Tre riflessioni sul nepotismo accademico Stampa

Possiamo quindi domandarci: il "nepotismo" che è così diffuso nel Paese è causa o conseguenza della nostra mancata crescita? Propongo tre distinte riflessioni sui diversi aspetti del problema. Anzitutto, se Allesina (il professor Stefano Allesina - dell'università di Chicago - ha dimostrato che c'è tanto "nepotismo" nell'università italiana. In particolare, nelle facoltà più professionali: medicina, giurisprudenza, e ingegneria) avesse "normalizzato" la sua ricerca rispetto alla realtà del Paese avrebbe probabilmente scoperto cose molto più divertenti. Ad esempio, che non è l'università il solo luogo dove i posti di lavoro si "ereditano". Ciò che è vero per le cattedre di medicina, diritto e ingegneria è comunque vero per quelle tre professioni, anche fuori dall'università. In altre parole, più che la cattedra è l'avviamento professionale ciò che conta. In Italia, l'avviamento è un bene poco negoziabile su un buon mercato e quindi conviene passarlo di padre in figlio. Ma sono tante le cose che passano da padre a figli: non capita solo a notai e tassisti, come si diceva una volta...

La seconda riflessione riguarda il tema più generale dei rapporti tra professioni e accademia. Vogliamo docenti universitari che facciano anche la professione, oppure no? Oppure, che alternino le due attività, ma non le svolgano mai in contemporanea? Di queste cose, ogni tanto si discute e poi si smette di pensarci. Cosa dice di nuovo in merito la riforma Gelmini?

Terza riflessione, concentrandosi sulla necessità di migliorare l'università. Poiché nel caso italiano il "nepotismo" non sembra misurare un'autentica trasmissione, di padre in figlio, di doti di ricerca scientifica e di capacità didattica, qual è il miglior rimedio? Altrove, qual è il rimedio prevalente per evitare il conseguente decadimento delle istituzioni universitarie? Se rileggiamo le 30 pagine che il rapporto Ocse sull'Italia - pubblicato il 9 maggio scorso - ha dedicato ai problemi della nostra università, è evidente che il principale rimedio sarebbe di stimolare la competizione tra le università, che necessariamente porterà ciascuna di esse, e di certo quelle che vorranno entrare nella rosa ristretta delle migliori, a sottolineare soprattutto le doti e le risorse scientifiche e didattiche dei loro docenti. Vantandosi - se e quando ciò fosse vero - anche delle eventuali relazioni familiari di alcuni di essi (com’è noto, il "figlio di... " lo puoi a volte vedere riferito a grandi personaggi, in molti campi dell'attività intellettuale).

In assenza di ciò, non sapremmo d'altra parte come reagire alla provocazione di Allesina. In un’università a qualità casuale (e casuale vuol dire casuale, e non pessima!) com’è diventata quella italiana; dove cioè anche nella stessa sede e financo negli stessi corridoi, possono esservi docenti di qualità molto diversa, come si fa a parlar male del "nepotismo"? Se guardo sul vocabolario, vedo che quell'espressione significa un sistema in cui uno mette in cattedra suoi familiari che non lo meritano. Ma nel nostro Paese, non si può mai escludere il contrario, cioè che i "nipoti" siano migliori dei nonni...
(Fonte: G. Vaciago, Il Sole 24 Ore 14-08-2011)