Meritocrazia applicata all’università. Sognando la California Stampa

Nonostante tutti si riempiano la bocca con la parola “meritocrazia”, pochissimi sembrano accettarne una banale caratteristica. Un sistema meritocratico genera pochi eccellenti e parecchi mediocri o pessimi, distribuendo la maggioranza delle persone fra questi due estremi. Pochi gradiscono quest’ultima posizione e nessuno si offre volontario per fare la parte del mediocre o del pessimo, il che spinge il sistema politico (ministri e loro consiglieri, burocrati ministeriali, parlamentari, sindacalisti) a disegnare riforme che, tenendo in debito conto la distribuzione di talenti in essere, eviti alla stragrande maggioranza di correre il rischio d’essere classificato pessimo, mediocre, o anche solo decente.

Un sistema universitario meritocratico è impossibile se non se ne accettano alcune, banali ma fondamentali, implicazioni. Per illustrarle utilizzerò come esempio la California: uno Stato più ricco dell’Italia ma altrimenti comparabile, nel quale l’affluenza universitaria, superiore alla nostra, è quasi completamente soddisfatta dall’università pubblica. Anche mantenendo costanti la disciplina, la qualifica e il gruppo d’età, le differenze salariali fra i professori eccellenti e quelli all’estremo opposto, per ora di insegnamento effettivo, sono dell’ordine di 1 a 10. Non tutte le università sono nate uguali, né crescono uguali, né hanno gli stessi criteri di ammissione degli studenti, né le medesime procedure di reclutamento, né ricevono (per studente) gli stessi trasferimenti statali, né, infine, si impone per via legislativa che i titoli di studio abbiano tutti lo stesso valore. Esiste UC Berkeley ed esiste Cal State San Marcos: sono due cose diverse, ognuna ottima a fare il proprio lavoro, solo che non è lo stesso lavoro. Ogni università gode di sostanziale autonomia sia nel reclutamento, sia nel curriculum, che nell’ammissione degli studenti, che (dentro limiti stabiliti a livello statale) nelle tasse universitarie che richiede ai propri studenti di pagare. E ogni università compete, normalmente nella propria “serie” ma non necessariamente, per ottenere fondi di ricerca statali, federali e privati, su basi puramente e strettamente meritocratiche. Ogni università, sia essa UCLA o Santa Monica College, ha un proprio consiglio d’amministrazione che rappresenta i vari gruppi sociali ed economici che nell’università in questione hanno interessi. Tale consiglio svolge un ruolo attivo nella gestione economica dell’istituzione, essendo il canale fondamentale attraverso cui società e istituzione universitaria comunicano. L’autorità statale svolge funzioni di indirizzo e, fondamentale, di controllo della qualità del “prodotto finale”, ma non interferisce né con i criteri di reclutamento e selezione, né con quelli di promozione dove attua, invece, da garante della trasparenza ed equità nelle procedure. Ecco, se queste banali implicazioni della meritocrazia applicata all’università fossero discusse pubblicamente e accettate per quel che sono (assolutamente necessarie) forse si potrebbero fare dei passi avanti veri e non immaginari nel processo di riforma. Infatti, forse l’Anvur potrebbe finalmente avere un compito ben definito: cominciare a distinguere i dipartimenti e i professori fra quelli di serie A, serie B e serie C. Compito ingrato ma necessario se si vuole introdurre una qualche forma di meritocrazia preservando, al tempo, la natura pubblica delle università italiane. Fare questo richiederebbe, sia da parte della maggioranza sia da parte dell’opposizione, elevare il dibattito a questo livello e farlo pubblicamente, accettando di pagare un ovvio e salato prezzo: l’insurrezione di coloro i quali, e sono tanti, oggi vivono di rendita e mediocrità all’interno dell’università italiana. Sarebbe un prezzo pesante ma temporaneo perché, se le cose si fanno bene, alla fine del tunnel ci sono Berkeley, UCLA ed UCSD in Italia, il che farebbe molto bene alla stragrande maggioranza del paese. Nessuno è così ingenuo da pensare che l’Italia possa diventare la California, universitariamente parlando, in un anno o due, ma può certamente farlo in due o tre lustri. Basterebbe volerlo. (M. Boldrin, Washington University in St Louis, Il Fatto Quotidiano 03-08-2010)