Università e cyberspazio. Le istituzioni della conoscenza per l'era della connessione digitale Stampa

Joi Ito, 44 anni, giapponese, ha abbandonato gli studi all'università negli Usa («studiare informatica tra i banchi di scuola agli albori del Web era stupido») dopo aver incontrato il fondatore di eBay per mettersi in proprio come imprenditore, venture capitalist e attivista-guru di Internet. Ed è in qualità di non-laureato che è venuto a parlare ieri al Politecnico di Torino alla seconda giornata della Conferenza «Università e Cyberspazio, ridefinire le istituzioni della conoscenza per l'era della connessione digitale» del progetto Communia 2010. Lo incontriamo prima del suo intervento. «Credo che debba esserci spazio nell'università per tutti gli attori della società civile interessati all'apprendimento, non solo per gli iscritti, e penso che grazie a Internet questo sia possibile» sostiene Ito. Presidente di Creative Commons, la struttura inventata negli Usa per permettere grazie a copyright flessibili la ripubblicazione di contenuti editoriali online, è stato anche consigliere di amministrazione dell'Icann, l'ente non profit per l'assegnazione degli indirizzi sulla Rete: per questo ha una conoscenza di Internet sia tecnica che culturale. Ma la sfida che lo intriga di più riguarda i nuovi modelli di business che i produttori di cultura devono abbracciare per sopravvivere. «Gli atenei dovrebbero aprirsi anche ai non iscritti e grazie alla Rete questo è possibile» nella nuova era digitale. «Internet è cresciuta e diventata la realtà gigantesca di cui non si può più fare a meno che è oggi, grazie al fatto che chiunque può partecipare al suo sviluppo senza chiedere il permesso, a costi bassissimi. Se si applica questo modello all'università, è subito chiaro che il vecchio sistema di pubblicare libri da distribuire su carta e di insegnare in un luogo fisico costa troppo e sarà presto superato», spiega Ito. «Non bisogna ripetere l'errore commesso dall'industria della musica, che ha fatto la guerra ai suoi fans su Internet, dando così il controllo dei contenuti musicali online ad aziende tecnologiche come l’Apple di Steve Jobs, che si è inventata il sistema iTunes, l'iPhone e l'iPad. Quando gli editori si accorgeranno che per farsi pagare i loro contenuti digitali si sono legati mani e piedi a Jobs, che decide quali contenuti possono essere pubblicati e come, forse incominceranno a ribellarsi e a inventare soluzioni nuove aperte: ma nel frattempo la transizione sarà dolorosa». Quanto tempo ci vorrà? «Se guardo a quante cose sono cambiate con Internet in dieci anni, penso che ce ne vorrà di meno» azzarda Ito. «La conoscenza non ha più bisogno di luoghi fisici come gli atenei, grazie all'e-learning possono partecipare allo studio persone che un tempo non potevano permetterselo. Per esempio in Africa, dove ci sono tantissimi cittadini digitali che studiano su Internet gratis». E poiché grazie al Web è esploso l'apprendimento informale e i nuovi dilettanti della cultura condividono e recensiscono online le tesi di laurea, il modello non gerarchico dell'apprendistato assomiglia all'ambiente open source della comunità di informatici che collabora per sviluppare e migliorare i software. Ma è giusto permettere agli appassionati di conoscenza che pullulano su Internet di accedere alle stesse opportunità degli iscritti alle università? «Bisogna trovare soluzioni ibride, come per esempio un sistema di valutazione per l'apprendimento informale». Secondo Ito, non bisogna più continuare a costringere la gente a chiedere il permesso per poter partecipare alla creazione di conoscenza. E non ha più senso mantenere ancora gli abbonamenti a pubblicazioni costose perché non sono accessibili al largo pubblico, che su Internet ha imparato a pretendere di poter partecipare alla discussione. «Per abbassare i costi si può smettere di stampare su carta e spostare la ricerca di fondi per l'università su altri servizi a valore aggiunto, come i discorsi dei professori ai convegni e le consulenze» sostiene Ito.

Si permette di contraddirlo Juan Carlos De Martin del Centro Nexa, organizzatore della conferenza Communia 2010, che sottolinea il ruolo sociale e civico dell'Università: per poterlo esercitare liberi da un'economia di mercato stretta dalle logiche del profitto, gli atenei devono poter continuare a contare sui finanziamenti pubblici. Gli fa eco Charlie Nesson del Berkman Center di Harvard: «Governi e mondo dell'imprenditoria, guidati da logiche di controllo e di profitto, non sono i migliori interpreti della trasformazione in atto. L'Università, invece, è deputata a supportare questo cambiamento, purché svolga la funzione di garantire la libertà d'accesso alla conoscenza». (A. Masera, La Stampa 30-06-2010)