THE GLOBAL BRAIN TRADE Stampa

Dei 60 milioni di persone che vanno a lavorare all’estero nei paesi OCSE circa un terzo ha una laurea. Se si considerano solo i ricercatori, in media il 40% va a lavorare in un paese diverso da quello in cui è stato educato. Percentuale che sale al 50% se si considerano gli scienziati più citati. Per comprendere davvero un fenomeno occorre quantificarlo, misurarlo. E anche se la statistica spesso spaventa, la percentuale più semplice e significativa è la differenza tra ricercatori in entrata (educati in un altro paese), rispetto a quelli in uscita: il bilancio del talento. Ed è questo bilancio, che per l’Italia è in forte perdita, a darci le proporzioni della “fuga”: 3% in ingresso contro il 16.2% in uscita, ovvero un deficit che segna -13%. Le percentuali sono invece in pareggio, come per la Germania, positive – clamorose Svizzera e Svezia, ampiamente oltre il +20%, abbastanza bene Regno Unito (+7.8%) e Francia (+4.1%) – oppure in perdita assai più lieve, come la Spagna circa al -1% (7.3%-8.4%). Per trovare un bilancio nettamente peggiore dell’Italia dobbiamo, infatti, prendere in considerazione l’India, con meno dell’1% di ricercatori stranieri in ingresso contro quasi il 40% in fuga. E quanti di questi talenti fanno ritorno, dopo un’esperienza all’estero, nel loro paese? Per l’Italia è presto detto: il programma di rientro intitolato a Rita Levi Montalcini ha consentito il reclutamento di poche centinaia di ricercatori che si trovavano all’estero, in circa un decennio, un recupero di pochi punti percentuali di un esodo che invece è probabilmente superiore ai diecimila ricercatori in uscita.  Nel resto dei paesi nostri concorrenti, almeno la metà dei ricercatori che fanno un’esperienza di lavoro all’estero, poi ritorna e trova una collocazione in patria. Si stenta a credere a questi numeri, anche perché è molto difficile ottenere dei dati, ma basta pensare che una recente ricerca ha censito quasi ventimila ricercatori italiani negli Stati Uniti, e si stima ce ne siano circa altrettanti in tutta Europa. Una recente indagine tra migliaia di ricercatori “mobili” in Europa ha dato un risultato per nulla sorprendente: la motivazione principale di chi ha cercato un’esperienza all’estero e la spinta maggiore a non fare ritorno è la mancanza di opportunità
Si stenta a credere a questi numeri, anche perché è molto difficile ottenere dei dati, ma basta pensare che una recente ricerca ha censito quasi ventimila ricercatori italiani negli Stati Uniti, e si stima ce ne siano circa altrettanti in tutta Europa. Una recente indagine tra migliaia di ricercatori “mobili” in Europa ha dato un risultato – almeno per me – per nulla sorprendente: la motivazione principale di chi ha cercato un’esperienza all’estero e la spinta maggiore a non fare ritorno è la mancanza di opportunità.
(Fonti: P. Valente, roars 21-10-2012. C. Franzoni C. et al., “Foreign Born Scientists: Mobility Patterns for Sixteen Countries”, maggio 2012)
La seguente tabella è riprodotta parzialmente da http://spectrum.ieee.org/at-work/tech-careers/the-global-brain-trade