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GLI INDICATORI DI QUALITÀ DELLA RICERCA. DA NEUTRALI DIVENUTI PRESCRITTORI DEI COMPORTAMENTI DEGLI ATTORI CHE QUEGLI STRUMENTI DOVREBBERO VALUTARE POICHÉ COSTORO SONO PREMIATI QUANDO VI SI CONFORMANO PDF Stampa E-mail

Le Soir, quotidiano belga a grande diffusione, ha pubblicato a fine agosto un articolo dal titolo "Voyage en absurdie: les rankings des universités". Il giornale generalista più letto dalla comunità francese del Paese mette a nudo criticamente e impietosamente le fallacie delle "classifiche" universitarie, un fenomeno alimentato dall'attitudine dei media a riprodurre puntualmente con grande enfasi i dati popolanti questi rankings, ben noto anche alle nostre latitudini. Roars lo descrive da tempo avendo coniato il neologismo "Rankismo". I numeri sono saliti al potere del mondo scientifico agli inizi del millennio e hanno conquistato ogni ambito del mondo accademico. Dalla valutazione individuale del singolo studioso (il celebre h-index, escogitato nel 2005, con subitaneo, travolgente successo, dal fisico argentino dell'Università di San Diego Jorge Eduardo Hirsch, forse anche perché rivelatosi subito idoneo a rappresentare ed assecondare l'ego dei suoi adepti), alla valutazione del prestigio scientifico della rivista (l'altrettanto famigerato Impact Factor o IF, lucrosamente gestito a livello mondiale dalla società Clarivate Analytics dopo essere stato messo a punto da un chimico, che, applicando i suoi algoritmi alle pubblicazioni scientifiche, era divenuto ricco: Eugene K. Garfield, appropriatamente ricordato da Wikipedia anche con la qualifica di "businessman"), al fenomeno - appunto - del Rankismo universitario di cui qui si parla.
Valutare un ricercatore o un gruppo di ricerca sulla base di questi indicatori diviene facile ed allettante. Seduce e assolve. Per pigrizia, e per non sbagliare di fronte all'apparente oggettività dei numeri, i membri dei comitati di valutazione ad ogni livello basano il loro giudizio sulla nuova "scienza" della bibliometria e ne sposano fino in fondo i dettami.
Sennonché - aggiunge Le Soir - quando un indicatore appare in un dominio del sapere, inizialmente avanza mascherato, presentandosi come un neutro strumento di misura. Assai presto quello strumento diventa, invece, un implacabile prescrittore dei comportamenti degli agenti che quello strumento dovrebbe valutare, poiché costoro vengono premiati quando vi si conformano. La potente tendenza ad adattare il proprio comportamento agli standard dell'indicatore induce profonde trasformazioni, se non vere e proprie distorsioni, nei comportamenti dell'agente soggetto a tali indicatori. E la sua efficacia diventa normativa.
Ma i danni più gravi si registrano sul fronte delle riviste scientifiche, là dove ormai regna sovrano l'Impact Factor, che misura il numero di citazioni ricevuto da un articolo nel torno di 2-5 anni dalla sua pubblicazione. Per aumentare il loro X-Factor (pardon, IF), alcune riviste sono arrivate al punto di pubblicare un articolo a condizione che l'autore citi un numero sufficiente di articoli pubblicati nella stessa rivista. Discipline come la storia, il diritto o la filosofia, dove tradizionalmente è la monografia a fare la differenza, vengono bistrattate perché nel clima numerico imperante esprimono "prodotti" la cui valutazione non si presta ad essere effettuata con le nuove metriche. È ormai chiaro che l'ossessione per i numeri sta portando la scienza fuori strada.
Un numero sempre più alto di comunità scientifiche e di addetti ai lavori della valutazione scientifica è ormai consapevole dei pericoli esiziali che questa ossessione per gli indicatori proietta sul futuro delle nostre Università e sulla ricerca di qualità. (F: Le Soir 29.08.20; Red.ne Roars 15.09.20)