Home 2013 6 Maggio LIBRI VALUTARE E PUNIRE. UNA CRITICA DELLA CULTURA DELLA VALUTAZIONE
VALUTARE E PUNIRE. UNA CRITICA DELLA CULTURA DELLA VALUTAZIONE PDF Stampa E-mail

Autore: Valeria Pinto. Editore: Cronopio, 2012.
Tra i molti libri mediocri (e talvolta pessimi) scritti sull’università negli ultimi anni spicca un tagliente volumetto di Valeria Pinto, “Valutare e punire. Una critica della cultura della valutazione”. Un titolo che ovviamente fa riferimento a “Sorvegliare e punire” di Michel Foucault, ed è proprio al filosofo francese scomparso nel 1984 che si ispira la Pinto, quando esplicita le domande a cui intende rispondere: “Come si è reso accettabile il regime di verità della valutazione? Quali sono i nessi di sapere-potere che la investono e la sostengono? Quali gli effetti di potere che essa – ovvero la verità che essa mette in scena - induce e che la riproducono?”. Citando Foucault, l’autrice sottolinea che “il sapere non è fatto per comprendere, è fatto per prendere posizione” e intraprende la sua ricerca archeologica attraverso la legge 168/89 che istituiva l’autonomia universitaria, la legge 537 del 1993 che istituiva i nuclei di valutazione, la legge 240/2010 e infine la creazione dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, l’Anvur. Questo scavo la conduce ad affermare che “la valutazione costituisce letteralmente il braccio operativo di qualsivoglia processo decisionale: dai piani di programmazione per l’organico al finanziamento dei Prin, all’istituzione (o chiusura) di nuovi corsi di laurea e dipartimenti, fino alla progettata valutazione dei titoli di studio”.
E quale sarebbe il senso, il significato profondo di questo processo? Come ha efficacemente riassunto il rettore Giuseppe Zaccaria nel corso della tavola rotonda per la presentazione del libro lunedì 25 marzo al Bo, la tesi della Pinto è che dietro “ci sia un modello di razionalità che è quella dell’homo œconomicus, e dunque l’idea che la ricerca sia sempre necessariamente traducibile in prodotti che hanno un valore e che sostanzialmente il ricercatore stesso sia valutabile come un produttore di merci rispetto alle quali vigono le normali regole del mercato. Con tutte le conseguenze che questo implica sul piano della considerazione dei tempi che possono essere dedicati alla ricerca (tempi che devono ovviamente essere misurati), dell’oggetto sui cui verte la ricerca (oggetto che deve essere accettato da strutture esterne rispetto a quelle della ricerca)”. È in quest’ottica che la qualità scientifica della ricerca tende a perdere di importanza, sostituita da criteri quantitativo/commerciali. L’autrice cita un documento dell’Osservatorio di Bologna raggelante nella sua franchezza: “Un moderno organismo di valutazione non valuta, né potrebbe farlo, la qualità scientifica dei singoli prodotti, ossia del loro contenuto intellettuale. Ciò che (…) può osservare, con un margine di approssimazione tollerabile, è la rilevanza dei prodotti sul mercato intellettuale della ricerca”.
(Dalla recensione di F. Tonello, http://tinyurl.com/c7f5ks8 unipd/ilbo 29-03-2013)