QUALI OBIETTIVI E VALORI NELLA VALUTAZIONE DELLA RICERCA? Stampa

Frutto di un’accettazione più o meno convinta, più o meno consapevole, più o meno rassegnata, l’attiva collaborazione dei settori scientifici è l’esito di una sistematica opera di persuasione, anche retorica, che conferma qualcosa di ben noto nella letteratura sull’argomento: ossia che la valutazione, come del resto tutti i dispositivi di controllo caratteristici dei nostri tempi («inspection age») e dei nostri sistemi sociali («audit society»), necessita di non essere avvertita come un corpo estraneo e invasivo ma come una prassi ovvia, naturale, che insomma non desti sorpresa. In prima battuta la direzione degli individui avviene oggi non più limitando direttamente le libertà, ma «liberando» autonome razionalità di auto-governo e autocontrollo (self-empowerment, self-management, self-accountability, ecc…) e, con esse, pratiche capillari di controllo reciproco: catene in cui ciascun anello sollecita quello vicino alla medesima condotta responsabile. Una volta acquisito l’habitus mentale adeguato («cambiare le menti», dice qualcuno) la macchina può partire; anzi, deve partire. Se una volta era nozione comune «Meglio nessuna valutazione che una cattiva valutazione», velocemente si è approdati al «Una valutazione è comunque necessaria» e adesso – ostinato di contro alle evidenze o rassegnato all’ineluttabile – campeggia il «Meglio anche la peggiore valutazione». Ma … meglio o peggio, buono e cattivo – in vista di cosa? Ne La scienza come professione Max Weber parla dell’impossibilità di presentare «scientificamente un atteggiamento pratico, tranne il caso della discussione sui mezzi per uno scopo che si presuppone dato». Forse si dovrebbe partire da questa consapevolezza, unita alla consapevolezza che sempre, nell’atto di definire metri e misure, si pongono anche gli obiettivi. All’opposto, giudicare cosa sia meglio o peggio senza avere esplicitato in relazione a quale obiettivo, o senza avere neppure presente con chiarezza l’obiettivo, è un esercizio soltanto astratto, ma non per questo privo delle peggiori ricadute concrete.
Rispetto a questioni del genere si avverte da noi un’insofferenza. Eppure altrove il dibattito scientifico sulla valutazione non guarda con sospetto agli aspetti teorici. Per esempio, capisce l’importanza – anche solo per evitare nella pratica gli errori più grossolani – di distinguere tra «valutazione ristretta» e «valutazione ampia», ciò che non corrisponde alla dicotomia elementare «valutazione interna» e «valutazione esterna», nel senso del riferimento al «chi» valuta (autovalutazione o agenzie terze), ma esprime una distinzione funzionale, riconducibile alla questione formale «Su quali basi normative si viene valutati?». La valutazione infatti (nesso ovvio a cui non sempre si pensa) opera in riferimento a valori. Bisogna quindi distinguere quali sono i valori che la guidano: se (valutazione ristretta) norme e valori costitutivi di una specifica disciplina scientifica – la quale sempre, in virtù di questo riferimento, premia o sanziona determinate azioni e risultati – oppure (valutazione ampia) la compagine di norme e valori di volta in volta dominanti nella società di appartenenza, certo non privi di influenza sulla scienza, ma in linea di principio distinti da quelli che vigono al suo interno.
La distinzione diventa decisiva in questioni come l’allocazione delle risorse, le scelte relative alle aree di ricerca da promuovere o dismettere e i progetti da sostenere, la delineazione dei profili professio­nali da perseguire. Di fatto «l’organizzazione liberale della scienza», il principio per cui essa va lasciata autorganizzarsi sul presupposto della sua naturale fecondità per il progresso economico-sociale, si è ristretto a spazi d’élite. Con l’entrata in scena dei «legittimi portatori di interesse» e della parola d’ordine «value for money» (sono soldi pubblici, bisogna renderne conto pubblicamente), si ritiene giustificato indicare alla ricerca le vie da battere, i rami da tagliare, le relazioni da stringere, i modelli da assumere. Su queste materie parrebbe che le decisioni non possano essere rimesse a studiosi e scienziati, ma neppure – questo è il nodo – possano prescindere da loro. Ciò genera tensioni inevitabili, oggetto di una vera e propria assiologia del sapere scientifico.
(Fonte: V. Pinto, roars 17-06-2012)