SUL VALORE LEGALE DELLA LAUREA Stampa

Già al Meeting di Comunione e Liberazione del 2003 davanti al Ministro Moratti, l’economista della Margherita, Enrico Letta, aveva esplicitamente menzionato l’abolizione del valore legale della laurea come possibile soluzione alle difficoltà incontrate dagli atenei di fronte alla “massificazione” dell’università. A sostegno di tale proposta interveniva l’allora Presidente della Compagnia delle opere Vittadini e, di lì a poco, il professore di economia internazionale Cantoni su Panorama. In Italia, da sempre, si è a caccia del cosiddetto “pezzo di carta”, anche se poi, tutti sanno, che è più la raccomandazione a contare e poco valore hanno i titoli di studio. Già Luigi Einaudi aveva espresso dubbi sul “valore legale” della laurea, giudicandolo, nel suo saggio “Sul monopolio culturale della scuola di stato”, una maniera per uniformare, di fatto, gli insegnamenti in tutte le scuole ai programmi decisi dallo Stato, pregiudicando alla radice ogni enunciazione di libertà d’insegnamento. Insomma, diceva Einaudi, affermare che tutte le lauree, ovunque prese, hanno lo stesso valore è un falso concettuale, poiché il valore dipende dalla valentia e dalla qualità degli atenei. E ora, più di mezzo secolo dopo, fra le altre questioni, il governo affronta anche quella del “valore legale della laurea”, perché dotare le imprese e il mondo del lavoro in generale di strumenti migliori per valutare un candidato all’assunzione, favorisce la produttività e la crescita, valorizzando il merito piuttosto che il titolo. E lo fa studiando il dossier sulle lauree, con due diverse ipotesi forti di riforma. La prima consiste nel determinare il valore unicamente dalla reputazione degli atenei: insomma un 110 e lode preso in un’università più facile, meno buona, non può valere un 100 che è costato più fatica presso un ateneo più difficile e migliore sotto ogni punto di vista. La seconda, meno drastica e più arzigogolata, prevede l’eliminazione del voto di laurea dal calcolo del punteggio nei concorsi pubblici, in modo da non favorire chi si laurea in una pessima università a svantaggio di chi ha faticato in un centro di eccellenza.
In generale l’idea appare ottima, sia nella prima (migliore) che nella seconda (peggiore) versione, ma vi è, come al solito, qualche recondito pericolo da considerare.
L’applicazione del nuovo orientamento potrebbe realizzare nuove diseguaglianze, con un “federalismo” universitario dove le maggiori risorse fossero destinate ai migliori atenei; con inoltre un meccanismo sperequativo tra i cittadini, cioè tra chi può permettersi università migliori e tutti gli altri.
Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 26 novembre 2005, proponendo di abolire il valore legale della laurea, sosteneva che tale “rivoluzione”, potrebbe far sì che non sia più necessario il possesso di un titolo di laurea per la candidatura a un concorso della pubblica amministrazione, né per l’esercizio di una libera professione. Come scrisse allora su IBS Focus Diego Menegon, il vero problema, ieri come oggi, è la difficoltà di valutare l’offerta di università, in genere pubbliche e di incentivare queste ultime a migliorarsi.
Già nel 2003, il braccio di ferro tra il ministro Moratti e i docenti, nonché il reinserimento all’ordine del giorno dei temi della ricerca e dell’università, hanno acceso il dibattito. Sempre nel 2005, il 21 e 25 giugno, Roberto Perotti e Daniela Marchesi scrissero due articoli sul Sole 24 Ore in cui tracciavano un quadro dei mali dell’università italiana, per poi esprimere scetticismo in merito alle soluzioni proposte dal ministero. Oggi le cose non sono cambiate. Un problema centrale, ad esempio, s’incentra sull’individuazione del criterio che di fatto orienta gli studenti nella scelta. Sono molti, infatti, coloro i quali mirano a laurearsi presto e con un punteggio alto per superare in giovane età un concorso alla Pubblica Amministrazione, il quale richiede solitamente altro rispetto a quanto acquisito durante i corsi di laurea. Circa poi i costi e la sperequazione evidente fra cittadini, già la Bocconi aveva proposto una possibile soluzione. Cioè l’elargizione di borse e la copertura totale o parziale degli oneri mediante voucher. O, altrimenti, fondazioni e imprese si prodighino per scommettere sulle giovani promesse e finanziare i loro studi nei paesi anglosassoni.
Lo scorso 25 maggio, il direttore Education di Confindustria, Claudio Gentili, ascoltato dalla commissione Cultura del Senato, ebbe modo di dire: “Nelle intenzioni del legislatore, il valore legale del titolo di studio doveva essere un ‘marchio di qualità’ concesso dallo Stato alle università”, che avrebbero dovuto “garantire ai cittadini la qualità della formazione universitaria”. “I cittadini – continuava Gentili – che si servono di professionisti, le imprese e il settore pubblico che assumono laureati sarebbero stati così garantiti sulla qualità delle competenze di quelle persone in base a curricula certificati”. Ma, sempre secondo lui, “il vero limite del valore legale sta nel suo uso formalistico che spesso ha ottenuto risultati opposti a quelli desiderati”. Sicché: “Abrogare il valore legale potrebbe significare – liberalizzare la formazione universitaria, lasciando che chiunque possa istituire una ‘università’ e che il mercato faccia da regolatore del valore, sostanziale e non formale, dei titoli rilasciati”.
Furono e sono contrari all’idea di nuovo accarezzata dal governo, alcuni sindacati e diverse associazioni di docenti, studenti e ricercatori universitari ed anche gli ordini professionali manifestano forti perplessità.
A parte ciò, come si ricordava nel 2008, quando un decreto legge dell’allora governo tentò, inutilmente, di abolire il valore legale della laurea, per fare questo non serve abrogare nessuna disposizione di legge, ma adottare una disciplina semplice e senza costi.  Con una graduatoria di atenei riconosciuta, comprendente anche atenei stranieri, si possono bandire concorsi fatti per “pesar”’ in maniera diversa le lauree secondo il ranking dell’università di provenienza dei candidati. Certo, distorsioni e aggiramenti saranno sempre possibili. Ad esempio si potrebbe stabilire una differenza di punteggio molto ridotta tra la prima e l’ultima università del ranking, in modo che la posizione in classifica non condizioni eccessivamente l’esito del concorso. Ma, per il fatto che in taluni casi possano essere banditi concorsi dolosamente “aggiustati”, peraltro facilmente individuabili, dobbiamo rinunciare a questo strumento? Senza contare che, a seguito dell’abolizione del valore legale, s’innescherebbe automaticamente una concorrenza virtuosa che riguarderebbe ogni aspetto saliente del sistema formativo universitario. Il ranking determinerebbe l’ammontare delle risorse di ciascun ateneo, sia quelle provenienti dal Ffo, e dovrebbe cominciare ad accadere già con il nuovo decreto legge, sia quelle provenienti dagli studenti. Per non scendere, o per risalire nel ranking, le università dovrebbero cooptare ricercatori e docenti preparati, scartando i “figli di” o gli “amici di”. L’amministrazione potrebbe cominciare a selezionare effettivamente i migliori a beneficio delle sue performance, e così via.  Pertanto, io credo, l’eliminazione del valore legale della laurea non presenta alcun serio problema tecnico né alcun costo. C’è solo un ostacolo ma formidabile, ed è, al solito, di natura politica.
(Fonte: C. Di Stanislao, www.improntalaquila.org 24-01-2012)