Home 2011 5 Settembre I finanziamenti alla ricerca negli Stati Uniti
I finanziamenti alla ricerca negli Stati Uniti PDF Stampa E-mail

Come risposta alla crisi economica dell'autunno 2008 il governo Obama aveva effettuato numerosi tagli, aumentando però i finanziamenti alla ricerca di base: 4,7 per cento in più a tutte le agenzie da spendere nei successivi due anni (per la National Science Foundation il 7 per cento in più nel 2009 e il 6,7 per cento in più nel 2010 rispetto al 2009).  Ma i tagli ora previsti in base all'accordo con i repubblicani per il rientro dal debito, che riguarderanno la ricerca, si stimano dell'ordine di 21 miliardi di dollari nel 2012. E gli accordi prevedono un risparmio di mille miliardi da qui al 2030: quindi un futuro preoccupante per un sistema che spende prevalentemente in funzione di progetti di ricerca. Obama non può non essere orgoglioso, come americano, del riconoscimento di cui godono le università del suo Paese, da tutto il mondo apprezzate come le migliori, e le più imitate, perché governate quasi esclusivamente da una valutazione oggettiva e funzionale del merito. Insomma, se l'America non ha esportato la democrazia, come ingenuamente qualcuno credeva di fare quasi si trattasse di un manufatto, o si è vista conquistare economicamente da un Paese a capitalismo pianificato come la Cina, di certo ha imposto a tutto il mondo i criteri per competere nell'eccellenza scientifica e culturale in generale.

Ci sono però anche motivi di frustrazione. In primo luogo perché gli investimenti in ricerca di base – che sono gli investimenti sul futuro che hanno senso, ed è etico fare con i soldi delle tasse dei cittadini – non hanno una ricaduta immediata. Di certo arriveranno innovazioni formidabili dalle scoperte generate dagli investimenti in progetti che riguardano dalla fisica alle nanotecnologie, dalle neuroscienze alla chimica, dalla genomica alla matematica applicata all'information technology. Ma non si sa quando. E soprattutto, dato lo scenario mondiale, non è detto che saranno gli Stati Uniti a godere delle ricadute di queste innovazioni. Come è stato per quasi tutto il Novecento. Perché nel decennio scorso sono stati fatti sbagli che potrebbero avere pesanti conseguenze per il «Paese delle opportunità».

In primo luogo Obama si è ritrovata tra le mani una situazione di generale crisi della ricerca scientifica, e dei rapporti tra scienza e politica. Nel suo discorso d'insediamento disse che era venuto il momento di «rimettere la scienza nel suo giusto posto». Che cosa voleva dire? Semplicemente che andavano riparati i danni causati dall'amministrazione Bush, esercitando un controllo politico e poliziesco sulla ricerca e sul flusso di scienziati dall'indomani dell'11 settembre.

Nel corso dei quattro anni successivi all'attacco alle Twin Towers, nelle università americane crollò il numero di studenti stranieri iscritti, e il numero di ricercatori provenienti soprattutto dai Paesi non europei. Segretazione dei risultati, controllo sull'uso di alcune tecnologie e reagenti, sorveglianza sugli studenti e ricercatori per prevenire il rischio di nuovi attacchi terroristici e addirittura il tentativo di centralizzare il processo di valutazione dei progetti di ricerca: la comunità scientifica non ne poteva più, e lo dichiarava pubblicamente. Vedeva pesantemente minacciato la condizione fondamentale per lo sviluppo dell'eccellenza: la libertà della ricerca scientifica.

In alcuni settori, come la medicina rigenerativa, dove l'amministrazione Bush ha tenuto una politica proibizionistica relativamente alla ricerca con staminali embrionali, le università statunitensi hanno perduto scienziati di punta che sono emigrati in Europa e a Singapore.

Gli effetti degli interventi di controllo si sono alla fine sommati con gli effetti della crisi economica del 2008, e con la scelta da parte di molte aziende statunitensi di usare forza lavoro intellettuale direttamente nei Paesi che nel frattempo la stavano producendo e dove costa meno (India, Russia, Filippine eccetera). A questo si aggiunga che alcuni Paesi, soprattutto orientali ma non solo, si sono trovati a registrare uno sviluppo economico che offriva maggiori opportunità per i ricercatori o i professionisti emigrati negli Stati Uniti. Così dal 2009 si parla di fuga di cervelli "all'incontrario" (reverse brain drain): figure di altro profilo scientifico e tecnico che lasciano gli Stati Uniti e che trovano nei Paesi economicamente in crescita centri di ricerca e opportunità di impiego competitive con le offerte statunitensi.

Nel momento in cui il modello americano di uso dell'intelligenza necessaria per far funzionare le knowledge based economies risulta globalmente vincente, gli Stati Uniti rischiano dunque di non esserne più alla guida? L'impressione è che quello che preoccupa Obama – a sua volta un professore universitario, non dimentichiamolo – sia il fatto che quel modello si è evoluto, sin dai Padri Fondatori, come parte integrante del modo di essere della democrazia americana. Ed è stato, attraverso un processo efficiente e affidabile di formazione delle élite intellettuali e tecniche, il principale strumento che ha garantito a quel Paese anche una certa leadership mondiale sul piano dell'etica pubblica.
(Fonte: G. Corbellini, Il Sole 24 Ore 14-08-2011)