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RECLUTAMENTO E VALUTAZIONE PDF Stampa E-mail

R. Lazzeroni, relazione al XV° Congresso Nazionale U.S.P.U.R., Roma 22-05-2015.

Il titolo del XV° Congresso Nazionale U.S.P.U.R. ("Accreditamento periodico, Università del futuro") contiene una domanda sul futuro dei giovani che vogliono dedicarsi alla ricerca e in particolar modo alla ricerca di base. Eviterò di rispondere che poiché la ricerca di base ad altro non serve che ad accrescere conoscenze non commestibili, il futuro di questi giovani è quello di scegliersi un altro mestiere. Non rispondo così perché, pure in questo tempo in cui le scienze vere sembrano essere solo le scienze applicate, resto convinto che la ricerca applicata dipenda strettamente dalla ricerca pura, da quella che ha per obiettivo la sola crescita delle conoscenze: ciò che si applica a qualcos’altro non può essere che il risultato di una ricerca di base; se non progredisce la ricerca di base non progrediscono nemmeno le applicazioni.
E’ vero che, nella corrente cultura tecnologica, è convinzione comune che la ricerca di base serva a poco perché non produce risultati immediatamente utilizzabili e che, fra le scienze di base, quelle umanistiche servano ancora a meno perché “non si mangiano” come disse un ministro dei passati governi.
Certamente le scienze di base, umanistiche e non, non si mangiano. Figuratevi che qualche secolo fa un personaggio sprecava il suo tempo a spellare le carcasse delle rane e a farle saltare toccandole con due pezzetti di metallo. E altri perdigiorno ancora peggiori di lui, invece di far cose più utili oziavano a discutere se l’autorità emanasse dal popolo o discendesse da Dio e se la verità fosse quella assoluta del libro, o quella messa ogni giorno alla prova della ragione. Nulla di meno commestibile, ma con una conseguenza forse non trascurabile: da quel gioco e da quei perdigiorno è nato il mondo moderno. Torniamo al tema: il futuro dei giovani non dipende solo dalle decisioni politiche, ma anche dai nostri comportamenti accademici. Quale incoraggiamento può avere chi per decenni ha visto arruolamenti automatici o quasi, assunzioni in seguito a interventi ope legis dichiarati o mascherati, decisi sì dalla politica, ma spesso favoriti o addirittura invocati dal corpo accademico?
Un solo episodio: nei primi anni ’70 un provvedimento di legge istituì i cosiddetti assistenti ad horas: alle Facoltà fu assegnato un budget destinato a retribuire con, mi pare, 2000 lire l’ora, dei laureati a cui veniva affidata la didattica di supporto, in sostanza che venivano incaricati di svolgere qualche ora di esercitazione.
Le Facoltà ripartirono il budget fra gli insegnamenti e i docenti nominarono, sì, gli esercitatori, ma alcuni – più molti che pochi – ripartirono a pioggia la loro quota assegnando a ciascun esercitatore non più di due ore in modo da allargare la propria corte e confermare il principio che i professori universitari condividono con le mosche e i funghi la proprietà di riprodursi rapidamente. E’ inutile dire che poi una legge trasformò gli esercitatori in ricercatori di ruolo, con concorsi riservati, cioè, sostanzialmente, con concorsi proforma. Il parcheggio nell’Università di ricercatori improduttivi, ormai più che sessantenni in attesa della pensione, dipende anche da questa vicenda.
La colpa è della legge, ma è anche dei professori che crearono le condizioni perché la legge operasse in modo distorto. Oggi episodi del genere sono impensabili. Ma se non si dà a un giovane la certezza che non si ripeteranno e che le sue prospettive dipendono non dal caso o dallo sponsor, ma dai suoi meriti e dal suo lavoro, chi vorrà dedicarsi alla ricerca?
La prima scelta appartiene alla responsabilità dei docenti. L’Università, secondo una definizione di Humboldt che conserva intera la sua attualità, mira a fornire ai laureati l’esperienza nella ricerca scientifica necessaria non solo per l’avanzamento delle conoscenze, ma anche per l’esercizio delle professioni.
I docenti debbono saper distinguere coloro per cui la conoscenza dei metodi della ricerca sarà un sussidio alla professione da coloro per cui l’esercizio della ricerca sarà la professione. Per rimanere nel campo che mi è più familiare, conosco insegnanti di scuola eccellenti nella trasmissione dei saperi ma non adatti o non interessati alla creazione di conoscenze, e ricercatori eccellenti nella creazione di conoscenze anche se qualcuno è meno adatto o meno interessato alla loro trasmissione. Nessuna gerarchia fra gli uni e gli altri, ma soltanto differenze di identica dignità.
I giovani avviati alla ricerca (e solo i docenti possono individuarli fin da studenti) devono avere la fiducia che il loro futuro dipenderà dal merito, e soltanto dal merito. Dargli questa fiducia spetta ai docenti e alla politica. Fino a qualche anno fa, parlare di merito suonava come un’eresia. Oggi, spero, non più. Forse sta diffondendosi la persuasione che una scuola meritocratica e selettiva che non mortifichi i migliori per compiacere i peggiori, è lo strumento di promozione sociale meno di ogni altro inquinato dal privilegio; e se dare l’università a tutti è giusto e necessario, dargliela degradata è come compiere una truffa miserabile contro le classi più svantaggiate perché la scuola degradata affida la selezione alla vita, cioè, troppo spesso, al censo e al privilegio che nella vita contano molto più che nella scuola. Che cosa si offre, oggi, a un giovane laureato che voglia dedicarsi alla ricerca? Prima tre anni di dottorato, poi, ma sempre meno, l’odissea delle borse di studio, infine, se ha fortuna, un posto di ricercatore a termine di tre anni prorogabili a cinque oppure uno di tre non prorogabili, ma che potrà trasformarsi in un posto di associato se il ricercatore avrà conseguito l’abilitazione nazionale. E’ giusto che questi posti siano a termine: il posto di ricercatore è un posto di formazione e non è scritto nel libro del destino che la formazione riesca; un tempo era così anche per gli assistenti di ruolo che, se entro 10 anni non avevano conseguito la libera docenza (l’abilitazione nazionale di quei tempi), passavano automaticamente nelle scuole secondarie; il che andava bene per le facoltà votate alla formazione di insegnanti, malissimo per le altre, per es. per farmacia o veterinaria. D’altra parte uno sbocco alternativo è indispensabile: altrimenti, prima o poi (c’è da augurarsi piuttosto poi che prima), la fascia di formazione si satura di pesi morti con l’inevitabile conseguenza che o si dilata senza limiti l’organico o si blocca il reclutamento.
Ma il sistema attuale è troppo privo di garanzie. Cosa andrà a fare un ricercatore a termine di almeno 35 anni se non può o non riesce a diventare associato? La risposta è prevedibile: si accumuleranno le proroghe e il reclutamento si bloccherà un’altra volta. Ricordo una proposta mai attuata del ministro Malfatti che forse meriterebbe di essere presa in considerazione: il ricercatore (allora si chiamava ancora assistente) appena vinto il concorso sia subito assegnato a un’amministrazione pubblica conforme alle sue competenze e contemporaneamente sia comandato presso un’università per un periodo sufficientemente lungo per completare la sua formazione, trascorso il quale in mancanza di promozione alla fascia superiore, sia restituito all’amministrazione a cui era stato assegnato.
Resta il problema del concorso di accesso. Qui il localismo dilaga, non sempre a favore del merito. I casi in cui un esterno ha vinto un posto da ricercatore in luogo del candidato locale si contano, in qualche decennio, sulle dita di una mano. Mi chiedo se non converrebbe che il concorso fosse su base nazionale o almeno interregionale, svolto fuori delle sedi che lo hanno bandito e senza rappresentanti di sede, e ripristinando le prove scritte che consentono la correzione anonima. Prove scritte perché il concorso è, e deve essere, per giovani: il fatto che vi partecipino persone di età matura è un’anomalia dovuta a un blocco che si protrae da anni. In una situazione normale il posto di ricercatore dovrebbe essere destinato a chi ha appena conseguito il dottorato; che senso ha limitare le prove alla discussione di titoli “da valutarsi” dice la legge “utilizzando parametri riconosciuti anche in ambito internazionale” quando i titoli potrebbero essere soltanto la dissertazione dottorale? In casi come questo le prove scritte sono necessarie. Oppure vogliamo che l’età utile per diventare ricercatori continui a essere uguale all’età in cui ai miei tempi si diventava ordinari?
E sempre a proposito di ricercatori e della riforma Gelmini vorrei richiamare l’attenzione sulla norma che facilita l’accesso alla fascia degli associati per i ricercatori a tempo determinato di tipo b che abbiano conseguito l’abilitazione nazionale. Sospetto che sia incostituzionale: questa facilitazione o si estende anche ai ricercatori a tempo indeterminato (che, tra l’altro furono assunti con concorsi più impegnativi) o si abolisce per tutti.
Il posto di ricercatore è il primo passo. Fermo restando che il posto di ricercatore non dà e non deve dare garanzie per il passaggio automatico alle altre fasce, il futuro dei migliori fra i ricercatori dipende dalle prospettive che i concorsi per le fasce superiori offrono al riconoscimento del merito. Suppongo che la galleria sotterranea che unisce il CERN di Ginevra al laboratorio del Gran Sasso costruita dal ministro Gelmini, abbia fatto sì che alla riforma di quel ministro fosse tributata dai governi successivi la stessa riverente attenzione che anche i governi del dopoguerra tributarono alla riforma Gentile. Non riesco a vedere altro motivo, perché altrimenti quella riforma avrebbe dovuto essere immediatamente cancellata.
La sola novità salvabile è la valutazione in itinere di tutti i docenti che per altro risale a progetti di cui si parlava da anni e attuati da tempo e con procedure diverse fuori d’Italia. Il sistema dei concorsi sembra invece escogitato apposta per mortificare i migliori. Non parlo dell’impact factor, americanata per fortuna non prevista nelle scienze della cultura come, distinguendole dalle scienze della natura, preferisco chiamare le scienze dell’uomo. Ne parlai a Perugia e meglio di me lo hanno fatto due matematici, A. Figà Talamanca e L. Modica. Mi limito a ricordare che il metodo dell’impact factor fu elaborato nella prima metà del secolo scorso per valutare non la qualità dei contributi, ma la produttività degli autori e soprattutto per misurare la diffusione delle riviste al fine di stabilire quali dovessero figurare in una biblioteca; solo successivamente e nonostante le riserve di quelli stessi che l’avevano escogitato, fu usato come strumento di valutazione della qualità. Ma a questo non serve: Galileo aveva un impact factor ridicolo rispetto a quello della Bibbia, ma aveva ragione lui, nonostante la bocciatura che gli impartirono i cardinali con metodi più spicci di oggi. E forse soltanto oggi Galileo, col suo impact factor migliorato, riuscirebbe a battere in un concorso il cardinale Bellarmino.
Nelle scienze della cultura non conta l’impact factor, ma la legge Gelmini volle che ugualmente contassero parametri quantitativi e largamente automatici: il numero delle pubblicazioni (con un rapporto paradossale fra articoli e volumi), la sede e il prestigio del luogo di pubblicazione, le esperienze in atenei stranieri, la partecipazione, anche solo da segretari, a comitati redazionali e via di seguito.
Intendiamoci: i metodi quantitativi sono utili per valutare la produttività degli studiosi e per misurare la circolazione dei loro contributi. Probabilmente – ma questo non rientra fra gli obiettivi di questo discorso – sono utili anche per valutare la produttività delle strutture se queste sono abbastanza grandi da consentire inferenze statistiche; certamente sono utili per individuare i docenti che hanno titolo per far parte delle commissioni che, specialmente se si sorteggiano, vanno in qualche modo selezionati per evitare che il destino dei giovani sia rimesso a gente che ha abbandonato la ricerca il giorno in cui ha ottenuto l’ordinariato o ha conservato la penna soltanto per pontificare. Ma i metodi quantitativi non sono criteri di merito e non devono sostituirsi all’autonomia di giudizio delle commissioni. Il ricorso a parametri automatici che si dicono “obiettivi” è stato sollecitato dalle campagne di stampa sugli scandali dei concorsi universitari del vecchio tipo. Campagne che hanno denunciato alcune verità, ma anche creato innumerevoli montature. Alcuni scandali sono reali, altri, come parentopoli, reali ma circoscritti a determinati settori, molti sono inventati. Per es. non è vero, come voleva far credere Felice Froio negli anni ’90 che le relazioni di minoranza (allora ancora si usavano) abbiano sempre ragione: le ragioni degli uni meritano, almeno, la stessa considerazione delle ragioni degli altri. E non c’è nulla di strano se i nomi dei vincitori si conoscono prima: a parte l’esperienza sciagurata dei concorsi locali (lì, sì, si conoscevano in anticipo i nomi di studiosi eccellenti, ma anche quelli di beccai e galline a cui il voto di scambio col rappresentante della sede assicurava la cattedra), i concorsi universitari non sono uguali agli altri concorsi. Nei concorsi universitari si giudicano le pubblicazioni e quasi sempre i valori in campo sono noti. Il concorso manipolato è quello da cui esce un vincitore a sorpresa. Né c’è da scandalizzarsi come fa un libro recente se, quando le commissioni erano elettive, si chiedevano voti: non esistono elezioni senza candidature e richieste di voti. Che si siano commessi abusi è fuor di dubbio. Ma non è giusto incolpare soltanto l’Università delle debolezze umane; e gridare allo scandalo per alcuni concorsi universitari quasi tacendo di altri altrettanto importanti (che fra l’altro vedono fra i vincitori parecchi figli d’arte) in cui qualcuno conosceva i temi prima delle prove. Limitare gli abusi è sacrosanto. Ma i metodi quantitativi e automatici sono un rimedio peggiore del male che pretendono di correggere. I parametri non bibliometrici consistono nel numero e nella sede delle pubblicazioni. Non insisto sulla denuncia dell’Académie de Sciences francese che, nel 2011, segnalava al Ministero il pericolo che i ricercatori fossero indotti “ad adattare l’orientamento delle loro ricerche ai domini o alle tecnologie privilegiate dalle riviste ad alto impact factor nelle quali desiderano pubblicare, a scapito dell’originalità e dell’innovazione”. Mi limito a dire che dare valore assoluto al prestigio delle riviste e imporre alle commissioni di considerare valido o addirittura eccellente un contributo perché è pubblicato su una rivista importante, equivale a confondere un giudizio di pubblicabilità con un giudizio di valore. Poniamo che i revisori, tutti i revisori fra cui, ovviamente, comprendo anche i redattori e i direttori, siano attenti, onesti e competenti e che i blasoni delle riviste rispondano a criteri trasparenti e verificabili. Ma facciamo il caso – traggo l’esempio da esperienze personali nella mia disciplina – che una rivista blasonata riceva la descrizione di un dialetto, accurata e ricca di materiali nuovi e sconosciuti, e però priva di una prospettiva che vada oltre la descrizione dei dati. Se i revisori riterranno l’articolo pubblicabile avranno sacrosanta ragione. C’è anzi da auspicare che i contributi di questo tipo siano molti e consentano di fissare e conservare panorami dialettali ormai in dissoluzione. Ma supponiamo anche che la medesima rivista riceva un altro contributo in cui questi medesimi dati vengono interpretati in un quadro teorico originale e che dall’interpretazione scaturisca un apporto importante anche per la comprensione di fatti linguistici generali. Anche questo sarà valutato positivamente e pubblicato dalla stessa rivista. Per la sede di pubblicazione i due contributi saranno, dunque, uguali. Ma non hanno, non debbono avere, lo stesso valore: la scienza ha, sì, bisogno di dati, ma è sapere critico che progredisce con l’interpretazione dei dati. E se l’università è la sede primaria della ricerca scientifica si deve pretendere che un docente universitario sappia passare dalla descrizione alla spiegazione, dal come al perché.
L’autonomia di giudizio delle commissioni non può, insomma, essere sacrificata a criteri automatici. Da qui ai quiz a risposte multiple magari corretti da automi non c’è che un passo. E anche se, a ragione, si presume che un saggio pubblicato da una rivista importante sia per ciò stesso valido, non si deve dimenticare che la validità è una proprietà graduabile. E, a meno di fare di ogni erba un fascio, un concorso è necessariamente comparativo anche quando, purtroppo, non c’è, come non c’è ora, limite al numero degli idonei. Il revisore di un articolo (che tra l’altro opera in isolamento e non ha modo di confrontare con altri il suo giudizio) non può fare comparazioni né gli si chiede di farle. In un concorso le pubblicazioni debbono essere lette, studiate e valutate analiticamente in una discussione collegiale.
Il nuovo regolamento su questo punto lascia dei dubbi. La materia è disciplinata dal DM 7 giugno 2012 n. 76 che, in un diluvio di articoli e commi, fissa i criteri e i parametri per la valutazione dei candidati lasciando alle commissioni la ponderazione di ciascun criterio e parametro e l’eventuale utilizzo di ulteriori criteri e parametri più selettivi ai fini delle pubblicazioni e dei titoli. I principi e i parametri sono elencati nei commi 4 e 5 dell’art. 3; nelle scienze della cultura non è previsto si diceva, il calcolo bibliometrico, ma i criteri e i parametri sono, almeno i più importanti, determinati in modo più o meno automatico.
I dubbi non sono dissipati dal bando: l’art. 4 prescrive che la commissione attribuisca l’abilitazione con motivato giudizio espresso sulla base dei criteri e parametri definiti dal regolamento e fondato sulla valutazione analitica dei titoli posseduti e delle pubblicazioni scientifiche. Perfetto: ma se il giudizio è espresso sulla base di criteri e parametri che, si è visto, sono largamente automatici, fino a qual punto le commissioni hanno autonomia di giudizio?
In una relazione che tenni nel 2013 all’Università per Stranieri di Perugia e da cui in alcune parti dipende questa che sto facendo, mi sforzavo di essere più ottimista di Modica che in un articolo del luglio 2013 sosteneva che con questo labirinto di articoli e commi (Modica parlava di caccia al tesoro), si sarebbe voluto dire che le commissioni non possono scostarsi dai vincoli automatici se non per rafforzarli: “Se la logica e la lingua italiana hanno ancora un senso” - scriveva Modica - “le commissioni possono solo rafforzare e mai indebolire i criteri e i parametri fissati dal regolamento ministeriale.” Mi sforzavo, dicevo, di essere più ottimista di Modica, ma, ora che due sessioni si sono chiuse, temo che la sua interpretazione sia confermata. E’ vero che alcuni chiarimenti ministeriali successivi al bando sembravano indirizzati a garantire alle commissioni una qualche autonomia di giudizio. Ma il problema rimane: non solo i tempi stretti imposti dal bando, ma la struttura stessa del sistema rende impossibile rinunciare agli automatismi.
Consideriamo il caso (reale in molti settori, addirittura sottodimensionato in alcuni) di un concorso a cui abbiano partecipato, complessivamente nelle due fasce, circa 300 candidati. Le pubblicazioni richieste sono 12 per la II fascia e 18 per la prima. La media è 15. Ammettiamo che per leggere e capire una pubblicazione in modo da garantire la valutazione analitica prescritta sia necessaria un’ora (ma un’ora non basta per un libro e nemmeno per un articolo che non venda fumo!): 300 x 15 fa 4500 ore che ciascun commissario avrebbe dovuto dedicare alla lettura dei titoli; poiché 4500: 24 fa 187, ogni commissario avrebbe dovuto impegnarsi nella valutazione dei titoli 187 giorni lavorando ogni giorno per 24 ore filate. Ma poiché a nessun essere vivente provvisto di centro del sonno, di tubo digerente e di apparato genitale si può chiedere di lavorare per più di 8 ore al giorno (e sono troppe) e 187 x 3 fa 561, ognuno avrebbe dovuto leggere i titoli almeno per un anno e 196 giorni e ogni giorno per 8 ore di fila, domeniche, feste nazionali e comandate, Capodanno, Natale e Pasqua compresi. E a chi, forte di un’antica sentenza del Consiglio di Stato che respinse il ricorso di un candidato a cui a concorso finito furono restituite intatte le pubblicazioni che aveva mandato ai commissari con le pagine incollate, a chi, dicevo, obiettasse che i titoli li ha tutti letti e soprattutto studiati prima perché le pubblicazioni – lo dice il nome – sono pubbliche, rispondo di non far ridere i polli. Ma c’è di più. La formazione di gruppi disciplinari assurdamente eterogenei può far sì che nessun membro della commissione sia competente nelle specializzazioni di qualche candidato: il caso è già accaduto per qualche disciplina, almeno fra quelle umanistiche. Insomma la combinazione scellerata fra numero dei candidati, tempi ristretti, carattere eterogeneo dei gruppi e limiti della conoscenza e della pazienza umana, deresponsabilizza le commissioni, mortifica il merito e, nella frequente impossibilità di una valutazione competente o, almeno, di una competente valutazione collegiale, rende il ricorso agli automatismi praticamente inevitabile. E se nei verbali di qualche commissione sta scritto che i titoli sono stati discussi collegialmente e valutati analiticamente, forse chi l’ha scritto e approvato potrebbe anche essere perseguito per falso. La conclusione è evidente: il sistema Gelmini va cambiato subito e in modo radicale. Va cambiato a garanzia dei giovani più meritevoli i quali, in un sistema che privilegia la quantità sulla qualità saranno sempre più sopraffatti da imbrattatori di carte (già si vedono all’opera) tanto più ricchi di parole quanto meno provvisti di idee. La ricerca richiede tempo e riflessione, qualità inconciliabili con l’obbligo di produrre molto e velocemente. Si legge sui giornali che il nuovo ministro sta progettando un sistema di abilitazioni “a sportello” che, a quanto mi pare di capire, ricorda il sistema che è stato e forse è ancora in vigore in Francia. In mancanza di informazioni precise, parlarne ora è impossibile. Potrebbe andar bene purché fosse chiaro che l’abilitazione, come un tempo la libera docenza in Italia e oggi l’abilitazione in Germania, dà diritto non a coprire, ma a concorrere a un posto. La copertura dei posti dovrebbe essere rimessa alle università con concorsi nazionali banditi in loco per profili disciplinari precisi, e commissioni diverse e competenti per ciascun concorso disciplinare, senza rappresentanti di sede, con recensioni dei titoli analitiche e motivate e non col solito copia e incolla di mezza paginetta di stereotipi, col divieto per le università, come è in Germania, di chiamare i locali e soprattutto con la previsione di penalizzazioni economiche per i dipartimenti (e, perché no, anche per le persone) che assumono docenti che poi si rivelino improduttivi. Tutto questo potrà funzionare se, anche a tutela delle tasche di Pantalone, sarà accompagnato dall’obbligo per le Università di darsi un organico definito da percentuali invalicabili (qualche anno fa un disegno di legge prevedeva a regime 70 associati e 50 ordinari ogni 100 ricercatori, ma non è questione di percentuali) fissate in sede nazionale per ciascuna fascia. Ciò, tra l’altro correggerebbe la distorsione che il sistema attuale, comprimendo l’organico nella fascia più alta, ha prodotto nel corso di almeno un decennio a danno della mobilità dei docenti ormai quasi cancellata e a scapito delle fasce più basse: la mancanza di un organico predefinito ha consentito alle Facoltà ieri e consente ai dipartimenti oggi di assumere il pollo domestico piuttosto che l’aquila forestiera: il pollo domestico costa meno perché assorbe il vecchio stipendio nel nuovo, ma il risparmio è a carico dei giovani meritevoli che, ogni volta che qualcuno è promosso, vedono sparire un posto che poteva essere il loro. Altro non mi resta da dire. Tanto nostalgico dei miei vent’anni da averli compiuti più di quattro volte, cadrei nei ricordi e nei luoghi comuni dei vecchi se parlassi dell’entusiasmo dei giovani come alimento della ricerca scientifica. E però, se ripercorro la mia esperienza di docente, mi accorgo che il dono più grande che ci elargisce il nostro mestiere è quello di vedere gli occhi di un giovane riempirsi di luce quando riusciamo a fargli correre un’avventura del pensiero. Per il bene di tutti, non spegniamo questa luce.