Una proposta in tre punti per il reclutamento Stampa

La prima regola sarebbe quella che stabilisce l’impossibilità da parte di un bravo laureato di un’università di cominciare la sua carriera, anche già a partire dal dottorato di ricerca, ma a maggior ragione per i passi successivi, in quella stessa università. Il male effettivo, se non assoluto, è che le stesse persone che hanno “allevato” degli studiosi debbano poi “giudicarli”. E’ questo meccanismo che distrugge qualunque forma, non dico di equità procedurale, ma addirittura di oggettività, perfino nella forma più debole dell’intersoggettività. Per questo fin dalla recluta dei dottorandi dovrebbe valere il principio che il dottorato si faccia in un’altra università da quella di provenienza: anche perché l’eccellenza di un’università si misurerebbe proprio dalla sua capacità di attirare i migliori potenziali ricercatori, e non certo da quella di promuovere i propri, che crea fin dall’inizio arrivismo e servilismo. Ma a maggior ragione questa regola dovrebbe valere per ciascuno dei posti di ruolo, a tempo determinato o indeterminato.

La condizione elementare della terzietà del giudicante è precisamente quella che il nostro sistema di scambi è fatto per eludere senza eccezioni: questa prima regola gli toglierebbe un po’ di motivazione iniziale, ma è prevedibile che anch’essa ricomincerebbe ad essere aggirata. La seconda regola dovrebbe dunque semplicemente abolire ogni forma di legame fra una data università e le commissioni che valutano le candidature. Questo effetto potrebbe ottenersi, nel caso si adottasse un sistema d’idoneità nazionali con una commissione di volta in volta appropriata, costituendo le commissioni esclusivamente sulla base di sorteggio fra tutti i docenti della disciplina o gruppo di discipline in questione: sorteggio non preceduto da votazioni che eleggano i sorteggiabili, perché si sa che è nella richiesta e nello scambio dei voti già a questo livello che cominciano a costituirsi i gruppi di pressione. Ma poiché comprensibilmente devono essere le singole università, in base alle loro esigenze, alle loro vicende interne, al loro bilancio, a offrire posti a tempo determinato o indeterminato, occorre anche che esse possano attingere, per le loro chiamate, a coloro che questa commissione nazionale avesse giudicato idonei. Qui il rischio da evitare è: todos caballeros. Che cioè si abbondi nel riconoscere idoneità, contando su offerte di posti a venire. Del resto è soprattutto dove ci sono in palio almeno due idoneità, che gli scambi s’intensificano: perché ce n’è il materiale. La terza regola sarebbe, dunque, che per ogni posto bandito sia costituita una commissione (nazionale, e in base alle regole precedenti), la quale possa riconoscere una e una sola persona idonea (a occupare quel posto) – e nessun’altra idoneità (ad essere per esempio promosso, pur restando nella propria università).

Comunque si possano migliorare queste proposte, mi sembra che non possiamo più rinviare il momento di proporre noi stessi una riforma del reclutamento che estirpi ogni radice di corruzione, e ci assicuri almeno per l’avvenire giustizia e riconoscimento esclusivo al merito, all’intelligenza, alla creatività. Invece di continuare a mantenere un sistema di cui molti di noi si lamentano, come se non fossimo noi che accettandolo e facendolo funzionare ne siamo infine responsabili. Solo a questa condizione, mi sembra, sarà giustificata una lotta senza quartiere ai tagli indiscriminati che l’attuale maggioranza vuole imporre. Invece senza questo nostro nuovo impegno “virtuoso”, che sconvolga e distrugga dall’interno i meccanismi della servitù mentale e del potere di consorteria, ogni nostra resistenza darà soltanto argomenti sempre più forti a quei politici per i quali la cultura, la scienza, l’arte e il pensiero sono solo fastidiosi impedimenti sulla via della conformazione totale del Paese alla libertà dei servi. (R. De Monticelli, il Fatto Quotidiano, 24-07-2010)