizzato non può essere il nuovo sistema di finanziamento standard di un sistema universitario che solo oggi, dopo decenni, ha raggiunto percentuali di iscrizioni “europee”, con il 70 per cento dei diplomati di scuola superiore che vi si iscrive e il 50 per cento che si laurea, e che quindi si avvia a migliorare per via “naturale” il problema della redistribuzione perversa. Oggi davvero l’università italiana è alla portata di tutti, ricchi e poveri, e un moderato aumento delle tasse è giusto e dovrebbe essere benvenuto anche dagli studenti di famiglie più povere: l’aumento delle tasse serve a far contribuire di più chi può. Il passaggio a un sistema di prestiti d’onore generalizzato rischia invece di farci perdere quel poco che abbiamo ottenuto in questi dieci anni: l’accesso generalizzato all’università, che è forse il frutto migliore della riforma del 3+2. Né vale a nostro parere l’idea di lasciare gli atenei liberi di fissare i livelli contributivi che vogliono, se non entro limiti ragionevoli, dal momento che percepiscono il contributo pubblico. Si persegue per questa via un obiettivo giusto (la differenziazione di sistema) con uno strumento sbagliato. La competizione tra gli atenei va stimolata con altri mezzi, tra cui quello principe è la distribuzione incentivante dei fondi pubblici.
(Fonte: D. Checchi e M. Leonardi, lavoce.info 20-12-2011)
 
TASSE UNIVERSITARIE IN ECCESSO ALLA NORMATIVA. CAMBIARE LA LEGGE E AUMENTARLE INSIEME ALLE BORSE DI STUDIO PDF Stampa E-mail
Le tasse andranno aumentate, la legge dovrà essere modificata. E di corsa. Perché il fatto nuovo è che il Tar della Lombardia ha appena imposto all’università di Pavia di restituire il prelievo sopra il limite. Tutto sommato, è bene che il bubbone sia scoppiato, perché non c’è modo peggiore di gestire la cosa pubblica di quello che vede amministratori seri disobbedire alle leggi per salvare le istituzioni e il servizio ai cittadini di cui sono responsabili. La crisi congiunturale non fa che esaltare la necessità di un intervento da lungo tempo invocato su basi strutturali. Occorre che l’aiuto agli atenei sulle spalle delle famiglie preveda un rafforzato sostegno agli studenti non abbienti, come impone, in aggiunta alla Costituzione, l’interesse economico del paese che ha un bisogno spasmodico di attuare una politica meritocratica e quindi di individuare e premiare i talenti. Si tratta quindi di attuare in contemporanea una duplice manovra: aumentare le tasse su chi può, graduandole in base alla ricchezza (l’università ha preceduto il paese nell’impiegare l’Indicatore della situazione economica delle famiglie, che considera il patrimonio in aggiunta al reddito); e dare di più a chi non può, sotto forma di borse di studio e di servizi gratuiti, lasciando peraltro un margine netto per il finanziamento degli atenei. Questa strada era stata indicata in quel patto per l’università che il governo Prodi aveva fatto proprio su suggerimento della Commissione tecnica per la finanza pubblica e che la Conferenza dei rettori aveva accettato verso la fine del 2007. Il punto in questione, uno dei 14 punti del patto, recitava: “gli atenei devono poter aumentare le tasse universitarie fino alla concorrenza del 25 per cento del Ffo, con vincolo di destinazione di almeno il 50 per cento dei maggiori introiti ai servizi agli studenti e alle borse di studio per i meritevoli”. Come ex presidente della Commissione, mi sento di riproporre lo stesso testo, con una sola ma decisiva variante. Il nuovo limite va alzato da un quarto ad almeno un terzo, a riprova che i mali non curati tempestivamente si aggravano e richiedono cure più dolorose.
(Fonte: G.  Muraro, lavoce.info 19-12-2011)
 
STUDENTI CINESI IN ITALIA. 10.000, AUMENTATI 30 VOLTE RISPETTO AI 7 ANNI PRECEDENTI PDF Stampa E-mail
E’ rilevante la crescita degli studenti cinesi nelle Università e nelle Istituzioni AFAM del nostro Paese: nel 2010 sono aumentati di 30 volte rispetto ai 7 anni precedenti, utilizzando i Programmi Marco Polo e Turandot; è soprattutto grazie al China Scholarship Council che è stata resa possibile l'apertura del mega Paese asiatico nei confronti dell'estero per formare talenti ad alto livello. La Cina figura al 3° posto tra i Paesi extra-comunitari con i quali l'Italia collabora a livello accademico con oltre 300 accordi. L'Italia è stata il "Country of Honor" del "China Education Expo", svoltosi il 15 e 16 ottobre 2011 a Pechino, che ha annoverato la presenza di 22 Atenei italiani ed ha rappresentato un'importante vetrina orientativa nei confronti degli studenti cinesi. Sulla base delle statistiche del Centro per gli scambi internazionali del Ministero dell'istruzione cinese, l'Italia è uno dei paesi che accoglie più studenti cinesi (circa 10.000 unità) dopo Usa, Francia e Germania. Stanno aumentando anche i laureati cinesi specializzati in lingua italiana e, nell'ambito del Programma esecutivo triennale di cooperazione italo - cinese in fase attuativa, è stato assunto l'impegno ad aumentare i corsi a livello dottorato e post-dottorato in campo scientifico e tecnologico. Gli indirizzi di studio maggiormente prescelti in passato hanno riguardato i settori dell'energia, della chimica, dell'ingegneria e soprattutto della fisica (quasi l'80% della cooperazione scientifica).
(M. L. Marino, http://www.rivistauniversitas.it/ 07-12-2011)
 
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