Eliminare il valore legale del tittolo di studio? Stampa

L'eliminazione del valore legale del titolo di studio è il miraggio permanente del sistema universitario italiano, auspicato da tutti, attuato da nessuno. Ma cosa significa? Di che si tratta? Che cosa cambierebbe con la sua attuazione? Anche in questo sito se ne parla come di una panacea dei mali dell’università italiana. Personalmente, non ho mai capito perché.

Il valore legale del titolo di studio determina la certezza legale del possesso, da parte dei titolari, di una preparazione professionale in conformità agli standard fissati dall’ordinamento didattico nazionale. La partecipazione a concorsi pubblici e l'accesso ai concorsi per l'iscrizione agli albi professionali richiede molto spesso il possesso di un titolo di studio rilasciato da una scuola o università riconosciuta nazionalmente. Spesso inoltre un valido titolo di studio è richiesto da imprese private, anche nei casi in cui non ne hanno l'obbligo.

Quindi il valore legale ha tre effetti: (1) la necessità per un lavoratore in molti casi di possedere un titolo proveniente da una scuola "riconosciuta" per accedere a certi settori del mercato del lavoro; (2) la necessità (di fatto, non di diritto) per chiunque voglia istituire una scuola o università privata di ottenere la "certificazione" ministeriale, e quindi sottostare a certi direttive ministeriali. Infine, (3) la parificazione nei concorsi della qualità dei titoli di studio (rilasciati dalle scuole riconosciute), che contano tutti allo stesso modo; in generale la certificazione crea un appiattimento nella percezione della qualità dei vari titoli di studio anche nel settore privato. A mio parere nessuno di questi effetti costituisce un grosso problema.

I primi due problemi sono collegati, quindi li affronterò assieme. La necessità di un titolo di studio per praticare certe mansioni non è una prerogativa italiana. Per esempio, negli Stati Uniti, per accedere alla professione di avvocato, occorre superare il “bar exam”, una sorta di esame d’iscrizione all’albo. In quasi tutti gli stati, l’iscrizione all’esame richiede il titolo di studio acquisito da una Law school accreditata dall’albo; esistono dozzine e dozzine di scuole accreditate, alcune ottime, altre mediocri. Quindi, il titolo di diplomato in legge ha valore legale. Sempre negli Stati Uniti, non si può praticare la professione medica senza aver prima acquisito un titolo da una Medical school. Quindi il titolo di dottore acquisito in una Medical School, ha valore legale. Infine, la parrucchiera di Lower Manhattan che mi taglia i capelli tiene accanto allo specchio un certificato ben incorniciato del dipartimento sanitario dello stato di New York che certifica il titolo conseguito; la certificazione è necessaria per praticare la professione di parrucchiera; quindi, il titolo di estetista conseguito in 6 mesi al community college di Brooklyn ha valore legale.

La differenza con il modello americano è che la certificazione dei curriculum in Italia è fatta centralmente, mentre negli Stati Uniti viene fatta in certi casi a livello federale, in certi casi a livello statale o locale, in certi altri casi da associazioni professionali di natura privata ma di fatto a carattere pubblico. In sostanza non mi pare una gran differenza. È vero che per aprire un’università privata in Italia occorre un'approvazione del ministero, e quindi, di fatto, adeguare i curriculum a certi requisiti stabiliti centralmente. Ma i requisiti sono minimi. Si ricordi che vale il principio della libertà accademica (che è buona cosa): i contenuti dei corsi sono stabiliti dal docente incaricato, non dal ministro. Per esempio, anche se la Bocconi, per mantenere il riconoscimento ministeriale, è tenuta ad insegnare diritto commerciale ai laureandi in Economia e Commercio, i contenuti del corso possono essere ben diversi da quelli dello stesso corso insegnato a Ca' Foscari.

Purtroppo è possibile che il ministero usi in modo troppo "liberale" la propria discrezionalità di certificazione, e certifichi università istituite da "amici" e neghi invece la certificazione a università "non desiderate" anche se meritevoli. Quindi il problema non è la certificazione in sé, ma la qualità della certificazione. In molti casi meglio sarebbe se la certificazione fosse affidata al mercato, non solo perché il mercato ne migliora la qualità, ma anche perché nel caso delle università pubbliche l'ente certificante e quello certificato sono governati dalla stessa persona (un interessante caso di conflitto di interessi). Si noti infine che certificazione statale e valore legale non implicano l'un l'altro: la certificazione statale è possibile anche abolendo il valore legale, per esempio come "servizio" offerto al settore privato (come per esempio per l'approvazione dei farmaci). Ed è anche possibile mantenere il valore legale, prevedendo però che la certificazione sia effettuata da enti privati.

Riassumendo, cosa si otterrebbe eliminando la necessità di possedere un titolo rilasciato da una scuola certificata? Commercialisti con bisturi e stetoscopio? Laureati in legge al tecnigrafo a progettare ponti e grattacieli? Geometri a difendere cause in tribunale? Questo non succede e non è possibile in nessun paese al mondo, salvo poche eccezioni. Anche se fosse possibile, l'aumento della concorrenza nel mercato delle professioni che ne risulterebbe, sarebbe minimo. Anche ora nessuno vieta a un’impresa edile di assumere un non laureato per effettuare i calcoli strutturali di un edificio (se lo ritiene competente in calcoli ingegneristici). Certamente, la “firma” del progetto deve essere poi effettuata da un ingegnere iscritto all’albo (che può essere invece un incapace). Similmente esistono certamente casi di persone che vanno a “curarsi” da ciarlatani, laureati o meno (ricordate Di Bella?). Inoltre, sembra anche che il titolo di studio conti sempre meno nelle ricerche di lavoro (si veda a riguardo quest’ articolo da Repubblica). Quindi, la rimozione del valore legale avrebbe effetto solo per i posti soggetti a concorso pubblico, che, è vero, non sono pochi, ma quale sarebbe il suo vero impatto? Io mi azzardo a dire che sarebbe minimo. Non credo che molti laureati in ingegneria aspirino a partecipare ai concorsi per giudice.

Sul terzo problema, la parificazione di tutte le università buone e mediocri nei concorsi, va detto che in senso stretto non è vero che esiste parificazione: esistono università certificate e università non certificate (che però spariscono dal mercato, quindi non si notano). Ma anche ignorando questo, va notato che il requisito del titolo di studio non è l'unico requisito richiesto, non solo nel settore privato ma anche in tutti i concorsi pubblici. Ci sono sempre altri test, esami, e titoli necessari a comprovare la qualità del candidato; presumibilmente, chi ha ricevuto una buona istruzione, farà meglio degli altri candidati. Esiste anche spesso una componente di valutazione discrezionale della commissine esaminatrice. Il problema dei concorsi pubblici non è che tutte le università sono parificate nei punteggi, ma l'assenza di meritocrazia ed incentivazione nella gestione della pubblica amministrazione. Per un dirigente della p.a. non fa nessuna differenza assumere il migliore degli iscritti a concorso o l'incapace figlio del cugino. E il migliore degli iscritti a concorso non è necessariamente laureato a Harvard.

Credo si faccia molta confusione sul significato di valore legale. Con l'abolizione del valore legale molti intendono una serie di misure ad esso collegate, ma che con esso hanno poco a che fare. In quasi tutti i paesi del mondo esistono leggi che proibiscono l’esercizio di molte professioni senza un adeguato titolo di studio e una licenza. Parlare troppo del valore legale del titolo di studio significa dimenticare il vero problema del mondo accademico italiano, e cioè la mancanza di concorrenza fra atenei, ed il vero problema della pubblica amministrazione e delle professioni in genere: mancanza di incentivi, ordini professionali che limitano la concorrenza. Parliamo di questo, please. (Fonte: A. Moro, noiseFromAmerika 09-06-2011). Commenti all’articolo. Sull’argomento si veda anche il resoconto di una conferenza e l’ampio dibattito che ne è seguito su nfa, in cui si segnala l’intervento di A. Figà Talamanca sotto riportato.

Credo di aver già espresso la mia opinione su queste pagine in merito al valore legale dei titoli di studio universitari, ma tanto vale ripetermi (lo fanno tutti). Credo che, con le dovute eccezioni che riguardano prevalentemente le professioni sanitarie, si debba evitare di conferire a specifiche lauree il monopolio di alcune attività. Ad esempio fino a una ventina (o forse meno) di anni fa non c'era nulla che il dottore commercialista potesse fare che non  potesse fare un ragioniere non laureato, o, in alcuni casi un avvocato. L'ordine dei commercialisti non possedeva il monopolio di nessuna attività. La situazione è cambiata, a mio parere in peggio, quando si è cominciato a richiedere un diploma universitario triennale per accedere alla professione di ragioniere e quando si sono poste ulteriori barriere per la professione di revisore contabile (che non è piu' aperta agli avvocati). Storture di questo genere sono associate all'intreccio perverso tra ordini professionali e ordinamenti didattici per le lauree. Credo che siamo l'unico paese europeo dove è necessaria una laurea specifica per diventare attuario, una professione normalmente accessibile ai laureati in matematica (attraverso esami non facili). Non si sa perché esista l'ordine dei chimici, cui non può accedere un laureato in scienze dei materiali che risulti laureato nella "classe" di fisica, o l'ordine dei biologi cui non può accedere un laureato in biochimica. E' recente l’istituzione dell'ordine degli assistenti sociali cui non si può accedere che con la laurea specifica, triennale e magistrale. Un percorso come laurea triennale in fisica seguita da laurea magistrale in ingegneria nucleare non da' accesso all'ordine degli ingegneri (va bene invece se la laurea triennale è in una qualche ingegneria). Continuano a muoversi corporazioni e associazioni di laureati per creare nuovi ordini professionali. Sulla stessa linea si muovono molti sindacati del pubblico impiego (quando non chiedono sanatorie). Non so a che punto siano arrivati i giornalisti nel richiedere la laurea per scrivere sui giornali, ma sono all'opera da decenni. Insomma mentre tutti parlano di abolire il valore legale del titolo di studio nessuno si cura di combattere i tentativi di limitare la concorrenza ai laureati "doc", da parte dei non laureati o da parte di chi non possiede la laurea che si crede adatta per un dato mestiere.

Le mie proposte di attenuazione (non abolizione che non si sa che vuol dire) del valore legale del titolo di studio, (fermo restando la disciplina delle lauree magistrali a ciclo unico previste dall'Unione Europea) sono:

1) Prevedere che chi è stato iscritto per cinque anni a un ordine professionale riservato ai laureati triennali possa sostenere l'esame per entrare nell'ordine corrispondente riservato ai laureati magistrali.

2) Prevedere che l'accesso a un ordine professionale non sia più legato alla denominazione della laurea ma soltanto ai contenuti specifici misurati in termini di crediti, e che ogni laurea possa essere "integrata" con il conseguimento di ulteriori crediti attraverso quello che il TU chiamava "iscrizione a corsi singoli".

3) Applicare i criteri 1) e 2) ai concorsi pubblici, ad esempio un impiegato con laurea triennale ed esperienza di lavoro di alcuni anni dovrebbe poter partecipare ai concorsi in cui si chiede la laurea magistrale.

Queste proposte tendono a salvare la laurea magistrale dall'affollamento derivante dal suo eccessivo valore legale. Solo affrontando il problema dell'eccessivo valore legale della laurea magistrale si potrà ottenere l'effetto di una proporzione alta (2/3) dei laureati triennali che scelgono di non proseguire. Questo consentirebbe di chiudere molti corsi di laurea magistrali con risparmio di spesa e miglioramento della qualità dei corsi di laurea restanti.