Ministoria di 50 anni dell’università Stampa
L’Università italiana ha cambiato faccia, diventando università di massa, sul finire degli anni ‘60, per la precisione con la liberalizzazione degli accessi alle facoltà del 1969. Nel decennio successivo vi furono numerose assunzioni, per lo più necessarie alla luce dell’aumento degli iscritti, e condotte sulla base di un sistema (3 vincitori per ogni concorso: il primo assunto e due idonei in cerca si sede) che con la legge 382 del 1980 cambiò radicalmente. Dal 1980, infatti, un meccanismo de facto equivalente a una gigantesca ope legis consentì l’ingresso in ruolo (a vita) di migliaia di “precari”, che negli anni immediatamente seguenti, superando un semplice esame, intasarono i ranghi dell’accademia. Con l”80 fu anche istituita la tripartizione del corpo accademico in ordinari, associati e ricercatori, questi ultimi senza alcun onere didattico, e votati esclusivamente alla ricerca (al massimo ad attività di supporto alla didattica svolta da associati e ordinari). Seguì un fisiologico periodo di reflusso negli ingressi, favorito anche dal fatto che a partire dal 1990 ai ricercatori fu consentito di insegnare, dapprima con modesti onorari, poi gratuitamente, ma dando loro la fondata prospettiva di costruirsi una piattaforma per una futura progressione di carriera. Così andò in effetti per alcuni (e non sempre per i più meritevoli), ma non per tutti. Gli anni ‘90 videro due eventi di grande portata, entrambi legati al nome del ministro Luigi Berlinguer: da un lato la cosiddetta “autonomia” degli Atenei, di fatto un decentramento delle risorse che risultò nell’economia fino all’osso in alcune sedi e nello spreco in altre (un fenomeno che perdura sino ad oggi), dall’altro l’introduzione del sistema “3+2″, che ci ha omologato in larga parte all’Europa sul piano formale, agganciandoci al cosiddetto e famigerato “Processo di Bologna”, ma è stato messo in atto nel modo più dissennato: nessuna riorganizzazione sostanziale della didattica, ovvio allungamento del percorso di laurea, moltiplicazione e conseguentemente assottigliamento degli esami (si veda quanto ne dice Umberto Eco), curricula spesso simili a ircocervi: la proliferazione di insegnamenti che ha preceduto e seguito questa riforma, l’introduzione dei cosiddetti Crediti Formativi, e la conseguente, necessaria riorganizzazione dei piani di studio, hanno gettato l’università tutta in un cantiere dal quale non si è ancora ripresa. E soprattutto hanno trasformato l’idea stessa dell’università (specie per quanto riguarda la formazione umanistica), esortando il discente a collezionare crediti (come i punti del supermercato) anziché a formarsi come persona, e marginalizzando il docente in una sorta di travet dal quale ci si aspetta non già un contributo alla crescita della società, sebbene l’ordinata somministrazione e amministrazione di un nucleo di nozioni di base a studenti sempre meno preparati. Di questo ha discusso recentemente, con somma lucidità, Carlo Galli. Negli anni si sono succedute poi una serie di piccole riforme dei concorsi, i quali nel 1998 compirono il grande salto passando da “nazionali” a “locali”, con un semplice cambio di modalità (nel senso dell’agevolazione) dei fenomeni corruttivi e dei favoritismi. Il particolarismo locale (che ancora non passava per federalismo) condusse poi a una proliferazione di sedi decentrate o tout court nuove anche in città o cittadine dove esse il più delle volte non avevano alcuna ragion d’essere; ma è vero che non di rado in sedi piccole o marginali sono stati sistemati ricercatori e docenti di prim’ordine, con tanti saluti all’intenzione di creare “centri di eccellenza”, e con ulteriori saluti alla possibilità di creare veri centri di ricerca pura quali proliferano in altri Paesi (il CNRS in Francia, il Max-Planck in Germania). L’ultimo decennio ha visto un fenomeno singolare: prima una serie di concorsi condotti alla vecchia maniera, ovvero con “bine” o “terne” di vincitori, in cui gli idonei, senza ulteriori ambagi o dopo qualche tempo di purgatorio, venivano chiamati dalla loro università di origine (o, per i più fortunati, da un’altra disponibile); poi una progressiva contrazione e infine un blocco prolungato (per le due fasce della docenza), cui gli Atenei si sono sottratti solo tramite apposite deroghe; oggi non abbiamo altro che timide infornate di nuovi ricercatori (sempre presentate come “l’ultima spiaggia”) E poi, come si sarà capito, sono cambiati i numeri: a un decennio di vasto reclutamento (gli ‘80), nel quale gli insegnamenti e i settori scientifico-disciplinari si sono moltiplicati senza criterio (favorendo la stabilizzazione di personale inutile e, sul piano culturale, una parcellizzazione del sapere che, almeno negli humaniora, ha pochi riscontri in altri Paesi), ha fatto seguito un periodo di altalene, in cui ondate di ingressi e di pause si sono succedute senza alcuna ratio, sfuggendo a ogni piano di regolarità e ad ogni programmazione. Infine – e questa è la situazione presente – i blocchi degli anni Duemila hanno causato, e vieppiù causeranno nei prossimi pochi anni, un rapido invecchiamento del corpo docente, e il progressivo svuotamento di alcuni settori (nel 2018, si calcola, il 50% degli attuali ordinari sarà in pensione: è logico, se si pensa che molti sono entrati nell”80). (F. Pontani, http://www.ilpost.it/2010/10/19/luniversita-italiana-spiegata-bene/4/)