IL PRECARIATO NELL’INSEGNAMENTO E NELLA RICERCA NELLE UNIVERSITÀ Stampa

La legge 240/2010 ha introdotto, al posto dei ricercatori a tempo indeterminato (RTI), due diverse figure di ricercatori a tempo determinato: i ricercatori di tipo B (ad oggi poco meno di 4mila, inseriti in un percorso di tenure triennale che dovrebbe stabilizzarli, se abilitati, come Professori Associati) ed i ricercatori di tipo A (ad oggi poco più di 4mila, triennali precari con al massimo la possibilità di un rinnovo biennale). Entrambe queste figure sono oggi contrattualizzate individualmente, al di fuori dello statuto giuridico della docenza universitaria (nella quale erano invece inseriti i RTI), con un rapporto di lavoro di natura subordinata di diritto privato regolato in termini generali dalla legge 240/2010, ma in termini specifici e assai variabili in base ai regolamenti dei diversi Atenei (in alcuni casi, anche molto diversi). Per entrambe queste figure è previsto un obbligo di attività didattica, molto variabile a seconda dei regolamenti di ateneo.
I dottorandi di ricerca (oggi meno di 9mila) sono una figura istituzionalmente ibrida tra studio e lavoro: formalmente studenti in un percorso di alta formazione, pagano tasse universitarie ed accedono ai relativi servizi, ma svolgono anche attività di ricerca, hanno l'obbligo di un "impegno esclusivo e a tempo pieno" e versano contributi presso la Gestione Separata INPS come i lavoratori parasubordinati. Il loro obblighi didattici sono assai variabili.
Gli assegnisti di ricerca e i borsisti post-dottorato (stabili in questi anni intorno alle 15mila unità) sono precari assunti con contratti di diritto privato per compiti esclusivi sulla ricerca di durata variabile tra uno e tre anni. La maggior parte degli Atenei consente comunque loro di svolgere docenze considerandole attività esterne al proprio contratto di lavoro (subordinandole quindi ad un limite di reddito o a un limite orario annuo, molto variabile tra le sedi, e all'autorizzazione del proprio responsabile scientifico). A questi si aggiungono diverse migliaia di borse di ricerca (di importo e durata molto variabile, con fondi esterni) e docenze a contratto (circa 25mila, ma, come detto, in parte svolte da assegnisti e dottorandi, in parte da professionisti autonomi o impiegati presso aziende e amministrazioni pubbliche).
Queste decine di migliaia di precari hanno pagato più di altri questo lungo decennio di tagli e di contrazione del sistema universitario. Si tratta di un'intera generazione di giovani ricercatori e docenti che non può esser semplicemente messa da parte, non solo per l'ovvio rispetto dei loro diritti, ma anche per la salvaguardia dell'interesse collettivo di chi ha investito sulla loro formazione e sul loro lavoro.
Un rilancio ed un'espansione del sistema universitario dovrà obbligatoriamente prevedere un diverso e più equilibrato sistema di reclutamento e inquadramento delle attività di didattica e di ricerca, ma sarà naturalmente necessaria una fase transitoria, che attivi specifici percorsi di stabilizzazione rivolti agli attuali precari dell'università che permetta loro di essere valutati in percorsi certi ed oggettivi e quindi stabilizzati nel quadro di una revisione complessiva dei ruoli e del reclutamento. (F: Flc Cgil 25.05.20)