Quanto valgono la ricerca e l’università italiana? Stampa
Negli ultimi anni c’è stata una sistematica denigrazione dell’università e della ricerca in Italia. L’argomento è che entrambe sono mediocri o pessime. Alcuni, con un certo spregio del pericolo, hanno anche sostenuto che questa mediocrità è anche più grave in quanto “la spesa italiana per studente universitario è la più alta del mondo dopo USA, Svizzera e Svezia” (R. Perotti, “L’università truccata” Einaudi 2008). In genere queste critiche vengono da economisti completamente appiattiti al mainstream americano, che, come in tante altre occasioni, hanno una visione del problema molto parziale e mediata da preconcetti ideologici.
Il problema è complesso e, da un punto di vista statistico, la prima questione che bisogna porsi riguarda il concetto di media: ovvero quale sia la media della “qualità” scientifica e se questa sia davvero rappresentativa. La media è un concetto che ha senso statistico solo quando le fluttuazioni sono ragionevolmente limitate. Quando invece ci sono enormi differenze tra i più “bravi” e i meno “bravi” caratterizzare la distribuzione della qualità con il valore medio non ha un gran senso. Bisogna dunque distinguere non solo tra le diverse discipline, ma anche all’interno di un singolo campo. Solo attraverso un’analisi sistematica e analitica si potranno identificare le parti sane del sistema da valorizzare e quelle improduttive da “curare” in qualche modo. Un osservatore esterno, considerando principalmente le discipline scientifiche, nota subito il Paradosso Italiano (http://www2.cnrs.fr/en/1588.htm): “Le statistiche sulla ricerca scientifica in Italia rivelano una forte contraddizione. Mentre le risorse investite dal Paese stanno dietro quelle degli altri principali Paesi, la produzione in termini di pubblicazioni scientifiche non è solo una delle più prolifiche del mondo, ma anche grandemente riconosciuta in diverse discipline”. La produttività pro capite di un ricercatore italiano è superiore a quella di molti altri Paesi (http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=113120&sez=HOME_SCIENZA) e in una classifica internazionale (http://www.scimagoir.com/pdf/sir_2009_world_report.pdf) gli italiani si posizionano globalmente all’undicesimo posto per citazioni sui 20 paesi che investono più in ricerca. Studi sulla performance (http://www.springerlink.com/content/g757637307863468/?p=3c4a33073e9a4d5cbe6c978e0c750d15&pi=6) dei Paesi in base ad indicatori statistici internazionalmente riconosciuti (ad esempio l’indice di Hirsch) nelle diverse discipline mostrano che in alcuni campi (informatica, fisica, matematica, neuroscienze) l’Italia si classifica molto bene ed in altri (economia, biologia vegetale) va peggio. Questi studi vanno presi con le “molle”, come anche la significatività degli indici bibliometrici per la valutazione della qualità scientifica, ma comunque qualche indicazione la danno. A mio parere gli indicatori bibliometrici sono utili per identificare gli estremi di una distribuzione, ad esempio i ricercatori molto bravi e quelli molto scarsi, ma un’analisi della qualità scientifica deve essere sempre fatta entrando nel merito tecnico da persone competenti che si assumano la responsabilità delle scelte. Infine un commento sulle classifiche internazionali delle università in cui le accademie italiane non fanno mai una buona figura. Queste classifiche sono basate su una serie di indicatori come ad esempio il rapporto docenti/studenti o il numero di studenti o docenti stranieri. Un’analisi seria, come quella fatta da Regini e collaboratori nel libro “Malata e denigrata. L’università italiana a confronto con l’Europa (Donzelli, 2009), invece di sbandierare che l’università XY sta al 156esimo posto ed è scesa di quattro posizioni rispetto all’anno scorso, dovrebbe considerare singolarmente ogni indicatore e cercare di identificare il problema. Quando la discussione sull’università e sulla ricerca smetterà di essere basata su facili e insulsi slogan, si potrà iniziare a ragionare su come cercare di rimettere in sesto un sistema disastrato.

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E qui, appunto, casca l’asino: alterare in senso meritocratico i meccanismi di reclutamento, promozione e premio della docenza universitaria – determinando incentivi finalmente adeguati al ritorno di una dozzina circa di università italiane nei piani alti dell’accademica mondiale – richiede ignorare l’impatto contingente che tali alterazioni avrebbero sulla situazione in essere dell’università stessa. La situazione italiana è talmente compromessa che non c’è riforma senza un minimo di sconquasso che distrugga rendite (alcuni le chiamano “diritti”) acquisite. Il che non vuol dire che sia bene massimizzare lo sconquasso, ma vuol dire che è molto male fare sempre tutto il possibile per evitarlo. Perché, così facendo, si producono ogni quattro o cinque anni ridicole riformine, una più bizantina, parziale, arzigogolata e compromissoria dell’altra. Il combinato disposto di questo procedere è la situazione che abbiamo oggi di fronte: l’università italiana, nel suo complesso, decade non per mancanza di riforme ma per eccesso di riforme teoricamente ambiziose ma disegnate, alla fine, per soddisfare interessi di retrobottega. (F. Sylos Labini, Il Fatto Quotidiano 04-08-2010)