Proposta di una riforma con ridimensionamento dell’università Stampa

In seguito alle agitazioni studentesche negli anni ’60, si è creduto opportuno estendere l’università aprendo nuove sedi, semplificando i meccanismi d’ammissione ed estendendo le professioni per esercitare le quali è necessaria una laurea, contestualmente a un processo analogo coinvolgente l’istruzione media. Se questa politica poteva partire da intenzioni lodevoli come quelle di aumentare il livello d’istruzione ed eliminare le barriere di classe, essa si è rivelata però nel suo complesso fallimentare proprio in relazione a questi suoi obiettivi. In primo luogo, invece di promuovere il merito, lo si è di fatto svilito, rendendo più facile l’ammissione all’università e il percorso verso la laurea. Le conseguenze dirette di quest’aumento indiscriminato degli studenti sono state classi e corsi di laurea affollati, con conseguente diminuzione della qualità dell’insegnamento. L’elevato numero di studenti porta a un elevato tasso di abbandoni e dispersioni, nonché a un’inflazione di titoli e di laureati tale da sbilanciare lo stesso mercato del lavoro. Per esempio, la diminuzione degli standard di qualità invece d’ottenere maggior mobilità sociale, ha ridotto l’incidenza del merito, accrescendo il peso delle condizioni economiche di partenza al fine d’intraprendere le libere professioni. D’altra parte, la pazza corsa alla laurea ha fatto sì che i lavori manuali, considerati meno “nobili”, siano disertati, relegandoli o a una ristretta casta di specialisti, o a una massa intercambiabile di manodopera sempre meno qualificata. In sintesi, la perdita di valore attribuito al titolo di laurea ha danneggiato proprio le fasce economicamente e socialmente più deboli.

In terzo luogo, il proliferare ingiustificato di sedi locali, di facoltà e corsi, ha provocato una vera e propria esplosione di parassitismi, clientelismi, baronie, corruttele, sprechi, che hanno danneggiato notevolmente la società italiana, sia direttamente con lo sciupio di risorse e denaro pubblico, sia indirettamente, ma più pesantemente, con l’arrecare alla gioventù italiana una preparazione insufficiente e una desolante mancanza di opportunità sia nel campo della ricerca che nel campo del lavoro. Altrettanto distruttivo si sta rivelando il susseguente esodo di elementi validi verso nazioni straniere: un’emorragia che può risultare mortale per l’Italia non solo dal punto di vista culturale e scientifico, ma anche e soprattutto dal punto di vista tecnologico ed economico.

Per invertire questa preoccupante tendenza, è opportuno adottare un principio opposto, ossia quello di tornare a una dimensione più umana e più efficiente dell’università. Invece dell’ammissione indiscriminata e caotica, una forte selezione iniziale con una maggiore attenzione verso i singoli studenti. In luogo della dispersione delle risorse umane e finanziarie sul territorio, la concentrazione e la formazione di un numero limitato di poli d’eccellenza. Al posto della crescente deregulation e del ritiro delle istituzioni dalla società, l’inquadramento e l’organizzazione dell’istruzione superiore e del suo indotto, mediante l’intervento massiccio dello Stato.

La proposta è di agire in due direzioni.

Da una parte, ridurre di numero le università, limitandosi a pochi poli d’eccellenza distanziati sul territorio e comprensivi di tutte le strutture d’istruzione superiore ivi presenti, consentirà di snellire la burocrazia e limitare gli sprechi, dal momento che tutte le strutture in un’area geografica sarebbero coordinate da un unico centro e che le risorse sarebbero concentrate su pochi punti ma in maggior numero. Queste università raccoglierebbero tutte le loro strutture in una o due città vicine, consentendo una maggior integrazione tra le facoltà e gli studenti e senza creare differenze tra sedi staccate che spesso, a parità di dignità nominale, finiscono per fornire servizi di qualità inferiore.

Dall’altra, alle università occorre affiancare altre due strutture: le scuole superiori di scienze applicate e le scuole normali superiori. Le prime, sul modello delle Fachhochschulen germaniche, rileverebbero il ruolo positivo delle sedi staccate, essendo caratterizzate da una maggior diffusione e da un maggior radicamento sul territorio. Loro compito sarebbe di tenere quei corsi di laurea breve a immediato sbocco professionale (come, ad esempio, Infermieristica o Scienze dell’Educazione). Essi si configurerebbero come un’istruzione terziaria professionale, ovvero un canale del tutto separato dall’Università. In questo modo, questi corsi eviterebbero di espandere oltre necessità le università, e, al tempo stesso, rimarrebbero più vicini alle necessità lavorative. Un esempio già esistente nel mondo italofono è quello della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana. Le seconde, sul modello delle Grandes Écoles francesi, avrebbero il compito di raccogliere e riorganizzare, su scala nazionale e in maniera sistematica, il gruppo imperfetto e confuso delle cosiddette scuole d’eccellenza. Appoggiandosi alle strutture universitarie locali, queste scuole fornirebbero una formazione d’eccellenza ai migliori studenti della nazione, selezionati mediante un rigoroso concorso d’ammissione e considerati e stipendiati in qualità di pubblici funzionari, così come avviene in Francia. Questi istituti si caratterizzerebbero anche per la particolare attenzione dedicata alla ricerca fin dall’inizio del percorso formativo, e dovrebbero costituire insieme la vetta e il fiore all’occhiello del sistema d’istruzione superiore nel suo complesso. Queste tre classi di strutture dovrebbero mantenersi come tre sistemi autonomi, ma in forte interscambio tra di loro, in modo da costituire un unico sistema complesso, articolato e flessibile.

Oltre a ciò s’impongono altre due misure di taglio e ristrutturazione: in primis, l’estensione del numero chiuso a tutti i corsi di laurea. In questo modo si eviterebbero sia l’inflazione di titoli sia il proliferare di giovani laureati in discipline che, fisiologicamente, offrono pochi sbocchi, come ad esempio quelle letterarie. Infine, la riduzione, obbligatoria per tutti gli atenei, dei corsi di laurea dovrebbe razionalizzare l’offerta formativa, eliminando tutta la congerie di corsi e facoltà costituiti dalle singole università a scopo clientelare. Queste misure potranno parere brutali, ma offrono l’indubbio vantaggio di risparmiare risorse preziose e ridistribuirle in modo più efficace e a beneficio quasi esclusivo dei capaci e dei meritevoli. In questo senso, il numero chiuso non sarebbe affatto una misura classista, se fosse applicato con giustizia e imparzialità, bensì una garanzia del ricambio della classe dirigente.
(A. Virga, centro studi l’arco e la clava 01-02-2011)