RECLUTAMENTO. LE CONSEGUENZE DELL’AUTONOMIA IMPERFETTA Stampa

Benché sia sempre più evidente e pressante, a livello mondiale, l’utilizzo anche di parametri quantitativi per la valutazione dei docenti, in USA (terra delle statistiche e classifiche) questi parametri non sono mai utilizzati per le assunzioni. Si utilizza, al posto di questi parametri, un beauty contest basato su seminari e lettere di raccomandazione. Ora perché il sistema americano di reclutamento universitario tutto sommato funziona bene mentre il nostro no, tanto è vero che la classe politica ha sentito il bisogno dell’introduzione di queste benedette mediane? Secondo me questo deriva dall’autonomia imperfetta che caratterizza il nostro sistema universitario. Facciamo un breve excursus storico.
Prima che Ruberti introducesse l’autonomia, il sistema di reclutamento era fortemente centralizzato. I concorsi da ordinario e da associato (che si sarebbero dovuti bandire con cadenza biennale) erano banditi, nella pratica, ogni 4-6 anni e la commissione era nominata con un sistema misto (la comunità votava una rosa di commissari e i commissari erano estratti da questa rosa; o viceversa, prima l’estrazione e poi la votazione). I pregi di questo sistema erano tanti: il commissario si trovava a operare sotto l’occhio attento di tutta la comunità; i posti a disposizione erano sufficienti a coprire gli eventuali “appetiti”; il commissario rappresentava un’area scientifica che lo aveva eletto ed era costretto a rispondere ai suoi elettori. Il sistema così congegnato non era perfetto, ma aveva il pregio che, almeno nelle discipline scientifiche, i concorrenti molto bravi risultavano vincitori. Gli evidenti difetti erano un periodo troppo lungo di attesa (se non avevi successo, dovevi aspettare 4-6 anni, per un’altra chance) e l’eccessiva rigidità verso le sedi. Come fatto notare da Eco in una celeberrima bustina, la sede doveva de facto accettare il concorrente, anche se aveva bisogno di altro. Se ci fosse stato un fantomatico raggruppamento che avesse compreso tutti i giochi di carte, magari alla sede che aveva bisogno di un esperto di bridge, gli poteva capitare un campione di poker (e la sede non aveva alcuno strumento per opporsi). Al fine di ovviare a questo inconveniente, fu introdotta da Ruberti l’autonomia universitaria. Come fatto notare da Figà Talamanca in un intervento su Roars, Ruberti non fu messo in condizione di completare l’iter della riforma, e l’autonomia partì non come pensata dal Ministro. L’autonomia universitaria che ne uscì, a mio parere, ha ricalcato nei pregi (pochi) e nei difetti (tanti ed evidenti) quella delle Regioni. Si sono create così strutture con grande autonomia di spesa ma sostanzialmente senza capacità impositiva. Quindi le Università ricevevano, a babbo morto, i soldi dallo Stato che erano libere di spendere in modo autonomo e sostanzialmente senza controllo. I concorsi divennero locali e frammentati. Abbiamo avuti molti casi di concorrenti bravissimi che non sono mai riusciti vincitori pur partecipando a moltissimi concorsi di fila. Potendo puntare a vincere solo i concorsi banditi dalla propria sede, i concorrenti finirono per fare carriera solo in una sede ingenerando un pericoloso fenomeno di incesto culturale (si scrisse su Il Mulino di “inarrestabile ascesa del cretino locale”). Per ovviare a questa situazione prima Mussi e poi la Gelmini ritennero che la creazione di un’Agenzia di Valutazione rendesse possibile l’introduzione di incentivi per sedi che si comportassero in modo virtuoso. L’esperienza dell’ANVUR e delle mediane, ci fa supporre che questa strada non sarà di facile percorribilità
A mio parere il problema nasce da un’autonomia sbagliata: o si toglie parte dell’autonomia, realizzando concorsi nazionali, evitando la frammentazione e focalizzando l’attenzione della comunità scientifica di riferimento sui commissari del concorso nazionale o si percorre la strada opposta. Cioè si dà potere impositivo alle singole Università (ossia gli si permette di alzare le tasse), si abolisce il valore legale del titolo di studio e si mettono le Università in concorrenza fra loro lasciando che sia il Mercato a decidere sul ranking delle Università (esattamente come succede in USA). Personalmente preferirei di gran lunga un sistema centralista a quello americano (non fosse altro che con tasse universitarie alte, non sarebbe facile garantire il diritto allo studio). (Fonte: V. Vespri, roars 01-11-2012)
Un commento (rmotta): I docenti USA hanno una qualità che nel nostro sistema é quasi sconosciuta: una onestà intellettuale per identificare il candidato più idoneo (indipendentemente da indici bibliometrici o altri indici quantitativi) a ricoprire un posto. L’uso di indici bibliometrici in Italia é “necessario” perché é l’unico antidoto alle degenerazioni del sistema (come é sempre avvenuto nel passato). Un altro commento (F. Bizzarri): Secondo me è un ragionamento che vale per molte altre categorie … mi viene in mente ad esempio quella dei politici … forse è un problema culturale del nostro popolo.
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