Home 2013 6 Maggio UNIVERSITÀ NEPOTISMO ALL’UNIVERSITÀ. MITO E REALTÀ
NEPOTISMO ALL’UNIVERSITÀ. MITO E REALTÀ PDF Stampa E-mail

E’ diffusa la convinzione che un qualsiasi legame di parentela all’interno di un’università sia da etichettare come forma di nepotismo. Per provare a dirimere la questione, abbiamo confrontato individualmente la performance di ricerca dei “figli” con quella dei “non figli” dello stesso settore scientifico disciplinare, ruolo d’inquadramento e anzianità. La misura, condotta con tecniche bibliometriche, ha riguardato la produttività di ricerca nel quinquennio 2004-2008 degli accademici delle discipline scientifico-tecnologiche assunti o avanzati di ruolo nei tre anni precedenti. (3)
I risultati rivelano che in media i “figli”, la cui concentrazione è piuttosto omogenea nelle diverse aree disciplinari analizzate, hanno una performance di ricerca che non è significativamente diversa da quella dei colleghi “non figli”. (4) Un approfondimento a livello geografico ha mostrato addirittura che nelle università del Centro Italia i “figli” hanno in media una produttività di ricerca maggiore di quella dei “non figli”, mentre al Nord e al Sud i valori di produttività sono pressoché identici.
Un’ulteriore analisi dei successivi avanzamenti di carriera ha evidenziato che la proporzione dei “figli” vincitori di concorso nel periodo 2004-2008 è del tutto simile a quella dei “non figli” e, in effetti, la loro performance scientifica è in media molto superiore a quella di coloro che non sono avanzati di posizione. Infine, i “figli” non risultano meno discriminati dei “non figli”, infatti il 26 per cento dei “figli” che si collocano al top 20 per cento per performance non è riuscito a ottenere un pur meritato avanzamento di carriera, contro il 23 per cento dei “non figli”.
Si può quindi concludere che le università siano immuni dal virus del nepotismo? Assolutamente no: il 7 per cento dei “figli” non ha realizzato alcuna pubblicazione scientifica in cinque anni e il 15 per cento non è mai stato citato; inoltre l’8 per cento dei “figli” è avanzato di ruolo pur facendo parte del 20 per cento degli accademici con la performance più bassa. D’altro canto i “non figli” registrano percentuali superiori: rispettivamente 10, 16 e 11 per cento. Si può quindi affermare con altrettanta certezza che la probabilità di commettere un errore nell’accusare un “figlio” di non meritare la sua posizione accademica è la stessa che si avrebbe nell’accusare dello stesso fatto un “non figlio”. Il diffuso pregiudizio negativo sui “figli” e, soprattutto, sui “padri” risulta quindi privo di qualsiasi fondamento empirico che possa legittimarlo. Il dispositivo di cui all’articolo 18 della legge 240 è da considerarsi pertanto discriminatorio, in quanto priva i “figli” della libertà di concorrere all’accesso all’università che più li aggrada per la semplice “colpa” di avere un “padre” nella stessa.
(Fonte: G. Abramo e C. A. D'Angelo, lavoce.info 03-05-2013)