Un futuro a due vie per i ricercatori Stampa

Quale sarà il destino finale del ddl Gelmini è difficile a dirsi. Le fibrillazioni continuano intorno al ruolo dei ricercatori universitari. Le contraddizioni sono palesi. Ne elenco solo alcune: a) le università stanno continuando a bandire posti di ricercatore a tempo indeterminato (si pensi ai "posti Mussi") in un ruolo che per legge sarà ad esaurimento nel 2013 (ex legge Moratti 2005); b) a norme vigenti il rapporto ricercatori:associati:ordinari è fissato a 60:30:10, una pseudo tenure track che implica che un ricercatore su quattro rimarrà nel ruolo ad esaurimento fino alla pensione; c) quasi un terzo della didattica frontale è svolta da ricercatori in aggiunta o in sostituzione della didattica integrativa prevista dalla 382. La protesta dei ricercatori ha fatto emergere queste contraddizioni in tutta la loro portata: non è giusto e non è saggio che una parte consistente dell'offerta formativa degli atenei sia basata su attività volontaria. Non è giusto perché il lavoro, se ha valore, si paga. Non è saggio perché il volontario può, a buon titolo, stancarsi di prestare opera gratuitamente. L'università non è una associazione di volontariato, o un club amatoriale. Purtroppo, il ddl Gelmini non affronta queste contraddizioni né lo spaventoso "transitorio" creato dalla messa a esaurimento del ruolo dei ricercatori. E infatti si è arenato davanti alla necessità di reperire risorse per 9mila concorsi di seconda fascia in sei anni.

E se ci fosse un'altra via? Si potrebbe partire dall'esistente e pensare a due carriere parallele con possibilità di interscambio: una a prevalenza di attività di ricerca e minore didattica e una a prevalenza di didattica e minore impegno nella ricerca. Sarebbe il riconoscimento che il sistema universitario si regge su due pilastri... lunghi uguali, forti uguali: ricerca e didattica.
L'interscambio è condicio sine qua non per sfruttare meglio le fluttuazioni della vita accademica, in cui periodi di grande produttività scientifica - e dove quindi la didattica è addirittura una limitazione - possono alternarsi a periodi in cui la ricerca ha meno spinta e ispirazione e si può essere portati ad accrescere il contributo nella didattica. Bisogna fare sì che i due pilastri siano ugualmente robusti (anche in termini salariali) e quindi occorrerà valutare con rigore il merito nella ricerca e nella didattica. Questo sistema binario non risolve, ovviamente, il problema dell'accesso alla carriera, o meglio, alle carriere, che deve prevedere un congruo periodo di prova, perché i due pilastri non siano poi fatti di sabbia: indispensabile perché l'aspirante accademico sia messo in condizione di misurarsi veramente con la ricerca autonoma (anche quella dei finanziamenti) e con la docenza autonoma (potrebbe scoprire - o, come spesso succede, potrebbero scoprirlo gli studenti - che non è un buon docente anche se è ottimo ricercatore). Il periodo di prova dovrebbe anche prevedere "mobilità": cambiare luoghi, acquisire esperienze autonome, misurarsi con ambienti diversi e poi trovare una collocazione per farsi una strada propria. Questo si chiama "costruirsi un curriculum"...

Manca qualcosa? Un buon curriculum serve se ha "valore di mercato", se può essere speso per altro oltre che nella carriera accademica. La parola "mercato" non piace ad alcuni, ma si tratta di dare valore alla capacità di fare ricerca in qualsiasi settore, alla capacità sperimentata e valutata di mettere in piedi un percorso di innovazione. Per il mercato occorrono però norme che incentivino la mobilità e riconoscano il merito. Queste sono cose sulle quali - in un paese normale – si  dovrebbe intervenire. Non ci vorrebbe molto. Ma a chi piace? (D. Braga, Il Sole 24 Ore 24-10-2010)