Peer review all'italiana? Stampa

Armando Massarenti ha opportunamente plaudito all’emendamento "Marino" alla finanziaria, per cui non dovrebbe più essere possibile distribuire finanziamenti pubblici alla ricerca senza una valutazione basata sulla revisione dei pari. La cosiddetta peer review. L'emendamento "Marino" è un passo quasi storico. Ma è solo il primo. Perché la locuzione peer review (revisione o esame dei pari) viene spesso usata nelle discussioni come una sorta di mantra. Non si capisce quasi mai se chi parla si riferisca a una valutazione sulla qualità della ricerca o sul suo impatto sul piano dell'avanzamento delle conoscenze o a livello socio-economico-culturale. Ovvero non è mai chiaro se si parla di valutazione & progetti da finanziare o di articoli da pubblicare (revisione prospettiva) o dei risultati di ricerche già effettuate (revisione retrospettiva).

Anche chi non avesse avuto tempo o modo di documentarsi attraverso la ricchissima e diversificata letteratura in lingua inglese sull'origine, l'evoluzione e l'articolazione delle procedure di valutazione della ricerca scientifica, ora può supplire a questa carenza leggendo l'eccellente libro dell'economista Alberto Baccini. Perciò, d'ora in poi, basta con le sparate retoriche di chi crede che la peer review costituisca la panacea per tutti i mali della politica e del governo della ricerca e della formazione in Italia, o come le svalutazioni di procedure che, se ben usate, danno le migliore garanzie possibili di qualità e affidabilità. La moda di criticare la peer review ha contagiato anche la rivista americana The Scientist, che questo mese sferra un violento attacco alla revisione editoriale, sostenendo che non funziona più e va rivista. Certo laggiù il sistema è diventato talmente capillare e burocratizzato che possono permettersi di enfatizzarne i difetti: purché mantengano la capacità di vedere che nell'acqua sporca c'è un bambino. Baccini ha metabolizzato i temi che si discutono sul piano tecnico, sia in relazione alla funzione e ai problemi delle valutazioni qualitative dei risultati o dei progetti, sia sul piano delle metodiche, della validità e dei limiti degli indicatori scientimetrici, che sono diventati strumenti largamente e un po' superficialmente usati per supportare quantitativamente le valutazioni. Il suo giudizio coincide con quello di chiunque abbia studiato con un minimo di attenzione critica la questione. Parafrasando anch'egli la definizione di Winston Churchill della democrazia, scrive che «La valutazione condotta dai pari è il peggiore dei modi per giudicare la qualità della ricerca; il fatto è che non ce ne sono di migliori».

Discutendo in modo pertinente le difficoltà di valutare qualitativamente e quantitativamente la ricerca umanistica di carattere locale, Baccini sottolinea l'esigenza di usare gli indicatori scientimetrici con un'adeguata comprensione di come funzionano e di quello che effettivamente misurano, senza presentarli strumentalmente formule magiche. Peraltro, non trascura la discussione teorica in corso tra la scuola sociologica normativa e quella costruttivista in merito al significato e quindi all’effettiva portata valutativa del "comportamento citazionale". E sottolinea opportunamente che la ricerca empirica ha sostanzialmente corroborato la teoria normativa, dimostrando la marginalità di fenomeni come le autocitazioni, allo stesso tempo mettendo in luce che il comportamento citazionale non è standardizzatile, ovvero varia tra le discipline, e tende a scotomizzare linee di ricerca, quindi autori che esplorano approcci innovativi o non alla moda.

Può essere utile affrontare qui un punto a cui Baccini accenna, ma che non sviluppa. Egli scrive che «è fondamentale la questione di chi nomina i revisori» - e secondo quali criteri, aggiungerei - «perché da questa scelta può dipendere l'esito finale del processo». Ora, nel mondo anglosassone, dove la scienza moderna si è affermata e l'etica protestante ha plasmato un senso civico con una sensibilità spiccata per i conflitti di interesse, non si discute più di tanto il rischio che la peer review sia falsata o manipolata per interessi personali o politici. Laggiù è dato per scontato, ma sta scritto espressamente anche negli statuti delle fondazioni private che finanziano a ricerca, che chi fa parte di un comitato di valutazione non può dare i soldi a se stesso o a qualcuno con cui abbia in comune qualche interesse. Mentre, come dimostrano gli scandali citati anche da Massarenti, questo è il vero problema italiano. Se le procedure di nomina dei revisori non garantiscono la trasparenza e l'obiettività della valutazione, la peer review italiana rimarrà una finzione.

Tanto per esser chiari, la qualità e l'efficacia del funzionamento dell'agenzia di valutazione ANVUR, di cui esiste ufficialmente dall'11 giugno 2010 un regolamento ministeriale sulla struttura e l'operatività, dipenderà da chi la governerà. Con il bando del 29 luglio scorso è partita la selezione dei sette nominativi per il Consiglio direttivo dell'ANVUR. È stato creato un comitato che sottoporrà al Ministro dell'Università e della Ricerca una rosa di nomi, da 10 a 15, tra cui avverrà la scelta. Sarà istruttivo e predittivo seguirei lavori del Comitato, ovvero registrare le scelte dei nominativi, tra coloro che avranno presentato la candidatura entro ileo settembre 2010.

L'auspicio è che date le aspettative e gli obiettivi, non prevalga la soluzione al ribasso e che a dirigere l'ANVUR non vadano i soliti maneggioni del potere accademico, tipo qualche ex rettore, o qualche scienziato di fama in pensione o, se non in pensione, troppo esposto e predisposto ai conflitti d’interesse e a ragionare secondo logiche politiche. Nel consiglio direttivo dovrebbero sedere anche esperti che conoscono le dinamiche economico-organizzative di funzionamento della ricerca scientifica e le metodologie diversificate delle procedure di valutazione. Diversamente, avremo solo inventato la «peer review all'italiana». (G. Corbellini, Il Sole 24 Ore 15-08-2010)