Gran parte dei problemi della nostra università nasce da un rapporto patologico tra istituzioni pubbliche e società decisamente radicato. È naturalmente plausibile che il “combinato disposto” con la situazione precedente delle nuove rigidità di intervento abbia peggiorato la situazione, ma pensare che la perpetuazione di quei modelli di reclutamento e di gestione del personale, che non si sono mostrati funzionali nel corso del tempo, possa essere la soluzione ai problemi che in gran parte ha contribuito a creare è un ragionamento che non sta in piedi. Da questo punto di vista, il rimprovero maggiore che si può fare ai vari tentativi di riforma portati avanti da Luigi Berlinguer in poi è di non aver mai nemmeno provato a utilizzare il processo riformatore per scardinare seriamente i meccanismi che permettevano una gestione della vita universitaria fondata sulla massima discrezionalità e sulla minima responsabilità di gran parte dei soggetti nelle decisioni strategiche. Per esempio un’applicazione, sicuramente superficiale ed eccessivamente monolitica rispetto alle reali necessità, dei criteri di valutazione della produttività per i dipartimenti, non potrà mai sostituire una seria e definitiva riforma del reclutamento nei termini che avevo prefigurato a suo tempo, ma quantomeno nel breve periodo potrebbe magari costringere le varie sedi a doversi confrontare con la necessità di rompere canali di contrattazione ormai consolidati tra gruppi di interesse. Ed è soprattutto per questa ragione che secondo me l’Agenzia per la valutazione difficilmente riuscirà a produrre risultati effettivamente incisivi. Se insomma una visione puramente economicistica della vita universitaria non è salutare né in definitiva praticabile, la necessità di acquisire consapevolezza del fatto che l’utilità sociale dell’insegnamento e della ricerca non è più definibile in via esclusiva da parte dei suoi operatori è necessaria. Da questo punto di vista, in Italia, sempre più chiaramente i discorsi ad ampio spettro sul capitalismo, le sue storture e i suoi destini non riescono a giungere poi a una riformulazione del ruolo del docente universitario che non sia ispirato al ritorno alla figura dello studioso “sovrano” nel proprio ambito disciplinare perché custode di una competenza pressoché esclusiva e quindi quasi unico adeguato giudice del suo operato nel corso del tempo. (Fonte: A. Mariuzzo, linkiesta 18-05-2012)
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