Home 2010 02 Agosto Sei più Giavazzi o più Boeri? Bocconi divisa dalla Gelmini. Insegnano nella stessa università ma la pensano all’opposto sulla riforma
Sei più Giavazzi o più Boeri? Bocconi divisa dalla Gelmini. Insegnano nella stessa università ma la pensano all’opposto sulla riforma PDF Stampa E-mail

Se le coincidenze hanno un senso quella andata in scena ieri suona come il preludio di qualcosa di possibile. La coincidenza è che due economisti di fama, docenti nella stessa università (Bocconi), ieri si confrontavano sullo stesso tema (la riforma dell’università, ora in discussione al senato) sulle prime pagine dei due principali quotidiani italiani. Vedere incrociare le armi Francesco Giavazzi (Corriere della sera) e Tito Boeri (Repubblica) può far sorridere: entrambi lavorano nello stesso ateneo, vivono gli stessi problemi, frequentano le stesse persone, eppure propongono ricette abbastanza diverse. I maligni (i docenti universitari quando parlano dei colleghi sono spesso maligni) dicono che può dipendere dal fatto che il primo è consulente del ministero e il secondo no. Vero ma non basta. Il tasso di antiberlusconismo dei due è più o meno lo stesso: entrambi scrivono per LaVoce.info, organo lib-lab della fondazione Debenedetti.

Anche lo schema destra/sinistra non aiuta: in fondo la riforma universitaria in Italia, al netto di una storica egemonia del pensiero di sinistra, è sempre stato un terreno politicamente trasversale agli schieramenti e molto condizionato dalle lobby parlamentari. Non è un mistero che il vero ispiratore della riforma Gelmini sia quell’Alessandro Schiesaro, 47 anni, latinista di vaglia e riformista dichiarato considerato vicino al Pd. Dal 12 settembre 2008 è lui il capo della segreteria tecnica del ministero incaricato di rivestire di un disegno strategico i pesanti tagli al mondo dell’università e della ricerca.

Il fatto curioso è che nei loro editoriali Giavazzi e Boeri parlano delle stesse cose in modo molto diverso. Il primo esalta l’abbassamento dell’età di pensione dei docenti (a 65 anni, come chiede anche il Pd, ma che i docenti non vogliono). Il secondo lo stronca spiegando come sia aggirabile. Il primo saluta la nascita dell’Anvur, l’Agenzia indipendente per la valutazione universitaria, come il perno della riforma. Il secondo considera la valutazione della ricerca universitaria come un criterio decisivo per la distribuzione dei fondi ma non cita l’Anvur e anzi parla di valutazioni sulla base di «pubblicazioni vecchie di dieci anni». Il primo festeggia la fine dei concorsi universitari come incentivo anti-corruzione e contro la fuga dei cervelli. Il secondo lamenta i tagli all’università e alla ricerca di circa un miliardo dal 2008 al 2010, «in netta controtendenza rispetto agli altri paesi in cui si approfitta della crisi per investire in capitale umano» (in Germania è vero, in Gran Bretagna no).

Chi ha ragione? L’opposizione in parlamento darà più retta al primo o al secondo, e come si dividerà sul ddl Gelmini? E il mondo universitario si spaccherà tra gli ottimisti alla Giavazzi e i pessimisti alla Boeri? Va detto che gli articoli di giornale su come riformare l’università sono uno dei passatempi preferiti dei (tanti) docenti universitari che scrivono sui quotidiani. Docenti che spesso scrivono che l’università italiana fa schifo e quasi sempre usano un linguaggio da iniziati, comprensibile intra moenia ma quasi indecifrabile per i lettori comuni. Tutti ripetono che servirebbero robuste iniezioni di meritocrazia, ma non sono mai d’accordo sul come.

È ormai chiaro a tutti (docenti, studenti e lettori comuni) che i concorsi universitari sono nel 90 per cento dei casi una barzelletta e che premiano i soliti noti. L’effetto finale è che l’università appare irriformabile e che la fuga dei migliori cervelli all’estero sia un evento fatale, inevitabile, irreversibile, quasi meritato.

Si può risalire questa china? Pochi sembrano crederci. A detta di tutti la Gelmini è digiuna di università, ma sembra avere l’umiltà di consultarsi con persone che ne sanno più di lei. La sua riforma è considerata troppo radicale da alcuni e troppo poco ambiziosa da altri. Il problema è che il ministro Tremonti sembra avere un conto aperto con l’accademia, un mondo al quale appartiene ma che considera estraneo, improduttivo, ostile.

In fondo il suo metodo è sempre lo stesso: prima tagliare, poi riformare. E, nonostante gli auspici del capo dello stato, quel metodo potrebbe aver già convinto l’opposizione a votare no. Comunque. (G. Cocconi, Europaquotidiano 23-07-2010)