Un filo rosso lega il cosiddetto 3+2 di Luigi Berlinguer alla recente riforma dell'Università firmata Maria Stella Gelmini e Giulio Tremonti. È la convinzione che il sistema educativo debba rispondere a criteri mercantili. Così inizia un articolo de ‘Il Manifesto’ che riporta stralci di un testo di A. D’Orsi pubblicato su MicroMega. Il punto forte dell'analisi proposta dallo storico piemontese è la critica a una formazione basata su logiche mercantili che avrebbero caratterizzato le politiche statuali negli ultimi tre decenni per far tornare l'università e la ricerca luoghi in cui il sapere deve essere trasmesso per sviluppare attitudini critiche. Da quegli stralci estraggo i seguenti passi: “Le diverse riforme succedutesi negli ultimi anni hanno prodotto un progressivo peggioramento, sotto ogni aspetto, della scuola, dell'università e della ricerca in Italia. Che questi tre comparti, che sono decisivi in qualsiasi comunità organizzata statualmente, siano ancora funzionanti, pur malamente, malgrado i formidabili colpi ricevuti, dimostra che non di improvvide «riforme» più o meno «complessive» essi avevano bisogno, ma di finanziamenti adeguati, di impegno del personale (e per scuola e università, anche del corpo studentesco), e, a monte, di serietà del ceto politico. La premessa implica dunque un azzeramento degli ultimi quindici vent'anni, con il conseguente tentativo di riparare un terreno calpestato e devastato da politici incolti, sovente rozzi, assecondati da gruppi o singoli docenti. La cancellazione del sistema 3+2 (che, come ha impietosamente mostrato un caustico pamphlet di Gian Luigi Beccaria, è «uguale a zero») costituisce il punto essenziale di un programma che davvero vuole rilanciare l'università, il quale non può non configurarsi come un vero e proprio ritorno, ma non all'indietro, bensì al futuro, in quanto se non si correggono gli errori - gravissimi - del passato, non è possibile costruire un futuro e si andrà verso l'estinzione del sistema educativo e dell'intero comparto ricerca nel nostro paese. La logica che dovrà guidare le nuove politiche per l'università e la ricerca dovrà essere del tutto estranea a quella attuale, mercantilistica e aziendalistica, fondata su un malinteso concetto di efficienza, sull'esiziale combinato disposto tra lassismo e didattocrazia (come l'ha chiamata Giorgio Bertone), tra la mitizzata «autonomia» (fasulla e insieme pericolosa) e il persistente burocratismo centralistico. La nuova università dovrà altresì rifiutare l'idea di un sistema, opportunamente aziendalizzato, che gerarchizza gli atenei, in modo che ogni classe, ogni individuo, ogni ambiente sociale abbia la «sua» università. L'esame di maturità deve riguadagnare il suo significato di porta d'accesso all'età adulta e di verifica di un impianto culturale complessivo. Da quella porta larga oggi escono studenti che per la gran parte «prova» l'iscrizione a una facoltà universitaria, spesso in modo casuale, senza una base sufficiente per affrontare alcun corso di studio, ponendosi così le basi per quel catastrofico tasso di abbandono per ovviare al quale (tale la giustificazione fornita a suo tempo) si giunse al famigerato 3+2: che viene chiamato laurea breve. Sarà opportuno ribadire e precisare un punto fermissimo: la scuola, di ogni ordine e grado, deve formare, non deve produrre profitto. (...). Così come la ricerca non deve esser funzionale al mercato, ma piuttosto deve andare incontro ai bisogni della collettività: si fa ricerca scientifica per produrre conoscenza, che non sempre è direttamente e immediatamente «utile» a qualcuno, o fruibile dal mercato; la conoscenza, d'altronde, è utile in sé. (...) Dopo quel livello, dunque opportunamente riqualificato, deve partire la formazione universitaria. I corsi di studio o di laurea dovranno essere drasticamente ridotti, risalendo quella china esiziale che si è percorsa a precipizio negli anni scorsi, parcellizzando il campo del sapere, seguendo la dannosa utopia della specializzazione precoce, sulla base, sempre, dell'idolatria del mercato: ossia formare i discenti non sulla base di un progetto culturale, ma cercando di intercettare di volta in volta le «esigenze» del mondo produttivo. Se questo è stato il presupposto della «nuova università» italiana, rovesciandolo potremo procedere a un recupero non della «vecchia» ma di un’università che abbia in sé la propria dignità e la propria ragion d'essere. Per quanto concerne il reclutamento, mi sono convinto, nella mia carriera di docente, che la cooptazione, fatti salvi certi principi generali, sia un buon sistema, anzi sia il sistema più ovvio e sensato nell'università. La storia accademica, infatti, ci insegna che solo attraverso la cooptazione si creano le «scuole», e che solo gruppi di allievi che fanno comunità con i loro maestri, diventando a loro volta maestri, sono in grado di gareggiare virtuosamente tra loro. Se docenti mediocri reclutano allievi mediocrissimi, ne pagheranno il fio; anche in termini di perdita di capacità di attrarre discenti e dunque risorse. (...). Naturalmente occorrono dei criteri generali, che ciascun «gruppo disciplinare» indicherà in modo rigoroso, sulla base di indicazioni di massima del ministero, che garantiscano un'omogeneità di fondo, che non mortifichi tuttavia le specificità. Cooptazione non s’identifica con premiazione dei «candidati interni» ad ogni costo. Se sono capre, restino a brucare. (...) I ricercatori dovranno diventare una fascia docente a tutti gli effetti, con compiti ben individuati, doveri e diritti definiti, che lascino loro un congruo spazio per la ricerca, dunque con obblighi didattici ridotti rispetto alle altre due fasce. Si collega al reclutamento, la questione importante della mobilità. Sono propenso a stabilire come obbligatorio un periodo di soggiorno in sedi universitarie, italiane o straniere, diverse da quella in cui ci si è formati. Anzi, il ministero si dovrà impegnare a favorire con incentivi sostanziosi i docenti e con sostegni le facoltà per facilitare la mobilità interna”. (Fonte: A. D’Orsi, Il Manifesto 25-10-2011)
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