Intervista al Sen. Nicola Rossi Stampa

Tremonti ha detto che le risorse per l’università arriveranno con il mille proroghe di fine anno ed è sbucata l’ipotesi di vendere le frequenze televisive per fare cassa, un’ipotesi già avanzata da Bersani giovedì in articolo sul Corriere della Sera. Nicola Rossi, senatore del Pd e membro dell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà, è contrario. «L’università italiana? È morta di sanatorie. Il paese deve scegliere: affrontare problemi socialmente scomodi oppure collocarsi sulla frontiera della conoscenza. Se non si fanno riforme vere, i prossimi vent’anni sono quelli che ci separano dalla povertà».

Nicola Rossi, le sembra una strada percorribile per salvare la riforma?

No. La vera questione è: quali spese devono essere coperte con quelle risorse? Se sono spese una tantum allora è comprensibile; ma se sono spese a carattere ricorrente, allora non solo la cosa non è comprensibile, ma personalmente non la condivido affatto. Le dirò di più: è molto grave che si sia anche solo proposta una cosa di questo genere, ben sapendo che con entrate una tantum non si possono coprire spese correnti.

Decleva, su questo giornale, ha snocciolato una lunga serie di tagli: -1,3 miliardi sul Fondo di finanziamento ordinario rispetto al 2008; -139 milioni sul fondo per le borse di studio e -45 milioni sul Fondo per le Università non statali.

Non lo discuto, ma non stiamo parlando di questo. Le entrate dalla vendita delle frequenze sono utilizzabili per finanziare l’università? Sono certamente utilizzabili per finanziare, ad esempio, progetti di ricerca; anzi sarei contento se fosse così. Ma per coprire spese correnti ci vogliono entrate correnti, c’è poco da fare. Se si pensa a quelle entrate per coprire gli stipendi dei docenti da assumere, questa è una cosa da evitare.

A bloccare tutto è stato l’emendamento, criticato per essere una sanatoria, che disponeva l’assunzione con contratto a tempo determinato dei ricercatori. Non ci sono i soldi, ha detto la Ragioneria.

Come darle torto.

Ma allora lei cosa pensa, nel merito, del provvedimento sui ricercatori

Guardi, io penso soprattutto una cosa: che se ci sono dei posti liberi in università, questi vanno lasciati alla piena competizione tra i candidati. Non credo che chi è già dentro abbia titoli superiori a chi è fuori. Ci sono posti di professore associato da assegnare? Si aprano concorsi a tutti, beninteso se ci sono i soldi per finanziarli. Ma credo che in questo caso quei soldi non ci siano. La realtà è che l’università italiana è morta di sanatorie.

Di fatto però la maggioranza di questi ricercatori ha in mano insegnamenti rilevanti nel complesso dell’attività didattica.

Effettivamente è così. Ma questo non costituisce titolo perché continuino ad occupare quei posti, se fuori c’è qualcuno che potrebbe farlo meglio. L’università è il luogo per eccellenza in cui la competizione dovrebbe essere il pane quotidiano. Il vero elemento paradossale è che i docenti universitari oggi non sono più sensibili a questo fatto.

La riforma dunque secondo lei è su un binario morto?

Io penso che la riforma Gelmini sia molto timida, ma contenga molte cose buone e urgenti. La modalità con cui si è affrontato il tema dei concorsi, il proposito di trasformare il ruolo dei ricercatori, il tentativo di introdurre elementi di merito… sono tutti elementi positivi che l’università italiana aspettava da chissà quanto. Personalmente credo che ci sia ancora molto da fare, non solo per trasformare l’università italiana in università d’eccellenza, ma per salvarla dal baratro in cui stava precipitando. Detto questo, non credo che quell’emendamento andasse nella direzione giusta, perché avrebbe perpetuato il fatto che l’ingresso nell’università non è così competitivo come dovrebbe essere.

Esiste il rischio che si riproduca nell’università una situazione analoga a quella dei precari nella scuola?

Il paese deve scegliere: affrontare problemi socialmente scomodi oppure collocarsi sulla frontiera della conoscenza. Non si possono avere tutt’e due le cose. Possiamo anche decidere di assumere tutti i pecari della scuola e tutti i ricercatori dell’università; diamo però per scontato che su quel fronte non parteciperemo mai alla competizione internazionale.

Come si concilia nell’attuale fase italiana il dilemma della scelta tra sostegno allo sviluppo e rigore della finanza pubblica? Tremonti ha detto che ora parte la fase dello sviluppo.

Mi auguro che sia così perché ne avremmo realmente bisogno. Ma la fase dello sviluppo non è che ha bisogno di chissà che cosa dal punto di vista delle risorse. Il problema è che bisogna andarle a trovare, e ogni ministro di spesa, nel momento in cui chiede risorse, dovrebbe riconoscere che dentro il proprio ministero ha sprechi enormi. L’Italia spende più del 50 percento del proprio Pil in spesa pubblica. Tremonti (e Berlusconi) dovrebbero saperlo.

Cosa suggerisce?

Io capisco che nell’emergenza il taglio lineare sarebbe la prima cosa che mi verrebbe in mente di fare, ma qui ci sarebbe bisogno di innumerevoli tagli “chirurgici”, andando a guardare nelle pieghe di ogni ministero e amministrazione. Mi rendo perfettamente conto che politicamente si affronterebbero situazioni molto difficili, ma la mia personale valutazione è che da 15 anni a questa parte nessuna maggioranza sia in grado di fare ciò che si dovrebbe. Tutto ciò che potrebbe incidere in modo significativo sulla spesa pubblica attuale e dunque sulle prospettive di crescita del paese, non si fa, perché politicamente è pesante e non paga.

«Chi tiene stretta la borsa tiene stretto il potere» ha detto Bossi di Tremonti, paragonando il ministro amico al cancelliere Bismarck.

È vero, ma è un potere molto debole. Perché sono 15 anni che facciamo, e secondo me giustamente, rigore e disciplina di bilancio, ma non facciamo mai le riforme strutturali di cui avremmo bisogno. E il risultato è sempre il solito: cresciamo di mezzo punto, di un punto al massimo, sempre meno della media europea. Proiettando questo ritardo su vent’anni, abbiamo la differenza che passa tra essere poveri ed essere ricchi.

La mancanza di una riforma ha lasciato l’università in una situazione di equilibrio per tutti questi anni. E se ora dovesse saltare?

Non so che scenario ci attende, ma so che ministro e governo dovrebbero prendere in maniera chiara ed esplicita le difese degli studenti. Gli studenti hanno diritto ad un servizio pubblico, cioè il diritto di studiare, e i ricercatori incrociano le braccia? Vorrà dire che i docenti, per una volta tanto, insegneranno un po’ di più e faranno i doppi turni. Gli studenti hanno diritto a ricevere quel servizio, e io credo che il governo e il ministro su questo punto dovrebbero essere inequivoci.

Cosa intende dire, professore?

Se le università dicessero che non sono in grado di rendere quel servizio, se ne traggano le conseguenze: vadano verso un restringimento delle proprie attività. Quanto corsi di dottorato inutili facciamo? Quante facoltà di troppo abbiamo in molte università? Questa situazione nella quale siamo incorsi potrebbe essere paradossalmente una fonte di chiarezza. Purtroppo però, che io ricordi, nessun ministro ha mai fatto dei diritti degli studenti il proprio oggetto di attività.

(F. Ferraù, ilsussidiario.net 18-10-2010)