STUDENTI. NO AI PRESTITI D’ONORE. SI A TASSE MODERATAMENTE PIÙ ALTE |
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Che le tasse universitarie italiane siano troppo basse è già stato sostenuto su lavoce.info (vedi per esempio Checchi e Rustichini). Il problema è particolarmente impellente in un contesto di costante riduzione del Fondo di finanziamento ordinario, che pone un tetto massimo alla contribuzione e che viene sistematicamente sfondato dagli atenei. Tuttavia, il nodo è squisitamente politico, e come tale deve essere affrontato. Qual è il contributo studentesco ai bilanci universitari che si ritiene socialmente equo e sostenibile? Attualmente la contribuzione universitaria sul totale delle entrate incide per il 12,9 per cento a livello nazionale. Noi riteniamo che una soglia ragionevole che possa essere assegnata agli atenei come punto di riferimento sia quella del 20 per cento del totale delle proprie entrate: stiamo parlando di quasi raddoppiare le attuali tasse universitarie. D’altronde, anche gli altri paesi europei sembrano molto restii a seguire la Gran Bretagna sul terreno dell’innalzamento delle contribuzioni, e anzi alcuni vanno in direzione diametralmente opposta. Né la contribuzione nelle Ivy league universities americane raggiunge soglie di questa entità: nelle università di Harvard, Princeton e Yale le tasse universitarie (tuition fees) hanno un gettito (al netto di degli interventi di sostegno allo studio - financial aid) che copre rispettivamente l'8,3 per cento, il 7 per cento e l’8,9 per cento del totale delle spese. All’interno delle università ci deve essere spazio anche per i prestiti d’onore e per corsi di eccellenza che possono costare più di quelli standard e quindi richiedere prestiti d’onore. Se l’opt out parziale per alcuni corsi può apparire opzione ragionevole in linea di principio, ci sembra che il sistema proposto per la sua complessità e novità sia più adatto a un opt out completo di interi atenei, per esempio alcuni politecnici. Ma allora ci chiediamo se davvero sia desiderabile una riconfigurazione del sistema universitario italiano a macchia di leopardo, dove alcuni atenei, pur di origine pubblica, si muoverebbero in contesti di quasi mercato, mentre altri continuerebbero a essere sovvenzionati in massima parte dallo Stato. E quanto conterebbe nella scelta la composizione sociale dei territori in cui si trovano gli stessi atenei? L’innalzamento generalizzato non può essere il nuovo sistema di finanziamento standard di un sistema universitario che solo oggi, dopo decenni, ha raggiunto percentuali di iscrizioni “europee”, con il 70 per cento dei diplomati di scuola superiore che vi si iscrive e il 50 per cento che si laurea, e che quindi si avvia a migliorare per via “naturale” il problema della redistribuzione perversa. Oggi davvero l’università italiana è alla portata di tutti, ricchi e poveri, e un moderato aumento delle tasse è giusto e dovrebbe essere benvenuto anche dagli studenti di famiglie più povere: l’aumento delle tasse serve a far contribuire di più chi può. Il passaggio a un sistema di prestiti d’onore generalizzato rischia invece di farci perdere quel poco che abbiamo ottenuto in questi dieci anni: l’accesso generalizzato all’università, che è forse il frutto migliore della riforma del 3+2. Né vale a nostro parere l’idea di lasciare gli atenei liberi di fissare i livelli contributivi che vogliono, se non entro limiti ragionevoli, dal momento che percepiscono il contributo pubblico. Si persegue per questa via un obiettivo giusto (la differenziazione di sistema) con uno strumento sbagliato. La competizione tra gli atenei va stimolata con altri mezzi, tra cui quello principe è la distribuzione incentivante dei fondi pubblici. (Fonte: D. Checchi e M. Leonardi, lavoce.info 20-12-2011)
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