UNIVERSITÀ. ASPETTI CRITICI DELLA SUA DIMENSIONE, DELLA SUA ARTICOLAZIONE TERRITORIALE, DELLA SUA QUALITÀ E DELLA “QUOTA PREMIALE” DESTINATALE DAL FFO Stampa

Gianfranco Viesti, docente di Economia applicata all’Università di Bari, ha coordinato un ampio Rapporto di ricerca realizzato dalla Fondazione Res (Università in declino. Un’indagine sugli atenei, da Nord a Sud, Donzelli, 2016) da cui sono tratti i dati riportati successivamente in un articolo su Il Mulino 3/2016. Di questo articolo sono di seguito segnalati in sintesi i punti ritenuti salienti.
Rispetto al momento di massima dimensione (databile fra il 2004 e il 2008), al 2014-15, il fondo di finanziamento ordinario (FFO) delle università è diminuito, in termini reali, del 22,5%; gli immatricolati di oltre 66.000 unità (–20%); i docenti di circa 11.000 (–17%); il personale tecnico amministrativo di circa 13.000 (–18%); i corsi di studio sono passati da 5.634 a 4.628 (–18%). Non ha paragoni negli altri Paesi colpiti dalla crisi, se non con il radicale, e assai controverso, processo di privatizzazione in corso in Inghilterra; e va comparato con aumenti anche sensibili registrati altrove, a partire dalla Germania. La spesa pubblica per l’istruzione universitaria per abitante ammonta, in anni recenti, a 332 euro in Germania, a 305 in Francia e a 157 in Spagna, a fronte di un valore di 117 euro per il Centro Nord e di soli 99 per il Mezzogiorno. L’Ue si è data l’obiettivo, al 2020, di avere il 40% di giovani (30-34 anni) laureati. L’Italia è nel 2014, al 23,9%: questo la colloca all’ultimo posto fra i 28 Stati membri.
Le nuove regole di governo del sistema stanno disegnando una differenziazione sempre più forte fra sedi più e meno dotate (in termini finanziari, di docenti, di studenti, di relazioni con l’esterno). Il FFO, in forte contrazione, a partire dal 2009 è stato suddiviso in una «quota base» e in una «quota premiale». La quota base è stata decrescente in valore assoluto e come peso sul totale; è passata, a valori correnti, dai 6,7 miliardi del 2008 ai 4,9 del 2015. Una parte crescente del FFO (fino al 20% del totale nel 2015, cioè quasi 1,4 miliardi) è stata allocata secondo criteri «premiali». La loro definizione è stata assolutamente discutibile. Nell’insieme ha seguito indirizzi opposti a quelli raccomandati dalla European University Association (EUA). L’EUA suggerisce di non aumentare eccessivamente la “quota premiale”: in Italia è arrivata ad un peso che non si ritrova in nessun altro Paese europeo, con l’eccezione del Regno Unito. Suggerisce di allocare su base premiale solo stanziamenti aggiuntivi. L’opposto di ciò che è accaduto in Italia;
la quota determina solo una diversa modulazione, fra le sedi, dei tagli. Le regole premiali sono state imposte unilateralmente dal MIUR; e misurano comportamenti del passato, quando non era prestabilito quali fossero le metriche di giudizio. I criteri sono cambiati vorticosamente: fra il 2008 e il 2015 sono stati utilizzati 23 indicatori diversi, che sono cambiati – in misura rilevante – tutti gli anni (tranne uno).
L’Italia sta disinvestendo con particolare intensità nelle regioni più deboli sempre più; con una «serie A» a cui non vengono destinate risorse aggiuntive, ma che le sottrae all’altra componente del sistema. Con una «serie B» destinata, già nel medio periodo, a strutturarsi su un insieme di atenei destinati prevalentemente all’erogazione di una didattica di base, con meno insegnamento avanzato (corsi magistrali e dottorati) e meno attività di ricerca. Con la «serie A» tutta concentrata in un triangolo di 200 chilometri di lato con vertici Milano, Bologna e Venezia (e qualche estensione territoriale a Torino, Trento, Udine); e la serie B che copre il resto del Paese.
Una terza e ultima preoccupazione attiene alla qualità del sistema e delle sue componenti. Aree disciplinari di lunga tradizione, specie negli studi umanistici, si stanno fortemente ridimensionando e sono a rischio di deperimento. Vi è anche il rischio che la qualità della didattica diventi meno importante, dato che le sorti finanziarie delle istituzioni e di carriera dei singoli sono venute sempre più a dipendere dalla capacità di pubblicare articoli scientifici; con la possibilità di un’implicita marginalizzazione delle attività di docenza. Secondo Sabino Cassese, «i ricercatori hanno già cominciato ad apprestare e a presentare le proprie ricerche in funzione delle misurazioni e presto saranno pronti anche a ricercare in funzione delle misurazioni» (‘L’Anvur ha ucciso la valutazione, viva la valutazione’, il Mulino, n. 1/2013, pp. 73-79). (Fonte: vedi il primo paragrafo di questa nota)