Fitch Ratings. Primo special report sull’università italiana Stampa

La riforma dell'università darebbe agli atenei gli strumenti per concentrarsi sul «rapporto fra obiettivi e risultati, sull'efficienza e su modalità di pianificazione e decisione responsabili». Un cambio di rotta essenziale perché nei prossimi cinque anni le università avranno bisogno di attivare investimenti per un miliardo di euro, mentre i fondi statali rallentano.

L'analisi arriva da Fitch, uno dei tre big internazionali del rating, che diffonde il primo «special report» mai prima dedicato al sistema accademico italiano. L'esame di Fitch è ovviamente legato al business dell'agenzia e al punto di vista "di mercato" con cui si guardano i conti accademici. Fitch parte dai fattori che nella riforma promettono di introdurre una gestione manageriale e razionale. Fino a ora, scrivono gli analisti dell'agenzia, nell'accademia italiana «le decisioni sono state legate ad accordi interpersonali e al consenso, in un contesto di crescente supporto statale che raramente ha chiesto sforzi orientati al mercato».

Quattro gli elementi chiave: la riforma, prima di tutto, prova a rinnovare i bilanci, mandando in pensione la contabilità finanziaria di cassa che ancora domina la pubblica amministrazione (il federalismo fiscale si propone di superarla negli enti territoriali) per sostituirla con la contabilità economica di tipo aziendale, che permette al bilancio di riportare davvero i dati significativi per misurare lo stato di salute economica di ogni ateneo. Lo stimolo alle fusioni fra atenei potrebbe migliorare i risultati di una rete accademica che negli anni si è spesso moltiplicata per seguire spinte locali. Nella stessa direzione spingono le nuove regole per razionalizzare l'offerta dei corsi, e un contributo all'efficienza potrebbe arrivare dalla possibilità per gli atenei con standard qualitativi più elevati di darsi regole autonome di governance. Le università, infatti, non sono tutte uguali, nemmeno se osservate partendo dai numeri del bilancio. Il progressivo alleggerimento dell'assegno statale, è l'analisi di Fitch, è destinato ad allargare la forbice tra le università in grado di attrarre fondi dal mercato (soprattutto per la ricerca applicata), che saranno spinte a accentuare questa tendenza, e quelle che invece hanno legami più esili con il mondo dell'impresa. Il quadro ricalca la distinzione anglosassone fra università «research» e «teaching», che in Italia non è seguita nella forma ma ha riflessi concreti nella sostanza. In media, infatti, gli atenei ottengono sul "mercato" meno del 5% delle proprie entrate, ma in casi come il Politecnico di Milano o quello di Torino questa quota tocca livelli tre volte più alti. I margini per migliorare sono ampi, visto che secondo l'Ocse la «spesa privata» copre il 27% dei fondi destinati all'educazione terziaria e accademica, contro il 66% degli Usa e il 35% del Regno Unito. Un problema analogo si incontra anche nella spesa pubblica (0,8% del Pil contro l'1,3% della media Ocse), ma il futuro prossimo non promette cambi di rotta.

Un'altra leva su cui puntare è individuata da Fitch nei contributi studenteschi, che secondo i dati Ocse in Italia superano di poco la media di 1.100 dollari l'anno contro i quasi 6mila dollari degli Stati Uniti e i quasi 5mila del Regno Unito. Anche in questo settore il confronto con la realtà anglosassone deve fare i conti con le differenze di impostazione, che impediscono alle università di ottenere dagli studenti più del 20% di quanto ricevono dallo stato. La regola, nata in tempi di finanziamenti centrali più generosi, è già stata superata in 25 atenei statali (si veda Il Sole 24 Ore del 27 agosto), e con le limature del fondo ordinario è destinata a una violazione sempre più ampia. La logica proposta da Fitch è diversa, e vede una competizione di mercato in cui l'aumento delle tasse va rapportato alla qualità dell'offerta formativa e a strumenti di sostegno progressivi rispetto al reddito. (G. Trovati, Il Sole 24 Ore 15-10-2010)