UN PATTO E LE SUE CONSEGUENZE SU SCUOLA E UNIVERSITÀ Stampa

Un patto, dagli anni settanta del secolo scorso, fu tacitamente siglato fra la Democrazia Cristiana, allora al potere, e i sindacati della scuola, e coinvolse anche il Partito comunista. L'Università, grazie a certe sue guarentigie è stata parzialmente al riparo dalle conseguenze peggiori di quel patto. Ma ne è stata colpita anch'essa. La nefasta «liberalizzazione degli accessi» della fine degli anni Sessanta diede l'avvio a una lunga catena di guai. Le scuole, primarie e secondarie, senza difese, subirono i colpi più duri.
Il patto venne sottoscritto con il consenso tacito dell'opinione pubblica (disinteressata e spesso complice quasi tutta la classe colta, gli intellettuali). I termini del patto erano i seguenti: la scuola ha un unico vero scopo, assorbire occupazione. Non importa se gli insegnanti reclutati siano capaci o no, preparati o no. Importa solo che siano tanti (il che significa, inevitabilmente, mal pagati). E neppure importa che siano condannati a una lunga e umiliante esperienza di precariato. Gli effetti di tutto ciò sulla qualità dell'insegnamento erano, per i contraenti del patto, irrilevanti. Anche perché l'assenso degli utenti, famiglie e studenti, poteva essere ottenuto grazie al valore legale del titolo di studio. Ciò che conta è il diploma, il pezzo di carta. Non ha importanza che dietro quel pezzo di carta ci sia o no una solida formazione. Per giunta, contribuiva al mantenimento del patto un clima culturale nel quale il diritto costituzionale allo studio era da molti interpretato come diritto al diploma. Nell'età post-democristiana le cose non sono cambiate. Non ci sono più quegli attori politici ma l'eredità che hanno lasciato è sempre viva. Tutto ciò che ha a che fare con i processi educativi continua ad essere trattato nello stesso modo. Si pensi all'ultima imbarcata di precari: l'importante era assumere docenti. Il fatto che fossero competenti o no era irrilevante. E tanto peggio per il congiuntivo. Sappiamo, ad esempio, da molti anni, che uno dei gravi problemi della scuola riguarda l'insegnamento della matematica. Le carenze in questo campo sbarrano di fatto, a tanti futuri studenti universitari, l'ingresso nei corsi di laurea scientifici. La ragione per cui tanti giovani si orientano verso le umanistiche (nonostante le minori probabilità di occupazione post-laurea) anziché verso le scientifiche, ha a che fare con questo problema. Ma qualcuno forse, in tutti questi anni, se ne è mai preoccupato? La ministra Fedeli ha ribadito, anche in questa occasione, ripetendo un antico ritornello, che occorrono più «laureati». Mi dispiace, ma detto così non è vero. Occorrono più laureati (anzi, tanti di più) in materie scientifiche. Ne occorrono di meno in materie umanistiche e quei «meno» dovrebbero essere tutti di qualità elevata.
(Fonte: A. Panebianco, CorSera 04-09-17)