Documento della conferenza dei presidi delle Facoltà di Ingegneria (COPI) sul DDL n. 1905 in discussione al senato Stampa
La Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Ingegneria, esaminato in più riunioni il DDL n. 1905, nel corso dell’Assemblea del 27 gennaio 2010 ha approvato all’unanimità il seguente Documento.
«La CoPI esprime soddisfazione per l’organica azione riformatrice che, recependo anche le istanze della politica e del mondo accademico, il DDL si propone. La CoPI condivide i principi ispiratori del DDL, a cominciare – per restare in ambito direttamente connesso al ruolo delle Conferenze dei Presidi – dalla razionalizzazione e semplificazione delle strutture e dalla separazione delle funzioni di programmazione, amministrazione e controllo, in una logica di efficienza ed efficacia del governo degli atenei; dall’esigenza di ricondurre a un’unica finalizzazione le attività di didattica e quelle di ricerca; dall’instaurazione della prassi della valutazione della qualità dei processi e dell’efficienza del sistema, che preveda anche l’istituzione di meccanismi di premialità e di sanzione del comportamento degli atenei e che costituisce condizione indispensabile per l’esercizio di un’autonomia responsabile. La CoPI ritiene, tuttavia, che tali obiettivi siano difficilmente raggiungibili senza investimenti e sulla base di un numero eccessivo di disposizioni che, anche per tipologia, rischiano di mortificare l’esercizio dell’autonomia degli atenei e la competizione virtuosa tra essi, appiattendone l’operato nel rispetto di norme che, per altro, non tengono conto della specificità e della complessità del sistema universitario italiano, né della tradizione e delle positive tendenze in atto nell’ambito delle istituzioni italiane. Il pericolo, derivante anche da non adeguata contestualizzazione del provvedimento nel quadro internazionale – dal quale al più si mutuano elementi di altre tradizioni e altre realtà, molto distinte dalla nostra, con conseguenti ibridazioni che mal si adattano alla realtà italiana,la cui tradizione universitaria ha tra i punti di forza la qualità della formazione impartita che, specie nelle scuole di ingegneria, deriva da un’impostazione culturale solida e ad ampio spettro – è che si perda l’occasione per una riforma coraggiosa ed efficace, così come necessita al paese per avere un’università ancora più qualificata e competitiva. Nel merito del testo, in particolare, la CoPI ritiene che vi sia confusione, a tutti i livelli e per tutti gli organi previsti, tra la fase dell’elaborazione, formulazione e approvazione delle scelte strategiche, la fase di governo e di attuazione di tali scelte, la fase di controllo: fasi che è bene tenere separate, così si è affermato in tutta la nostra organizzazione statuale, a tutti i livelli. In tal senso, è del parere che il primo compito debba essere affidato al Senato Accademico, nel quale quindi è necessario prevedere la partecipazione di rappresentanti delle unità organizzative (facoltà o scuole e dipartimenti), lasciando al Consiglio di Amministrazione il ruolo di verifica della compatibilità e sostenibilità finanziaria e, appunto, di amministrazione.
La CoPI ritiene necessaria la riorganizzazione delle unità/strutture organizzative degli atenei, non solo per semplificazione e razionalizzazione, ma anche con l’obiettivo di ricondurre a un’unica finalizzazione le attività di didattica e quelle di ricerca che, insieme e strettamente legate, connotano la missione dell’università. Obiettivo che il DDL si pone, ma che di fatto non persegue perché trascura l’una e l’altra, non tiene conto delle loro specificità né degli elementi che possono e debbono unirle. Si tratta di tema delicato e difficile, già fortemente avvertito dal mondo accademico che, nel quadro normativo attuale, ha difficoltà ad affrontare: come dimostrano le iniziative già realizzate in proposito con alcune recenti modifiche di statuto, in parte contrastanti tra loro, e quelle che ancora non si riesce a realizzare nonostante la forte volontà politica. Lasciare la definizione della tipologia e dei ruoli dei vari organi alla piena sperimentazione degli atenei è sconsigliabile in un momento in cui, per la prima volta dopo la riforma del 1980, si sta tentando di ridefinire in maniera organica le strutture del sistema. Ma pare altrettanto inopportuna l’adozione di un modello unico che, comunque delineato, può essere molto funzionale per alcuni atenei e alcune aree culturali, negativo o irrealizzabile in altri casi. È invece preferibile una soluzione flessibile, aperta a più articolazioni – anche se fissa il numero massimo delle strutture – e quindi adattabile senza forzature a una realtà fortemente disomogenea per tipologia o dimensione come quella italiana, fatta di grandi, medie e piccole università generaliste, politecnici, università tematiche. Nel caso dei politecnici, ad esempio, l’indirizzo generale unitario viene assicurato dagli organi centrali; le facoltà o scuole possono svolgere il ruolo di programmazione, di coordinamento e di gestione delle attività didattiche, in quanto hanno una visione più ampia di quella dei singoli dipartimenti che sono a vocazione disciplinare omogenea, e questi ultimi possono essere invece luoghi deputati alla ricerca e all’implementazione della didattica delle singole aree disciplinari. Nel caso degli atenei generalisti medio-grandi, invece, condizione assolutamente necessaria per un’effettiva ricomposizione della didattica e della ricerca è che alle strutture intermedie di raccordo tra i dipartimenti raggruppati in relazione a criteri di affinità disciplinare – le facoltà o le scuole, come previsto dal DDL – sia affidato il coordinamento e la supervisione di tutte le attività e dei servizi comuni ai dipartimenti che le costituiscono: cioè sia delle attività didattiche sia delle attività di ricerca e trasferimento tecnologico, sia dei rapporti con l’esterno e con autonomia organizzativa, gestionale e amministrativa. Infatti anche le politiche della ricerca di strutture dipartimentali di aree affini, come sono quelle dell’ingegneria, risultano tanto più efficaci quanto più sono orientate a sviluppare ampie sinergie e a stabilire rapporti coordinati e unitari con i soggetti esterni interessati e coinvolti nell’innovazione tecnologica. D’altra parte, e non solo in Italia, sono tuttora tali strutture di direzione e raccordo – i politecnici, le facoltà o le scuole ove questi non esistono – che costruiscono e veicolano nella società l’immagine di un ateneo in un determinato campo scientifico e culturale. E sono i responsabili di tali strutture che coordinano e dirigono sia l’attività di ricerca sia quella didattica, mentre le altre strutture primarie, compresi i dipartimenti e i centri di ricerca universitari, continuano ovunque a essere riferimento prevalentemente se non esclusivamente in ambito accademico. La stessa federazione tra atenei, limitatamente ad alcuni settori di attività o di strutture come previsto dall’art. 3 del DDL, nel campo dell’ingegneria non può che avvenire creando strutture della federazione che seguano a un tempo la didattica e la ricerca.
La CoPI ritiene altresì che, nella logica di separazione dei ruoli richiamata a proposito di Senato Accademico e CdA, anche a livello di unità/strutture organizzative di ateneo debba essere garantita e perseguita la distinzione tra la fase di elaborazione/deliberazione delle scelte strategiche e la fase della gestione. In tal senso condivide l’esigenza di un organo ristretto per la gestione delle attività, sul tipo di quello definito deliberante dal DDL per le strutture di raccordo, ma è del parere che le linee di indirizzo strategiche debbano essere discusse e deliberate da un organo più ampio e rappresentativo. Ciò non tanto per il rispetto della tradizione, ma soprattutto per le esigenze dell’attualità scientifica e tecnica, che impongono un’azione coordinata per contrastare il pericolo della frammentazione del sapere, con conseguente incompleta preparazione dell’ingegnere, e richiedono l’incontro di competenze interdisciplinari nel campo della ricerca per favorire l’innovazione. La CoPI ritiene, pertanto, che per le strutture di raccordo debba essere mantenuto, ma liberato dai poteri di gestione burocratica e amministrativa, un luogo di incontro di competenze ed esigenze differenti – quindi di tutti i docenti dei dipartimenti che vi appartengono, quale è oggi il Consiglio di Facoltà – come momento di discussione e di indirizzo per la programmazione e l’approvazione delle scelte strategiche in merito alle attività comuni e all’articolazione dell’offerta formativa (corsi di studio e relativi piani di studio).
In merito al reclutamento, la CoPI condivide il sistema basato su abilitazione scientifica nazionale e successiva fase di selezione locale da parte degli atenei. Ritiene, tuttavia, eccessivamente e inutilmente macchinosa la fase locale, così come prevista dal DDL, ed è del parere che le modalità di reclutamento, riservato a coloro che abbiano conseguito l’abilitazione nazionale, debbano essere lasciate all’autonomia degli atenei, sulla base di regolamenti specifici che possano prevedere anche passaggi molto snelli: quale la chiamata diretta di docenti abilitati, con selezione quindi effettuata dalle strutture interne all’ateneo. Tale sistema, con opportuna valutazione ex post dei risultati in termini di attività scientifica e didattica del docente chiamato, e conseguente eventuale penalizzazione per l’ateneo, responsabilizza l’università e incentiva il reclutamento dei migliori.
Per quanto concerne i ricercatori, la CoPI richiama le proprie precedenti posizioni in merito, favorevoli tra l’altro all’istituzione della terza fascia docente. Esaminata la originale proposta del DDL, la CoPI rileva che oggi i giovani italiani sono disincentivati dall’intraprendere la carriera universitaria in ambito ingegneristico, per i livelli retributivi particolarmente bassi rispetto a quanto conseguibile – e in tempi molto più rapidi – sul mercato del lavoro italiano e nelle università straniere. Pertanto, se da una parte è apprezzabile il tentativo di rendere più competitiva la retribuzione di inizio carriera e la previsione di reclutamento nel ruolo degli associati per chi conseguirà l’abilitazione nazionale, dall’altra vi è il pericolo che la creazione della figura del ricercatore a tempo determinato possa dar vita a una nuova figura di precario, qualora non si preveda un’adeguata copertura finanziaria che fornisca la garanzia necessaria per la successiva immissione nel ruolo. In mancanza di espliciti impegni in tal senso, la proposta potrà difficilmente corrispondere all’obiettivo, più volte ribadito da parte del Ministero, di incentivare il reclutamento di studiosi di alto livello, provenienti da paesi avanzati, e il “rientro dei cervelli”. Adeguata copertura finanziaria deve comunque consentire di offrire analoghe opportunità di carriera al personale ricercatore attualmente in servizio a tempo indeterminato, che per altro, nella contingenza attuale, concorre in maniera sostanziale a sostenere l’offerta didattica delle facoltà.
La CoPI, infine, ritiene che il Titolo II del DDL, particolarmente critico soprattutto nelle parti relative allo stato giuridico, con provvedimenti ai limiti della costituzionalità, e alla valutazione, mortifica il respiro della riforma che con il provvedimento in esame si vuole perseguire. Considerato altresì che per la valutazione è ormai in dirittura d’arrivo l’istituzione dell’ANVUR, la CoPI auspica che tali parti siano espunte dal DDL in questione. Ciò anche al fine di pervenire in tempi rapidi all’approvazione di un testo condiviso, che potrà segnare una svolta davvero significativa».